Ciak, gli girano. Beppe Grillo sta acquattato a Marina di Bibbona e da lì ha fatto partire una bordata alla Gino Bartali: gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare. Inficia, come Garante, le lezioni di domenica scorsa alla Costituente del Movimento Cinque Stelle che lo hanno messo fuorigioco e impone una votazione bis. Uno dei suoi fedelissimi, Danilo Toninelli, lo aveva annunciato: «Credono di aver vinto la guerra, ma è solo il primo round, stanno pensando di calpestare il cadavere del leone, non hanno capito che il leone è ferito, ma ha molte altre zampate da dare». Ci ha pensato tutta la mattina ieri Beppe Grillo: una nuotata, malgrado il freddo, per smaltire la rabbia e poi via a preparare una video-bomba. La villa livornese è il set per i proclami ad alzo zero: lì il capocomico dei pentastellati filmò la difesa del figlio accusato di stupro, da lì partì la dichiarazione di guerra legale contro Giuseppe Conte. La scena si ripete. Gli hanno dato il ben servito dopo 15 anni. Giuseppe Conte gli ha sparato contro una raffica di risposte via internet che lo mette del tutto fuori gioco. Dei 46.000 e spiccioli che hanno votato alle consultazioni della Costituente di domenica al Palacongressi di Roma il 63,24% ha detto che il Garante va abolito. Gli iscritti hanno sancito anche col 74,63% che va abrogata la facoltà data al Garante di richiedere la ripetizione di una votazione sulle modifiche dello Statuto. Ma Grillo non si dà per inteso e a quel potere si è appellato. Anche perché le nuove regole valgono dal prossimo congresso: ora vale il vecchio Statuto e Grillo mantiene il suo potere di veto sulle elezioni. Anche sui quesiti che lo riguardano. A Giuseppe Conte non resta – anche se starebbe studiando una contromossa legale – che fare buon viso a cattiva sorte e scatenare di nuovo una campagna anti-Grillo. I più vicini al Garante, l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi e l’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli sostengono che la ripetizione del voto non solo è legittima, ma ha una finalità precisa: far saltare il quorum. A norma di Statuto – tutt’ora vigente - Beppe Grillo può chiedere entro cinque giorni che sia ripetuta la consultazione sull’abrogazione della sua figura come tutore dell’ortodossia pentastellata. Conti alla mano quel quasi 30% che domenica ha detto sì al mantenimento del Garante vale 15 mila teste, se non votassero nella consultazione-bis non si raggiungerebbe il quorum – la metà più uno degli 89 mila votanti - e dunque tutta l’impalcatura di consenso messa in piedi da Giuseppe Conte crollerebbe. Tutto questo in due settimane considerato che agli iscritti va dato un preavviso di otto giorni e che per far ripartire la macchina elettorale servono 5 giorni. L’attesa del ri-voto sarebbe scandita dall’Elevato col «bombardamento» di video che si stanno girando a Marina di Bibbona non solo contro Giuseppe Conte, ma per rivendicare le radici del Movimento Cinque stelle. Per ora sul blog di Beppe Grillo compare una scritta che sa tanto di coming soon: hashtag riprendiamocilenostrebattaglie! Nel frattempo è stato mobilitato un pool di avvocati. Sostiene Danilo Toninelli - che è ancora nel collegio dei probiviri del M5S – che Beppe Grillo «è il proprietario del nome e del simbolo del Movimento e farà valere le sue ragioni in tribunale». Toninelli parlando a Radio Cusano Campus ha adombrato anche un sospetto di alterazione delle consultazioni di domenica. Ha sottolineato come la riduzione degli iscritti da 170.000 a poco meno di 90.000 ha modificato le proporzioni per arrivare al quorum e come molte «risposte ai quesiti statutari erano state di fatto predeterminate». Sulla regolarità delle consultazioni c’è anche un’altra indiscrezione che gira. Si dice che Vito Crimi – è stato tutto e il contrario di tutto nel Movimento: prima grillissimo, ora contiano di ferro – incaricato di sorvegliare sulla regolarità del voto in realtà si sia occupato assai da vicino dello spoglio elettronico. Alla domanda di Roberto Fico, ex presidente della Camera ora consigliere speciale di Giuseppe Conte, “tutto a posto?” lui avrebbe risposto «va come deve andare». Anche su questo si baserebbe la guerra di carte bollate che Grillo sta studiando. Di certo non vuole mollare; ce l’ha con i «traditori»: Paola Taverna, gli stessi Crimi e Fico, come Stefano Patuanelli tutti ora contiani e assai soddisfatti che sia saltato il limite dei due mandati parlamentari cancellato dal 72% dei voti, ma ora di nuovo sub judice. Beppe Grillo ha in animo anche una mossa tutta politica. Nei giorni scorsi Nina Monti - la storica segretaria dell’Elevato – avrebbe incontrato a Roma Alessandro Di Battista per ragionare di un rilancio del M5s con ritorno all’origine nel nome e nei contenuti. Già in estate si era parlato di un incontro tra Grillo e Di Battista smentito da quest’ultimo. Che Giuseppe Conte abbia timore di vedersi negato simbolo e nome lo lascerebbe intendere il fatto che ha chiesto agli iscritti - hanno approvato all’80% la possibilità di fare alleanze col Pd – come definirsi: al 36,7% si dicono progressisti indipendenti e al 22 forza progressista. Se saltano le cinque stelle è pronto un altisonante «I progressisti di Conte». Come insegna Dante: nomina sunt consequentia rerum!
- Continua la guerra di Conte. Caustica la ex Lombardi: «Il M5s è biodegradabile». Veleni sulle mosse degli «infiltrati» online.
- Luigi Marattin è contrario ai piani per entrare nel campo largo. Via anche quattro dirigenti locali. Voci pure sull’addio di Nobili.
Lo speciale contiene due articoli.
Passano i giorni, ma la crepa tra il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, e il fondatore e oggi «garante», Beppe Grillo, si allarga sempre di più. Vecchi e nuovi esponenti si posizionano su una barricata o sull’altra.
L’ex parlamentare ed ex ministro Danilo Toninelli è tornato a prendere le parti di Grillo, commentando la definizione del comico genovese come «sopraelevato», coniata appunto dall’ex premier. «Grillo si definisce ironicamente “Elevato”, ma lo fa in contraddizione rispetto ai partiti tradizionali, dove il leader si attacca al potere e nomina i propri uomini. Grillo non ha mai chiesto incarichi, non ha fatto il ministro, né è entrato in parlamento o in una partecipata. Ha sempre rappresentato l’esempio più altruistico e generoso della politica italiana». Secondo Toninelli «quello di Conte è un attacco personale. Beppe ha sempre sostenuto due principi fondamentali: il limite dei due mandati e la democrazia diretta, mentre Conte, rispondendo con l’ironia del “sopraelevato”, si allontana da questi valori. Questa è una dialettica che vediamo più spesso nei partiti tradizionali, come in Renzi, piuttosto che nel Movimento 5 stelle».
Per Grillo si schierano le truppe cammellate. Anche l’ex sindaco di Roma, Virginia Raggi, difende il suo padre padrino. «Il Movimento nasce come idea, come metodo, come possibilità e io credo che oggi ci sia bisogno di tornare a quel metodo e a quel laboratorio, altrimenti si diventa solo la brutta copia degli altri partiti». E aggiunge: «Con Grillo ci sentiamo più o meno regolarmente, ci siamo fatti gli auguri per le vacanze», ha aggiunto. «Oggi il M5s ha uno statuto che è una sorta di regolamento che disciplina cosa si può fare e cosa non si può fare nel M5s. Se questo statuto dà a Beppe Grillo dei poteri e lui li esercita, fa bene. La cosa più brutta è trasformarsi in quello che si è sempre detto di voler combattere, è terribile». E alla domanda: «Se ci fosse una questione legale, a colpi di carte bollate tra Grillo e Conte?», risponde: «Sicuramente non sarei io l’avvocato, la questione mi lascia un po’ scossa, turbata. Mi dispiace molto, da persona che ha creduto molto e crede nel Movimento. Se si arriverà alle carte bollate se la vedranno gli avvocati». Per Roberta Lombardi, altra ex storica, è l’ora di voltare pagina: «Il M5s era un progetto biodegradabile», sostiene, «è ora di accettare la sua dissoluzione». E c’è chi, come Alessandro di Battista, raggiunto dalla Verità, proprio non vuole commentare.
Il vicepresidente del Movimento, Michele Gubitosa, è arrivato a mettere in dubbio la consulenza da 300.000 euro di Grillo per «inadempienza». La vicenda dalle parole è pronta a giocarsi tra statuti e regolamenti. della questione Grillo «se ne occuperanno gli avvocati», ha tuonato Conte dal palco della festa del Fatto Quotidiano. «Grillo non può fermare le votazioni degli iscritti», ancora Gubitosa, «al massimo può esprimere delle raccomandazioni».
Intanto da Campo Marzio esprimono soddisfazione per i numeri che stanno portando verso la costituente. Sono arrivati 22.000 contributi, di cui circa 3.000 da non iscritti al Movimento 5 stelle alla mezzanotte del 6 settembre, in cui si concludeva la prima fase. Loro vanno avanti senza tentennamenti. «Un grandissimo risultato», ha commentato Conte. E come prevedibile tra le idee prodotte dai grillini ci sono anche alcuni contributi che hanno a che vedere con nome, simbolo e regola dei due mandati. A dimostrazione, secondo l’ex premier, che sono temi caldi.
«Noi vogliamo guardare avanti, parlare di temi e partecipazione: c’è un’intera comunità che non si fa mettere il bavaglio e non vuole censure, ma vuole discutere di temi e partecipazione». Questo, apprende l’Adnkronos, l’umore che filtra dal quartier generale del M5S a Campo Marzio.
Ora ci saranno seconda e terza fase. Documenti preparatori per informare i partecipanti sui temi all’ordine del giorno; discussione tra gli iscritti; assemblea a Roma. All’orizzonte, sempre più vicino, c’è lo scontro finale. Conte o Grillo, insomma, c’è da scegliere da che parte stare. Sempre più probabile una scissione. Pochi giorni fa una circolare del Movimento invitava gli iscritti inattivi a rinnovare l’iscrizione con un clic entro cinque giorni, pena la disattivazione dell’account. Un modo secondo alcuni per evitare infiltrazioni di seguaci di Grillo, che potrebbero boicottare l’operazione di rinnovamento. «Siccome Beppe può chiedere di ripetere un voto e, nella seconda votazione, c’è il vincolo di raggiungere almeno il 50% più uno affinché il risultato sia valido», i vertici starebbero cercando di «portarsi avanti» per «diminuire la base votanti, applicando la regola del rinnovo che però nelle scorse votazioni non hanno mai applicato», fanno sapere alcune fonti. «Illazioni», replicano da Campo Marzio: lo statuto - viene spiegato - prevede la cancellazione degli utenti inattivi, che non hanno mai fatto un accesso e non hanno partecipato a votazioni.
Quella del Movimento 5 stelle rischia di diventare una breve storia triste, insomma. La fine di una parabola discendente inaugurato da Luigi Di Maio, che dal giugno 2023 serenamente ricopre la carica di rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico.
Marattin lascia: in Italia viva resta in vita solo Renzi
Morti e feriti nel campo largo. Anche solo a parlarne. Come da tradizione è il solito Matteo Renzi a crear scompiglio. Mentre da una parte c’è chi promette guerra e fiamme all’idea di un suo possibile ingresso nella possibile alleanza ampliata della sinistra, dall’altra c’è chi, nel suo partito, di campo largo proprio non vuole sentir parlare. Si tratta di Luigi Marattin, deputato di Italia viva fino a ieri, da oggi nel gruppo misto. Non un membro qualsiasi, bensì un fedelissimo di Renzi già dai tempi del Partito democratico, dentro Italia viva si occupava perlopiù di dettare la linea economica. Da parlamentare, nella scorsa legislatura ha ricoperto il ruolo di capogruppo del Pd prima e di Italia viva all’interno della V commissione Bilancio di Montecitorio. Da luglio 2020 a ottobre 2022 (con la fine della XVIII legislatura) è stato presidente della commissione Finanze, naturalmente sempre alla Camera dei deputati.
In una conferenza stampa a Montecitorio, Marattin ha spiegato la sua scelta: «Con forte dispiacere personale ma altrettanto forte convincimento, chiarezza e determinazione politica annunciamo il nostro addio a Italia viva. Noi non condividiamo l’adesione al campo largo, nel metodo e nel merito, avrebbe dovuto essere presa in un congresso perché in un congresso era stata decisa la collocazione terzopolista di Italia viva». Marattin assicura che lo strappo si è consumato in maniera amichevole, ma chiarisce: «Non è l’esito che Italia viva merita, siamo ancora convinti che lì non ci sia niente di interessante per una proposta politica di governo del Paese: su fisco, ambiente, energia, politica estera, scuola, settore pubblico. Le posizioni del campo largo sono antitetiche a quelle di Italia viva su cui militanti e dirigenti di base hanno dato anima e cuore e ora si chiede di buttare tutto via in nome del bipolarismo, tutto questo avrebbe dovuto essere discusso».
A Marattin va riconosciuta la lucidità che agli altri della sinistra manca. Non esiste un tema su cui si trovino tutti d’accordo, lo dimostrano le tensioni montate in questi giorni, da cui alcuni preferiscono tirarsi fuori.
Marattin parla al plurale perché non è l’unico a lasciare il partito. «Le uscite da Italia viva sono già iniziate nei giorni scorsi, un paio di centinaia di persone sono con noi, cento dirigenti territoriali e altri arriveranno», assicura. Hanno fatto i bagagli quattro dirigenti territoriali: Emanuele Cristelli (Friuli Venezia Giulia), Valeria Pernice (Verona), Giorgia Bellucci (Rimini) e Alessandro Pezzini (Lodi). Non nomi di spicco, ma c’è chi è pronto a scommettere che altri big segurianno l’esempio. Uno potrebbe essere Luciano Nobili, collega a Montecitorio e amico di Marattin. Proprio ieri scriveva un post di commento al rapporto di Mario Draghi, elogiandone la visione. Mentre il collega Marattin in conferenza stampa diceva: «L’obiettivo nei prossimi anni è creare un partito liberaldemocratico e riformatore per le prossime elezioni politiche, che sarà l’interfaccia politica di quel rapporto Draghi che ora non ha interpreti in Italia».
Marattin, infatti, non trasloca in altri partiti (si parlava di Forza Italia). Lancia un progetto: «Fonderemo una associazione che si chiamerà Orizzonti liberali, un’associazione perché sarebbe velleitario e infantile uscire da un partito e fondare un partito, i partiti sono una cosa seria, soprattutto se devono colmare un vuoto di rappresentanza». Ennesimo contenitore inutile, un po’ come Italia viva, una zattera costruita per tenersi a galla, sulla quale sembrano rimasti a bordo solo Renzi e Maria Elena Boschi, in attesa di salire sul prossimo yacht di passaggio.
La vita riserva a volte delle gioie inaspettate. Una di queste è l’esclusione di gran parte dei voltagabbana dal prossimo Parlamento. In particolare, trovo esaltante la fine di moltissimi transfughi grillini, i quali hanno lasciato di recente la casa madre nella speranza di essere ricandidati in una coalizione capeggiata dal Pd. Non so quali assicurazioni avessero avuto dal loro capopopolo, vale a dire Luigi Di Maio. Né sono a conoscenza di particolari garanzie fornite da Enrico Letta a sostegno della scissione grillina.
Tuttavia, scoprire che quasi tutti i fuoriusciti non li rivedremo né alla Camera né al Senato, è un buon motivo per dire che non tutte le giornate passano invano.
Lo confesso: quando ieri sera ho cominciato a riflettere sulle conseguenze provocate dall’accordo fra Pd e Azione, ho perfino leggermente rivalutato Carlo Calenda. Alla fine, mi sono detto, non tutta l’arroganza viene per nuocere. Anche un tipo molesto e modesto come il leader di un partito che non c’è (esiste solo perché Emma Bonino gli ha prestato il simbolo, sennò il Churchill dei Parioli neppure potrebbe candidarsi), in fondo può rivelarsi utile. Escludendo la presenza di alcuni esponenti ex grillini nei collegi uninominali, di fatto l’accordo tra Calenda e Letta sbatte la porta in faccia alla maggioranza degli scappati di casa Grillo. Infatti, se i sondaggi che danno il nuovo partito del ministro degli Esteri sotto il 2 per cento saranno confermati, nessuno o quasi riuscirà a spuntarla. Per questo Di Maio, furbo come un giovane democristiano, prima ancora che fosse noto il diktat di Calenda nei confronti di verdi, pentastellati e sinistrati, si è affrettato a farsi garantire un posto sicuro in lista. Risultato, il suo partitino è già morto prima ancora di essere nato, mentre i suoi seguaci scompariranno un secondo dopo l’apertura delle urne.
Mica male per dei fuoriusciti che erano scappati in massa meno di due mesi fa al grido di si salvi chi può. A fine giugno, mentre fra i 5 stelle l’incertezza regnava sovrana, Di Maio capeggiò una rivolta dicendo di voler andare in soccorso di Mario Draghi. Peccato che nessuno si fosse preoccupato di avvisare l’ex governatore della Bce e, doppio peccato, che nemmeno uno dei fuoriusciti avesse calcolato gli effetti che l’addio avrebbe provocato. Come ebbe a dire un leader della sinistra, il ministro degli Esteri è riuscito nella non facile impresa di rianimare Giuseppe Conte, restituendogli un ruolo. Infatti, l’ex premier, scosso dall’abbandono di una cinquantina di grillini, si è subito preso la scena, guastandola al suo acerrimo nemico, ovvero l’uomo che un anno e mezzo prima gli aveva soffiato il posto. Senza la scissione capeggiata da Di Maio, quasi certamente non ci sarebbero state le dimissioni di Draghi, perché Conte sarebbe stato costretto a mediare tra le due anime del Movimento, quella governista-ministeriale e quella movimentista-conflittuale.
Ciò che fa un po’ ridere, ma dà anche uno scopo nella vita, è che fra coloro che hanno seguito Di Maio molti erano preoccupati di non perdere la poltrona e di avere assicurata la rielezione. Sostenendo il governo, erano convinti di essersi guadagnati la ricandidatura e anche di essersi liberati della tagliola grillina che fa a fette la carriera politica, bloccandola al secondo mandato. Allearsi con il Pd deve essere parso loro come il solo sistema per garantirsi un futuro, l’unico mezzo per non rimanere vittime del crollo grillino alle prossime elezioni. Invece, se tutto andrà per il verso giusto, la maggioranza dei voltagabbana pentastellati non sarà in lista e se capiterà ad alcuni di vedere il proprio nome, guadagnarsi l’elezione sarà più difficile che mai. Insomma, per una volta, i voltagabbana di fine legislatura rischiano di rimanere con il cerino in mano e di scottarsi le dita.
Ovviamente, grillini ed ex grillini non sono i soli a rimanere esclusi. Molti camaleonti del Parlamento questa volta rischiano di rimanere al palo, a destra come a sinistra. L’impressione è dunque che non tutti i mali vengano per nuocere. Alla fine, anche questa crisi rischia di essere salutare, perché non solo Camera e Senato si ridurranno di un terzo, ma alcune facce probabilmente spariranno dal nostro orizzonte. Beh, pensate a Danilo Toninelli, ma anche a Lucia Azzolina e poi ditemi se anche voi non trovate motivo per gioire.
P.s. La maggiore ragione di contentezza tuttavia è pensare che il prossimo Natale lo festeggeremo senza Speranza. Raccomandazione per il correttore di bozze: la S va maiuscola. So che la Speranza è l’ultima a morire, ma politicamente mi auguro che questa volta Speranza sia tra i primi a fare le valigie.
- Dopo la statalizzazione di Atlantia (a caro prezzo), restano altri tratti affidati ai privati con accordi che non scadono mai, rinvii infiniti e profitti a senso unico.
- L'economista Giorgio Ragazzi: «Chi ci rimette alla fine sono gli utenti italiani. Solo da noi l'onere sulla mobilità ha proporzioni così elevate».
Lo speciale contiene due articoli.
Un terno al lotto lungo più di 6.000 chilometri. La fine della querelle Benetton dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto la bilancia delle concessioni autostradali sia fortemente squilibrata, con il piatto dei vantaggi che pende tutto a favore dei «signori delle autostrade».
Dopo le minacce di revoche o «caducazioni» dell'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dei ministri pentastellati, su tutti Danilo Toninelli, la famiglia di Ponzano Veneto ha mollato quella che per anni è stata la «gallina dalle uova d'oro», alzandosi dal tavolo delle trattative con le tasche piene di soldi. Il regalo che lo Stato ha recapitato ai Benetton ha i contorni della buonuscita d'oro: 2,4 miliardi di euro, con buona pace di tutte le promesse fatte alle famiglie di chi ha perso la vita a causa del crollo del Morandi.
Il ritorno dello Stato nelle autostrade, tuttavia, non basta ad accantonare la polvere che il sistema delle concessioni ha accumulato negli anni. Come raccontato in queste pagine, restano preoccupanti deficit di manutenzione infrastrutturale, tanto nelle gestioni private quanto in quelle pubbliche.
Le gare per il rinnovo delle concessioni, quando vengono fatte, finiscono spesso per avvantaggiare gli incumbent, cioè chi gestisce già l'infrastruttura, e scoraggiare eventuali subentranti. «L'assetto istituzionale che ha a lungo retto il settore si è caratterizzato per una limitata applicazione dei principi concorrenziali», si legge nell'audizione al Senato del capo servizio struttura economica della Banca d'Italia, Fabrizio Balassone. «Ciò si è riflesso nel ridotto ricorso a procedure a evidenza pubblica e in durate elevate degli affidamenti, anche per effetto di diffuse proroghe».
Le mani sulla torta, insomma, sono rimaste sempre le stesse: la parte del leone l'hanno fatta Atlantia dei Benetton e Astm dei Gavio, a cui sono stati affidati i tre quarti dell'intera rete, attraverso società controllate più o meno direttamente. A pagare questi monopoli naturali ci hanno pensato gli automobilisti, con un pedaggio medio per chilometro che supera il milione di euro l'anno.
Nulla a che vedere con quanto avviene all'estero, soprattutto in Spagna, dove le infrastrutture ammortizzate tornano in pancia allo Stato al termine della concessione, con tanti saluti ai costi del casello.
«Niente controlli e regali tariffari. Lo Stato ha fallito»
Il professor Giorgio Ragazzi è economista e già docente di politica economica e scienza delle finanze. L'anno scorso ha pubblicato il libro La svendita delle autostrade.
Dopo 22 anni i «signori delle autostrade» per eccellenza escono di scena. Con il «pessimo affare» Benetton, come lei lo ha definito, lo Stato ha fallito come regolatore?
«Il peccato originale è stata la privatizzazione a condizioni pessime, con una concessione lunga 38 anni: una assurdità inaudita in un settore come questo».
Quali altri peccati sono stati commessi negli anni?
«I regali tariffari, senza dubbio. In questo settore, la regolazione dovrebbe avere come obiettivo il contenimento dei profitti rispetto al capitale investito. Ciò non è stato fatto: lo Stato ha consentito ai concessionari la realizzazione di utili straordinari».
Crede che il governo Conte non abbia avuto il coraggio sufficiente per revocare la concessione ai Benetton?
«Hanno scelto la via politicamente più semplice, quella di affidare l'acquisto alla Cassa depositi e prestiti. Questo accordo, che va benissimo per i Benetton e che ha evitato al governo tutte le difficoltà relative a un processo di revoca, è avvenuto per intero sulle spalle dei cittadini».
Insomma, siamo alle solite.
«In Italia, chi paga i pedaggi non ha alcuna rappresentanza e viene regolarmente mazziato. Nel caso di Autostrade per l'Italia, i costi ricadranno sulle spalle degli utenti, che dovranno offrire un ottimo rendimento a Cdp e ai fondi esteri, dovranno farsi carico di tutte le manutenzioni che non sono state fatte nella precedente amministrazione e dovranno evidentemente generare un flusso di cassa per ripagare la montagna di debiti che i Benetton hanno lasciato nelle autostrade».
I rapporti economici sono enormemente sbilanciati in favore dei privati. C'è un modo per riequilibrare il sistema?
«Ci sarebbe un modo molto semplice e lineare, che è l'esempio spagnolo: quando una concessione arriva a scadenza, e l'autostrada è interamente ammortizzata o quasi, non ci sono nuove gare, ma si procede all'abolizione del pedaggio. In Italia paghiamo già delle imposte altissime rispetto al servizio autostradale che riceviamo: oltre a quella sui carburanti, c'è anche il pedaggio. Solo da noi l'onere sulla mobilità ha proporzioni tanto elevate».
Perché non si rispetta un principio scritto nei contratti di concessione?
«Per il governo è molto più semplice rinnovare la concessione: lo Stato continua a guadagnarci, con le imposte e tutto il resto, il concessionario fa altrettanto. Sono tutti contenti, finché a pagare sono i poveri utenti».
Gli indennizzi da pagare ai concessionari per gli investimenti realizzati e non ancora ammortizzati sono un freno a questa possibilità?
«Gli indennizzi di subentro, sia nel caso di un ritorno allo Stato che nell'ipotesi di una nuova gara, sono gonfiati».
Da cosa?
«Dal fatto che gli investimenti vengono concentrati negli ultimi anni della concessione. L'indennizzo di subentro va pagato subito, mentre il concessionario può continuare ad ammortizzare gli investimenti nel tempo».
Ciò scoraggia anche gli eventuali concorrenti dal partecipare alle gare?
«Alcune gare prevedono più tratti autostradali insieme, per cui i concorrenti dovranno investire molto per partecipare. Se non fosse già abbastanza, la vittoria di una gara può addirittura non bastare».
Che cosa intende?
«Dopo le gare, si apre la stagione dei contenziosi. Quando si concorre con i concessionari uscenti, puoi restare in ballo anche cinque anni, con enormi impegni finanziari e senza alcuna certezza».
L'abolizione dei pedaggi incide sul benessere collettivo?
«Ridurre i costi della mobilità è un passaggio fondamentale. Uno studio americano ha messo in luce che l'efficienza del mercato del lavoro dipende proprio dalla riduzione dei costi della mobilità. Se spostarsi costa molto, ecco che il lavoro diventa meno flessibile. Su una strada senza pedaggio, poi, si risparmia sui costi di esazione, che incidono per il 15% del valore complessivo. La presenza del pedaggio spinge a spostarsi, nei limiti del possibile, sulle strade statali, con ingorghi e rallentamenti. Ciò avviene con una certa frequenza in Valle d'Aosta, dove c'è una autostrada molto cara e le colonne di tir si spostano lungo le statali interne. Anche questa è una perdita di benessere collettivo».
«Chi commenta dicendo che abbiamo regalato soldi ai Benetton sbaglia. Ai Benetton abbiamo tolto parecchi miliardi che sono quelli in più che avrebbero incassato se avessero mantenuto la gestione dei 3.000 chilometri di autostrade per gli altri 20 anni previsti». Parola del grillino Danilo Toninelli. In questi giorni, l'ex ministro delle Infrastrutture del Conte uno, saltato come un birillo più che altro per propri demeriti, e prontamente rimpiazzato dalla piddina Paola De Micheli, è impegnato a promuovere su Facebook il proprio libro denuncia. S'intitola Non mollare mai e l'ha dovuto pubblicare con la vituperata Amazon, scelta che gli sta costando anche un mezzo processo da parte dei suoi seguaci. Gli altri esponenti del M5s, dopo l'assemblea di Atlantia di lunedì scorso che ha accolto l'offerta presentata dalla cordata di Cdp per Autostrade per l'Italia, sono stati più prudenti. Bocche suturate anche nel Pd e in tutta la «sinistra autostradale», quella solida corrente transgenica che parte dalla sinistra Dc di Fabrizio Palenzona e Romano Prodi e arriva al Pd di oggi con Enrico Letta e Graziano Delrio. Per due anni e mezzo hanno lasciato sfogare forcaioli e tribuni del popolo, si sono capiti al volo con un principe del cavillo come Giuseppe Conte, hanno fatto terrorismo sui costi di una lite con i Benetton e alla fine, alla faccia di Toninelli, il regalo c'è eccome. Ed è anche di quelli grossi. Si tratta esattamente di un cadeau da 7,3 miliardi, come si ricava non da atti segreti, ma da documenti pubblici come la convenzione Mit-Aspi e il Piano economico finanziario (Pef) che Autostrade ha presentato al ministero e che il Cipe deve ancora approvare.
Come aveva svelato Panorama il 9 dicembre scorso, la vera trattativa per la clamorosa nazionalizzazione si è svolta tra l'amministratore delegato di Atlantia, Carlo Bertazzo, il capo di gabinetto della De Micheli, Alberto Stancanelli, e il capo di gabinetto dell'allora ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, ovvero Roberto Chieppa. A comprare, però, sono Cdp, Macquarie e Blackstone. Che in cambio riceveranno margini del 10% l'anno, grazie ai soliti aumenti tariffari.
Per oltre due anni e mezzo, mentre Aspi continuava come nulla fosse a incassare i suoi bravi pedaggi, si è agitato lo spauracchio della revoca delle concessioni. Lo hanno fatto anche Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, seppure quest'ultimo, tanto per essere comprensibile al popolo di cui si era nominato «avvocato», arrivò a parlare di «caducazione». Sempre comunque aggiungendo che il contenzioso con Atlantia era potenzialmente assai costoso. Il picco di allarmismo lo ha raggiunto Matteo Renzi, il fan più esagitato dei Benetton. Il 13 luglio 2020, ovvero alla vigilia dell'ultimo Consiglio dei ministri dove Aspi ha rischiato la revoca, Renzi spara: «Oggi i populisti vogliono la revoca perché è caduto il ponte e perché Benetton ha preso troppi soldi. Questo puoi farlo al bar: la verità è che con la revoca si danno i miliardi a Benetton. E sapete perché non hanno mai scritto il documento di revoca? Perché ci sono scritti sopra i miliardi che devono dare a Benetton. Questo giochino rischia di costare ai nostri figli 20/30 miliardi. Intanto si licenziano delle persone e si bloccano i cantieri».
Può darsi che i calcoli dell'ex Rottamatore fossero anche corretti, ma il segreto per arrivare è: basta impostare male il problema. Perché qui, anche dopo i 43 morti del Morandi, non di revoca, ma di recesso si doveva parlare. E i conti sarebbero stato assai meno pesanti rispetto alla nazionalizzazione più o meno forzosa che va in scena oggi.
La revoca non prevede che il concedente (qui, lo Stato), accusi di alcunché il concessionario (Aspi). Insomma, nessuna «demagogia», ma semplice diritto a tirarsi indietro, secondo le regole stabilite dalla concessione stessa. La convenzione Aspi-Mit è pubblicata sul sito del ministero e possono leggerla tutti i deputati. Quella attualmente in vigore è stata firmata il 12 ottobre 2007 (secondo governo Prodi) ed è stata aggiornata il 24 dicembre 2013 (governo di Enrico Letta. Come si può immaginare, non sono documenti ostili ai Benetton. Ebbene, all'articolo 9 bis la convenzione prevede che in caso di revoca il concessionario abbia diritto a un indennizzo «pari al valore attuale netto dei ricavi della gestione», ovvero al netto di costi, oneri, investimenti e imposte prevedibili nel periodo mancante alla fine della concessione. Usando le tabelle del Pef in vigore, la somma da dare ad Aspi arriverebbe a 13,8 miliardi netti. Su questa cifra, lo Stato recupererebbe poi 5,3 miliardi di imposte con un'aliquota al 27,9% (24% di Ires e 3,9% di Irap), che escludiamo dal conteggio perché è una partita di giro. Ora, abbandonata questa strada per nulla punitiva per i Benetton, andiamo a quello che secondo Toninelli «non è un regalo».
Il consorzio guidato da Cdp (il nuovo ad, Dario Scannapieco si è insediato il giorno dopo il voto dell'assemblea Atlantia) ha offerto ad Atlantia 9,1 miliardi (considerando la valorizzazione al 100%, pari a 7,9 miliardi per l'88% della società). A questi vanno sommati 8,8 miliardi per l'accollo dei debiti di Aspi e 3,4 miliardi per gli indennizzi diretti in ragione del crollo del ponte sul Polcevera. Il tutto, senza contare i rischi legali per indennizzi indiretti, oggi non quantificabili, visto che mancano le sentenze penali. Alla fine, la strada scelta dal precedente governo, al momento confermata anche da quello attuale, ci costa ben 21,3 miliardi. In modalità «vendita», i Benetton ne incasseranno 2,4, sui cui dovranno solo pagare il 5% di tasse, in base al regime fiscale agevolato sulle plusvalenze, ovvero un centinaio di milioni. Insomma, con il recesso, il valore netto riconosciuto ai Benetton per uscire da Aspi sarebbe stato pari a 13 miliardi e 818 milioni. Mentre con l'acquisto da parte dello Stato si arriva a 21 miliardi e 190 milioni. Il regalo ai Signori del casello, a futura memoria anche della Corte dei conti e del Cipe che ora deve vidimare il nuovo Pef (senza il quale la remunerazione di Macquerie e Blackstone sarebbe incerta), arriva a 7 miliardi e 370 milioni. Ci si finanzierebbero i Ristori II, III e forse pure IV. Tanto per fare del «populismo», come direbbe il Renzi.







