Lunedì sera Franco Bernabè, ex numero uno di Acciaierie d’Italia scelto nel 2021 per salvare il destino dell’Ilva di Taranto, parlava dell’ultima inchiesta sui dossieraggi come un esempio di «grandissima sciatteria e mancanza di controlli». Forse non ricordava che tra i clienti della Equalize di Enrico Pazzali e Carmine Gallo, c’era proprio l’Ilva. Come racconta l’informativa dei Carabinieri del nucleo di Varese, infatti, «i rapporti con Ilva necessitano di uno specifico approfondimento e sono state registrate numerose «conversazioni circa i rapporti tra il gruppo e la società in amministrazione straordinaria». A quanto sostengono gli inquirenti, infatti, il rapporto tra il gruppo e la società metallurgica è tenuto da Vincenzo Meles, procuratore di Ilva Spa. È proprio Pazzali a riuscire a piazzare la piattaforma Beyond all’acciaieria di Taranto, grazie ai suoi rapporti con Vincenzo Falzarano, già dirigente in Eur Spa (dove Pazzali è stato ad dal 2015al 2020) e ora proprio in Ilva. La consulenza è di 17.800 euro. Ma ce ne sono molti altri. C’è Erg, che aveva contattato Equalize per quella storia di presunto insider trading da parte dei suoi dipendenti, un incarico che verrà a costare più di 117.000 euro. Il fondo Clessidra ha invece fatture per 154.000 euro. Heineken, 25000 euro. Banca Profilo invece ha speso 43,800 euro mentre Barilla si è fermata a 17000; Bennet: 4000. Gli affari vanno bene, anche perché in una conversazione tra Gallo e Pazzali, il secondo spiega al primo di bonificargli 51.000 euro sul proprio conto di Poste Italiane e 300.000 su quello di Intesa San Paolo per un totale di 351.500. I clienti sono i più disparati come le ricerche, tra cui quella sull’oro olimpico Marcell Jacobs. Secondo gli inquirenti i clienti si dividono in tre categorie. Chi è all’oscuro della natura dei dati contenuti nei dossier, chi non si interessa della natura dei dati ed accetta comunque il rischio ma anche chi è pienamente consapevoli dell’origine illecita del dato e che anzi li richiedono proprio per la loro delicatezza e affidabilità. Eni ha fatture per 377.000 euro. Il Cane a sei zampe aveva fatto ricorso a Equalize per un report sull’imprenditore Francesco Mazzagatti, imputato a Milano nel processo sul falso complotto che è derivato da quello principale su Eni-Nigeria. D’altra parte, Mazzagatti faceva parte della cricca di Piero Amara e Vincenzo Armanna. Eni aveva appunto commissionato un dossier che poi è stato depositato al processo sulla presunta tangente da 1 miliardo, dove tutti gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste. In quel dossier confezionato da Gallo e Calamucci emergeva come Mazzagatti fosse legato agli ambienti della criminalità organizzata tanto che si spiegava che la crescita del gruppo Napag si stava sviluppando grazie alle connivenze con ambienti della malavita calabrese. Mazzagatti aveva sporto querela contro il dossier, ma sia il tribunale di Terni sia quello di Milano avevano archiviato le accuse. Il direttore degli affari legali di Eni Stefano Speroni risulta indagato. Ieri la società, in una nota, ha ribadito «di non essere mai stata, e di non essere, in alcun modo al corrente di eventuali attività illecite condotte da Equalize a livello nazionale o internazionale». Poi «conferma di avere a suo tempo conferito a Equalize un incarico investigativo a supporto della propria strategia e difesa nell’ambito di diverse cause penali e civili [..]». Aggiunge anche che «non risultano sottratti o mancanti atti di Eni, altre informazioni riservate o commercialmente rilevanti, o effrazioni ai sistemi informatici della società». Durante le perquisizioni di ieri in via Pattari a MIlano, sede di Equalize, sarebbero stati trovati anche atti riservati di Eni.
- Uno dei protagonisti intercettato: «Contatti nell’intelligence». Ricerche sull’oligarca russo Viktor Kharitonin, con interessi in Italia e fedele a Vladimir Putin. Tentativi di comprare apparecchi di localizzazione scontati.
- Gli audit non hanno visto gli accessi illegali ai dati: perché? Giallo sul ruolo di due dipendenti dell’università dell’Essex
Lo speciale contiene due articoli
Si sarebbero spinti fino a intrecciare relazioni con l’intelligence, anche straniera, e a condurre le spiate fino in Russia. La rete di spionaggio, stando agli atti dell’inchiesta, si è rivelata più intricata e ramificata di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Samuele Calamucci, ingegnere quarantacinquenne con un passato nel collettivo di Anonymous, per esempio, sembrerebbe tenere in pugno informazioni che potrebbero far tremare i piani alti. «Abbiamo contatti nei servizi segreti», si fa scappare in una conversazione intercettata. Poi aggiunge che la ramificazione delle relazioni potrebbe arrivare anche a «quelli deviati». E completa la frase: «Di quelli lì ti puoi fidare un po’ di meno, però li sentiamo, fanno chiacchiere, sono tutte una serie di informazioni ma dovrebbero diventare prove, siccome quando poi cresci, crei invidia, soprattutto negli stupidi... quelli che si fanno chiamare agenzie investigative». E racconta di «una volta che abbiamo fatto un report... che abbiamo fatto su un report dei servizi segreti... però lo fa uno che lo fa di mestiere la reportistica, dove dico, quei report là, per quello io voglio sempre scrivere un buon report». L’intento sarebbe quello di sfruttare ogni singola breccia per alimentare una macchina di potere sommerso. Il rischio, certo, esiste. E lui lo sa bene. «Un cialtrone finisce male prima o poi. Noi no. Noi abbiamo la fortuna di avere clienti top, clienti importanti». Un’ombra di vantata superiorità emerge dal tono.
Ma in questo mondo di ombre non c’è spazio per gli errori: se allegano pagine dello Sdi, il sistema informativo in uso alle forze di polizia, o estratti conto ai loro report, c’è il pericolo che il tutto si trasformi in un’arma a doppio taglio. E quando ci si muove sulla strada degli 007 il rischio è dietro l’angolo. Calamucci dovrebbe saperlo bene, visto che, tra sussurri e mezze frasi, racconta di aver avuto a che fare con le barbe finte in passato: «Mi buttavano nella cella con il terrorista, mi facevo crescere la barba o mi rasavo a seconda del posto...». Una traccia di queste relazioni negli atti c’è. Tra i 108.805 file, che spaziano dagli atti di polizia giudiziaria, agli atti amministrativi, c’erano perfino documenti classificati dall’Aisi, l’agenzia d’intelligence che si occupa di minaccia interna. Le pagine, marcate con quel timbro che racconta più di mille parole, «Riservato», si addentrano in argomenti delicati, come il terrorismo, con analisi di siti islamici e la raccolta di fatwa emesse dai influenti imam. Uno dei quali, nel documento riportato tra gli atti, critica la rincorsa all’armamento nucleare da parte delle grandi potenze allo scopo di utilizzarlo come strumento di terrore.
E di queste relazioni con il mondo dell’intelligence negli atti c’è una ulteriore passaggio. Secondo chi indaga, Calamucci avrebbe fatto una mini trasferta in città per «verificare la possibilità di acquistare a prezzo ribassato l’apparecchiatura per le localizzazioni». Secondo i pm «si tratta [...] di soggetti che godono di appoggi di alto livello, in vari ambienti, anche quello dei servizi segreti, pure stranieri, e che spesso promettono e si vantano di poter intervenire su indagini e processi, per bloccare iniziative giudiziarie». Il quadro che si delinea, insomma, è quello di un intreccio che trascende i confini nazionali, giungendo a coinvolgere intelligence straniere e spingendosi fino in Russia. Un gioco pericoloso. Non è un caso che Calamucci insista spesso sulla protezione dei dati informatici utilizzati dal gruppo Equalize per le attività illecite. Teme che il computer utilizzato anche fuori casa possa essere compromesso.
Del resto i bersagli che vengono scelti sono pezzi molto grossi. Gli inquirenti lo scoprono quando il braccio tecnico di Equalize, che si vanta di condividere ancora file con gli hacker di Anonymous, racconta a un collega di aver installato un’applicazione per la traduzione simultanea della lingua russa. Gli consentirebbe di realizzare un report relativo alla presenza di alcuni asset economici russi. La Procura ci metterà qualche mese a capire cosa ha in mente di fare Calamucci. Ma nel giugno del 2023 gli inquirenti lo intercettano mentre parla di fare approfondimento su un «russo» con interessi a Cortina d’Ampezzo. Ebbene secondo le indagini si potrebbe trattare dei cittadini russi\kazaki Viktor Kharitonin e Alexandrovich Toporov, impegnati in Italia nella costruzione di un hotel a Cortina d’Ampezzo e la gestione di svariati resort di lusso lungo la penisola. «Il pesce» su cui vuole mettere le mani Equalize è davvero grosso. E si capiscono le cautele dello stesso Calamucci. Viktor Kharitonin è stato socio e grande amico di Roman Abramovich, ma soprattutto è uno degli uomini più ricchi della Russia, considerato nel cerchio magico degli uomini di cui si fida il presidente Vladimir Putin. Ha anche la residenza a Pordenone e un patrimonio personale stimato in 1,3 miliardi di euro. Ha costruito la sua fortuna investendo nel settore farmaceutico, fondando proprio insieme con Abramovich la Pharmstandard. Nel 2018 il suo nome è stato inserito nel report del Congresso degli Stati Uniti sugli oligarchi, in vista delle sanzioni.
Proprio in quei mesi di ricerche di Equalize, Kharotonin era sui quotidiani europei per l’acquisto (e il salvataggio), tramite la sua Nr Holding, dell’aeroporto di Francoforte, nonostante la guerra tra Russia e Ucraina. All’epoca non era nella lista delle persone oggetto di sanzioni Ue e l’acquisizione fece molto rumore in Germania. Chissà Calamucci perché cercava informazioni su di lui.
Inchiesta sugli spioni. Un buco nei controlli apre alla pista inglese
Le migliaia di pagine dell’inchiesta milanese sulla rete di dossier attorno al nome di Enrico Pazzali e della sua Equalize dipingono tre differenti scenari di «spionaggio» abusivo. Il primo relativo ad aziende e mirato chiaramente a fatturare. Il secondo riconducibile a interessi politici e di controllo attorno alla sfera di potere dello stesso Pazzali. Il terzo, invece, appare immerso in una zona grigia. Al tempo stesso, sempre leggendo le pagine delle ordinanze, emergono tre filoni di «esfiltrazione» dei dati, come si dice in gergo tecnico. Il primo legato ad agenti o militari infedeli che entravano nelle rispettive banche dati di competenza. Il secondo legato ad attività palesi di hackeraggio o intrusione tramite trojan e il terzo molto più delicato e complesso. Si tratterebbe di una attività delegata a informatici che, per ragioni di incarichi pregressi o in corso, conoscevano bene l’infrastruttura digitale da violare.
Qui, dunque, sta l’elemento più spinoso. Soprattutto se in futuro si vorrà imparare qualcosa di concreto dalla lezione che deriva dalla «Equalize».
Secondo l’ordinanza, a collaborare con l’azienda milanese con sede a due passi dal Duomo sarebbero figure che in passato hanno gestito e manutenuto impianti digitali come quello del Ced, Centro elaborazione dati, che fornisce tutte le Forze di polizia italiane. È chiaro che accedendo in qualità di amministratori o manutentori hanno potuto bypassare tutti gli alert preposti. Non solo: avrebbero anche potuto mettere mano all’intera filiera di informazioni muovendosi in parallelo sui backup (duplicazione dei dati su supporti esterni per avere una copia di riserva) di sicurezza. Nessuno si sarebbe potuto accorgere dell’esfiltrazione perché non ve ne era tecnicamente traccia. Nella realtà, però, dovrebbe essere preposta una attività di audit mirata a controllare il lavoro dei controllori. Ed è proprio l’assenza di tracce di tale attività che avrebbe dovuto insospettire gli sceriffi dell’audit. Anche i tecnici informatici per accedere si «loggano», e il fatto stesso che non venisse registrata questa operazione avrebbe potuto accendere un dubbio. Un po’ come se si lasciasse un tassello vuoto nella lista progressiva degli accessi. Chi aveva il compito di controllare non ha chiesto conto dell’assenza di informazioni? Non si è preoccupato che in fase di preparazione del «salvagente» (in gergo: disaster recovery) il backup potesse essere portato al di fuori dell’Italia, come si evince dalla stessa ordinanza? Tutto domande che meritano risposte. Vale per la piattaforma Ced, citata sopra, ma anche per quella dello Sdi (Sistema di indagine) da cui sono stati sottratti oltre 52.000 file.
È chiaro che bisogna partire da qui e camminare a ritroso, così come sarà importante che l’inchiesta risponda a due grossi interrogativi attorno al nome di altrettante presunte collaboratrici di Equalize o di società correlate. Al tempo stesso dovrà spiegare che cosa ci sia sulla strada che porta all’università dell’Essex a Colchester, in Gran Bretagna.
I due nomi estremamente interessanti sono rispettivamente quello di Monica e Anna. Secondo gli inquirenti la prima potrebbe essere Monica Illsley, chief of staff dell’università inglese. La seconda sarebbe Anna Sergi, esperta analista di criminalità, anch’ella con incarico di professore, sempre a Colchester. Dalle conversazioni captate tra gli indagati la Illsley avrebbe un ruolo di primo piano per il celere accesso allo Sdi. La seconda, figlia di un celebre giornalista impegnato contro la ’ndragheta, si sarebbe occupata di analizzare le banche dati dei tribunali. Ovviamente, si tratta di accuse de relato. E come tali potenzialmente false. Gli inquirenti sembrano però prenderle sul serio, e a onor del vero gli stessi curriculum delle due analiste lascerebbero intendere che non siamo di fronte a due «scappate di casa», né a semplici prestanome. La Illsley ha avuto ruoli di peso nell’università e da oltre 20 anni svolge attività di coordinamento. Dal curriculum della Sergi visionato dalla Verità si evince un incarico stabile (con promozione nel 2018) a Colchester. Una serie di visiting fellow in Australia. Prima ancora incarichi a Cambridge, New York, Roehampton. E una prima attività da cui tutto nasce, presso Price waterhouse cooper a Milano. Gli inquirenti fanno notare che Pwc e Ibm hanno tra loro un link diretto e la seconda ha avuto un ruolo specifico nella creazione della banca dati Ced.
Ora, ci auguriamo che le due vengano liberate da ogni possibile accusa e che si tratti di millanteria. Resta però il tema di fondo. Le competenze per collaborare al sistema dossieristico ci sarebbero eccome. Ma, al di là dei due nomi in questione, la pista che porta all’estero non è certo da trascurare. Le informazioni sottratte dal gruppo della Equalize sono andate chiaramente a formare un data base autonomo e parallelo. Dove? Nell’ordinanza si citano la Gran Bretagna e la Lituania, Paese che con Londra ha stretti rapporti di natura diplomatica e non solo. Se effettivamente sono stati spostati i dati in sede di backup allora potremmo parlare di milioni di dati, non migliaia come indicato dagli inquirenti. Ora sono nella disponibilità di altre società estere? O di altre entità straniere? Se poi vogliamo tornare alla Illsley e alla Sergi, dalle carte degli inquirenti non emergono collegamenti diretti tra le due. Allora la domanda è: c’è un collegamento tra la Equalize e Colchester nell’Essex?
L’inchiesta della Dda di Milano e dei carabinieri di Varese svela il lato oscuro delle agenzie investigative e dell'accesso abusivo alle banche dati nazionali. Quattro persone sono ai domiciliari. E' indagato anche Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera Milano e azionista di Equalize.
Le accuse sono di associazione per accesso abusivo al sistema telematico, atti di corruzione, intercettazione illecita e persino detenzione illecita di apparecchi per le intercettazioni. Ma la maxinchiesta della Dda sul dossieraggio portata avanti dalla procura di Milano rischia di aprire il vaso di pandora di quello che il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha definito come un «gigantesco mercato nero delle informazioni riservate» che potrebbe valere milioni di euro.
Gli indagati sono più di 50, mentre le persone fermate sono sei. Quattro sono finiti agli arresti domiciliari. Tra questi l’ex super poliziotto Carmine Gallo, che ha passato una vita in procura di Milano e ha avuto stretti contatti con diversi procuratori. Tra gli indagati ci sono anche Leonardo Maria Del Vecchio, figlio del fondatore di Luxottica, e il banchiere Matteo Arpe insieme con il fratello Fabio. Ma nelle carte compaiono anche i nomi di Marco Talarico, l’amministratore delegato della banca d’investimenti Lmdv Capital di Del Vecchio jr o Fabio Candeli, l’amministratore delegato di Banca Profilo, banca di cui è azionista Arpe tramite il fondo Sator. Tutto passava da Equalize, la società dove il socio di maggioranza è Enrico Pazzali (presidente della fondazione Fiera Milano).
A detta della procura, quindi, Equalize avrebbe ricevuto in questi anni incarichi per approfondire questioni di business, ma anche per spiare la situazione patrimoniale di possibili co eredi testamentari. Accedere ai dati sensibili avveniva spesso tramite accessi telematici abusivi. L’agenzia Equalize, infatti, non solo tramite l’aiuto di alcuni hacker, potevano appoggiarsi su funzionari di polizia infedeli che, per il lavoro fatto in passato potevano raccogliere ogni tipo di informazioni sulle vittime.
Queste venivano sarebbero state prelevate in particolare dalle banche dati strategiche nazionali, come lo Sdi (per i precedenti di polizia dei cittadini), il Serpico dell'agenzia delle entrate, e il sistema valutario legato alle cosiddette Sos di Bankitalia, per poi rivenderle su commissione dei clienti. Fra gli spiati tramite l’accesso alle banche dati ci sono il presidente del Milan Paolo Scaroni, ma ance il presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Giovanni Gorno Tempini o il banchiere Massimo Ponzellini.
Il tema del rapporto tra il ministro della Difesa e il presidente del Consiglio non può essere banalizzato. Ieri il Corriere della Sera, attraverso un articolo di Francesco Verderami, ha rivelato che tra Guido Crosetto e Giorgia Meloni il rapporto è ai minimi termini. «Lui non partecipa più da tempo», scrive Verderami, «ai Consigli dei ministri. Lei si mostra amareggiata e anche arrabbiata. Perché per Giorgia Meloni il rapporto con Guido Crosetto appartiene alla sfera personale. Ma quanto sta accadendo rischia di travalicare quei confini e diventare un delicato caso politico. Le assenze del collega infatti sono diventate così tante che non potevano più essere frutto solo di coincidenze. Al punto che c’è chi si è spinto a chiedere lumi a Meloni. Ricevendo una risposta che ha confermato il problema: “Per i ministri venire in Consiglio è un dovere. Dopodiché si va avanti lo stesso. Il governo non si ferma perché qualcuno fa le bizze”. Ma oltre le parole», aggiunge Verderami, «ha colpito lo sguardo della premier, il senso di vuoto che in quel frangente non è riuscita a nascondere. Perché il legame tra Meloni e Crosetto è considerato inossidabile». Una decina di assenze, quelle di Crosetto in Consiglio dei ministri, che se condite con il «senso di vuoto» colto nello sguardo della premier, secondo la quale l’atteggiamento di Crosetto sarebbe «incomprensibile», restituiscono l’immagine di un governo che mostra qualche crepa.
Ma che è successo? Perché il «gigante» sarebbe arrabbiato? «Le interpretazioni sui motivi che hanno spinto il titolare della Difesa a issare un muro», leggiamo ancora sul Corriere, «si concentrano sul “conflitto” tra il ministro e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano sull’operato dei servizi. Materiale incandescente che aveva prodotto tensioni nei giorni di fine estate, quando, nel pieno del caso di dossieraggio che ha colpito anche il rappresentante della Difesa, erano diventate di dominio pubblico le critiche di Crosetto verso i vertici dell’Aise, contenute nell’esposto presentato alla Procura di Perugia. In quel passaggio si erano avvertiti sinistri scricchiolii nel rapporto tra Giorgia e Guido, per via di una frase che il ministro aveva lasciato trapelare: “Se Meloni non mi vuole, lascio”».
Ieri Crosetto è stato ascoltato dal Copasir proprio in merito alle indiscrezioni sui suoi dubbi riguardo ai dossieraggi operati, anche ai suoi danni, del tenente della Gdf Pasquale Striano. In relazione agli articoli usciti sulla sua casa, sui suoi guadagni e sui rapporti con un imprenditore, Crosetto ha esposto le sue perplessità direttamente al giudice Raffaele Cantone, che indaga sul caso: «Il livello di informazioni in questo caso», ha messo al verbale il ministro, «è molto approfondito e mi fa pensare che qualcuno abbia potuto intercettare i miei colloqui e comunque svolgere accertamenti particolarmente invasivi. Non sarei portato a ritenere che queste attività possano pervenire dai servizi nazionali ma non mi sentirei di escludere che anche da parte di Paesi stranieri possa essere stata effettuata una attività di ricerca di informazioni». L’Aise che fa spiare il ministro della Difesa: se fosse vero, ci sarebbe da tremare per la solidità delle istituzioni. Aise che è stata difesa immediatamente da Mantovano, autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, obiettivo delle critiche di Crosetto, critiche ribadite pure, a quanto ci risulta, in occasione della festa di compleanno di un noto esponente politico. Con il massimo rispetto, a questo punto lasciano il tempo che trovano i post di ieri su X con i quali Crosetto smentisce i dissapori con la Meloni: «Non in tutti i cdm ci sono argomenti che riguardano la Difesa», scrive, «e non possono essere fissati tenendo conto delle agende, degli impegni istituzionali od internazionali di ogni ministro». E il premier? «Solo per essere chiari, non c’è e non c’è mai stato gelo. Come sempre, ci sentiamo più volte al giorno», dice Crosetto, aggiungendo: «Il giornalismo italiano è così».
Nel tardo pomeriggio di ieri, la Meloni e Crosetto si sono incontrati a Palazzo Chigi per un colloquio informale.
ha dichiarato: «Non so se sono più sorpreso o preoccupato dopo aver letto le rivelazioni giornalistiche di oggi. Un piano preciso per danneggiare la Lega sembra ormai una cruda realtà che supera ogni fantasia. Certe commistioni tra il vertice della Guardia di finanza, magistratura e qualche giornalista compiacente non succedono nemmeno in Venezuela». Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, rispettivamente capogruppo della Lega al Senato e alla Camera, non sono stati da meno: «Inquietanti rivelazioni di stampa dimostrano che il bersaglio preferito dai giornalisti di sinistra era il Carroccio e Matteo Salvini. Oggi emerge un dato sconcertante che conferma quanto abbiamo sempre denunciato: una montagna di bugie strumentali sulla Lega e un pericoloso attacco alla democrazia».
Il vicepresidente vicario del gruppo di Palazzo Madama, Mara Bizzotto, ha aggiunto: «Dalla stampa arriva l’ennesima conferma di come la Lega sia da tempo bersaglio di una scandalosa macchina del fango creata ad hoc. Un metodo vergognoso per colpirci che palesa un’emergenza democratica». Un terremoto politico che quasi certamente farà sentire le sue scosse dopodomani in commissione Antimafia, quando l’ufficio di presidenza affronterà il tema dell’inchiesta della Procura di Perugia sul presunto dossieraggio di 172 vip, tra politici, imprenditori, star dello spettacolo e dello sport. Intanto, a rendere ancora più inquietante il quadro, ieri è emerso che la Procura di Perugia ha iscritto sul registro degli indagati anche un agente dei Servizi segreti. L’uomo sarebbe un dipendente dell’Aise. Fonti governative si sono, però, affrettate a precisare che lo 007 non ha (e non ha avuto in passato) incarichi operativi, ma di analisi. A lui Striano avrebbe fatto una strana proposta: «Se vuoi ti posso mandare un file che nessuno ha neanche in finanza ore ci sono le 500 imprese italiane rette da russi ci sarebbe da fare un lavorone, ma lo non riesco». Un’offerta a cui la barba finta avrebbe risposto: «Magari».
Dalle carte di Perugia emerge con chiarezza, almeno a giudizio dell’accusa, il tentativo che i due principali indagati dell’inchiesta, l’ex sostituto procuratore della Direzione nazionale Antimafia Antonio Laudati e Striano, avrebbero fatto per mantenere il controllo assoluto sulla gestione delle segnalazioni di operazioni sospette dell’Antiriclaggio, funzione a loro affidata e che è finita al centro delle indagini.
A rivelare le mosse per tenersi stretta quella gallina dalle uova d’oro è stato l’attuale procuratore nazionale Giovanni Melillo, il quale, al suo arrivo, avvenuto nel 2022, si sarebbe trovato al centro di pressioni di altissimo livello.
Melillo ricorda una colazione di lavoro con l’ex comandante generale della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana e con l’allora capo dei reparti speciali Umberto Sirico, in cui quest’ultimo si sarebbe speso personalmente a favore di Striano. Scrive Melillo: «Durante tale colazione» il generale Sirico «nel discutere dei nuovi assetti da dare alla collaborazione con Dna in materia di gestione delle Sos mi chiese di accogliere la richiesta di incontro a suo dire più volte inoltrato alla mia segretaria dal sottotenente Striano (successivamente promosso tenente, ndr), indicatomi come ufficiale di polizia giudiziaria di grande esperienza nella materia».
Per questo Melillo invita Striano a partecipare a riunione organizzativa già fissata per il 4 agosto 2022.
L’investigatore indagato era al corrente delle buone referenze su cui poteva contare, tanto che a un collega che gli chiedeva se avesse domandato personalmente di parlare con Melillo aveva risposto: «Ovviamente sia Laudati che i nostri vertici sanno che io sono l’unico in grado di dire le cose come stanno da un punto di vista di polizia giudiziaria, quindi se qualcuno lo ha chiesto potrebbe essere stato Laudati o Sirico addirittura».
Melillo ha riassunto così il suo faccia a faccia con Striano: «Durante tale incontro mi limitai a registrare sue lamentele per la mancanza di collaborazione del gruppo ricerche della banca dati e a invitarlo a trasmettermi un appunto riservato, destinato sia a motivare quelle doglianze sia a formulare eventuali suggerimenti e proposte di miglioramento dell’organizzazione del settore di interesse [...]. La lettura dell’appunto, come già ho avuto modo di sottolineare, mi convinse definitivamente a ritenere urgente e non evitabile l’allontanamento dall’ufficio anche del Striano».
Cantone chiosa: «In sintesi il procuratore Melillo evidenzia come Striano, nell’appunto poi redatto ed allegato alla relazione, propose l’ufficializzazione del ruolo di coordinatore del gruppo Sos del più alto in grado (ovvero di sé stesso) e la concentrazione in un solo magistrato (contrariamente alle linee programmatiche individuate già nel corso della riunione del 4 agosto) del ruolo di referente; magistrato che, per l’esperienza in materia “non avrebbe potuto che essere il sostituto Antonio Laudati”».
Tre anni prima Striano, quando era stato distaccato per un periodo alla Direzione investigativa antimafia, aveva già assicurato ad alcuni colleghi che sarebbe rientrato alla Dna come «coordinatore del gruppo Sos» e aveva spiegato che raggiungere l’obiettivo era «intervenuto a suo favore lo stesso Laudati, il quale avrebbe parlato direttamente con il C3, laddove il C3 indica il Capo di Stato maggiore ovvero, all’epoca, il generale Sirico». Quest’ultimo «avrebbe preso informazioni su di lui tramite Laudati, attraverso il quale gli avrebbe poi fatto arrivare il messaggio del prossimo ed imminente incarico». Sentito dagli inquirenti perugini Sirico ha dichiarato: «Nell’ambito degli incontri che il dottor Laudati aveva con il Comando generale è possibile che lui sia venuto da me e mi abbia parlato del neo tenente Striano, indicandomelo come una persona con le caratteristiche adatte per essere impiegato nelle attività collegate alla gestione delle Sos». Per Cantone quindi, «Laudati non è affatto estraneo, come sostenuto in sede di sit, al rientro di Striano in Dna nel 2019 [...] essendosi egli stesso mosso a tale scopo, parlandone con il generale di corpo d’armata Sirico e successivamente, concordando direttamente con il generale Padula (Giovanni, ndr) il regime lavorativo del gruppo e di Striano in particolare».
Nella sua relazione inviato a Perugia Melillo ricorda anche che, quando ci fu la discovery dell’inchiesta, Laudati «nell’immediatezza si dichiarò allibito dalla notizia dei fatti attribuiti a Striano, dicendosi nel contempo pronto a mettere la mano sul fuoco sulla correttezza di ufficiale di polizia giudiziaria che con lui collaborava da anni». Melillo avrebbe reagito sconsigliando gesti alla Muzio Scevola: «Scherzosamente, ma non troppo, invitai il collega a non mettere la propria mano sul fuoco, data anche la gravità degli eventi e del contesto politico nel quale gli stessi si verificavano».






