Il riformismo? Il ceto medio? La corsa al centro. Sono come l’araba fenice, che ci sia ognun lo dice dove sia nessuno lo sa. O forse quasi nessuno, visto che Luigi Marattin ha tentato la via del riformismo dentro il Pd per poi seguire Matteo Renzi in Italia Viva e ora si batte per un’ idea liberale. Da giugno è segretario del Partito Liberaldemocratico di cui è esponente di spicco un altro ex renziano, il senatore fu Pd Andrea Marcucci. In questi giorni, da economista, Marattin ha sparato a zero sulle proposte di patrimoniale avanzate da Elly Schlein e Maurizio Landini.
Onorevole Marattin, lei è stato molto critico con Bankitalia e Istat sull’affermazione che la manovra del governo dà ai ricchi per togliere ai poveri: qual è la verità di questi aggiustamenti fiscali?
«Bankitalia e Istat si sono limitati a ribadire l’ovvio, non potevano non farlo. E cioè, per fare un esempio, che il 2% di 1.000 (cioè 20) è in valore assoluto maggiore del 2% di 100 (cioè 2). E che quindi in un qualsiasi sistema fiscale se tagli un’aliquota i benefici, se misurati in valori assoluto, sono matematicamente maggiori per i redditi più alti, che a fare la manovra sia Mamdani, Karl Marx o Trump. Il problema è stato che un certo giornalismo – co-responsabile di una certa politica nel determinare il declino del Paese – ha pensato bene di “sbattere il mostro in prima pagina” dicendo che la manovra favorisce i ricchi, e da lì è partito il solito circolo. La verità è diversa: le stesse audizioni dimostrano che le manovre di questi anni sull’Irpef (da quella Draghi del 2021 in poi) hanno nel complesso aumentato la progressività e la redistribuzione, favorendo i redditi bassi. Che è il motivo per cui noi del Partito Liberaldemocratico siamo contrari alla mossa del governo, ma per il motivo opposto a quello che si è letto: oggi ad essere massacrati dal fisco – anche dopo questa manovra – non sono i redditi bassi, ma il ceto medio».
Eppure Maurizio Landini insiste con lo sciopero generale per il 12 dicembre con l’idea che il governo affama il Paese. Che ne pensa? La Cgil non sta travestendo un’opposizione politica al governo da rivendicazione sindacale? E non si rischia di banalizzare uno strumento un tempo sacro per i sindacati: lo sciopero generale?
«Fermo restando che in una società liberaldemocratica i lavoratori possono scioperare – nel rispetto delle leggi – quando lo ritengono opportuno, considero le motivazioni di tutti gli scioperi fatti dalla Cgil in materia economica negli ultimi dieci anni totalmente inconsistenti, quando non del tutto false (come fu nel caso dello sciopero generale contro la riforma Irpef del governo Draghi)».
Lei ha militato lungamente a fianco di Matteo Renzi, che ne pensa oggi di un Pd guidato da Elly Schlein che sembra molto appiattito sulle posizioni della Cgil?
«Il Pd di Renzi, ma anche quello di Veltroni del 2008, era una cosa completamente e radicalmente diversa dal Pd della Schlein. Quest’ultimo ha scelto, legittimamente, di diventare cardine di un’offerta politica di sinistra tradizionale, radicale e movimentista. Cose che combattevo quando militavo in quello schieramento, figuriamoci ora che – da più di sei anni – ne sono uscito. Sul perché alcuni insistano ad illudersi che sia possibile “moderare” quelle posizioni, non ho risposte intelligenti da dare. Se non che il Paese continua a perseverare nell’errore di pensare che si possano fare coalizioni tenute insieme dal solo obiettivo di non far vincere l’avversario. Ma non si fa politica per non fare vincere qualcuno, bensì per affermare una visione coerente di Paese».
Forse lei non condivide la famosa curva di Laffer, ma appare abbastanza evidente che il Paese abbia bisogno di un rilancio della domanda interna per generare crescita. Non è ora di cambiare il fisco e anche il sistema di welfare? E non sarebbe una battaglia di sinistra quella di generare benessere?
«Abbiamo un problema di pressione fiscale, che continua a salire anche con questo governo. Che non solo è alta, ma è allocata sulla parte più produttiva del Paese. Ma è impossibile tagliare davvero le tasse senza toccare la spesa. Il Partito Liberaldemocratico si presenterà alle prossime elezioni con l’impegno di tagliare 3 punti di Pil di spesa pubblica (circa 70 miliardi) nell’arco della prossima legislatura, da destinare integralmente alla riduzione di pressione fiscale, in primis abolizione dell’Irap e massiccia riduzione dell’Irpef sul ceto medio. Tutti sanno che la spesa pubblica italiana è fuori controllo: semplicemente manca il coraggio di chiedere agli elettori il mandato democratico per andare a rompere privilegi e rendite di posizione di quel pezzo di Italia che sulle inefficienze della spesa pubblica ci campa».
Vincenzo Visco è tornato a insistere sulla necessità di usare il fisco come strumento di redistribuzione. Non è un riflesso del passato? Il fisco non dovrebbe semplicemente servire a finanziare un corretto ed efficiente funzionamento dello Stato? Un fisco ideologica non è nemico della libertà economica?
«Nel mio libro (La Missione possibile: la costruzione di un partito liberaldemocratico e riformatore, edito da Rubbettino) ho mostrato che da quando è iniziata la globalizzazione l’Italia è il Paese al mondo che è cresciuto di meno. Bisogna essere imbevuti di ideologia, quindi, per parlare di redistribuzione del reddito nel Paese che non riesce più a produrlo. Tutto il complesso delle politiche (economiche e non solo) deve essere orientato alla crescita: da una rivoluzione di liberalizzazioni e concorrenza alla rimozione degli ostacoli che disincentivano l’abbandono della piccola dimensione di impresa; da una riforma radicale del sistema scolastico ad una riforma del diritto amministrativo che liberi energie e tolga le catene che residuano dal diritto napoleonico».
Facciamo un salto in Europa. La Germania ha imboccato la strada del debito per rilanciare la sua economia, la Francia sta messa non bene, la Bce sembra seguire strade consuete ma che non hanno prodotto sin qui stimoli economici. Non è il caso di cominciare a sottoporre a critica l’euronomics?
«Che la Germania avesse spazio fiscale disponibile da poter e dover utilizzare era un cardine delle raccomandazioni non solo degli organismi europei, ma anche di quelli del multilateralismo economico mondiale, a cominciare dal Fondo monetario. La Francia è finita nei guai proprio per essere andata in direzione contraria alle raccomandazioni europee, in termini di pensioni e finanza pubblica. E in più, ha dimenticato il caso della Grecia. Un paese che, dopo aver vissuto il baratro, si sta rendendo protagonista di un rilancio ottenuto seguendo esattamente le prescrizioni dell’Europa. Riguardo alla Bce, il suo statuto (a differenza della Fed) prevede solo un compito: evitare l’inflazione. Ed è un compito che è stato portato a termine tutto sommato anche con rapidità ed efficienza. E menomale, perché l’inflazione è la principale nemica proprio dei redditi fissi, soprattutto quando – come in Italia – sono stagnanti da decenni. Quindi le devo dire la verità: no, non vedo nessuna particolare crisi nell’euronomics».
Ci avevano detto che i dazi di Trump ci avrebbero ucciso. Per ora non è successo..
«Sui dazi sarei più prudente, gli effetti si vedranno purtroppo nel tempo».
Uno dei cavali di battaglia della sinistra è il salario minimo. Che ne pensa e soprattutto come si fa a mettere i soldi in tasca agli italiani?
«Il salario minimo si può fare o per legge o tramite contrattazione collettiva. Io preferisco la seconda opzione (che è già realtà in Italia), da accompagnare, finalmente, con una legge sulla rappresentanza sindacale e delle associazioni datoriali. Sui soldi in tasca abbiamo fatto varie proposte: dall’azzerare la tassazione sui premi di produttività (parzialmente accolta dal governo Meloni in legge di bilancio), alla riforma del meccanismo di contrattazione andando oltre l’accordo del 1993, passando per gli incentivi fiscali alla fusione delle micro-imprese e ovviamente la massiccia riduzione fiscale sul ceto medio».
Veniamo al Partito Liberaldemocratico: che orizzonte di azione e di alleanze vi date? Sembra che nel Pd si affacci un nuovo riformismo, Ernesto Maria Ruffini, e torniamo al partito delle tasse!, sembra intenzionato a rivitalizzare l’Ulivo. Voi, che pure avete avuto una stagione in cui pensavate di costruire il centro riformatore con Azione e Italia Viva, come vi ponete in questo scenario?
«Siamo lontani da tutti coloro i quali si illudono di far vivere i valori liberali e riformatori nel centrosinistra: si tratta di una “missione impossibile”, quello schieramento è ormai dominato dal radicalismo e movimentismo. E siamo altresì convinti che sia impossibile fare la rivoluzione liberale con la Lega di Salvini, che dal punto di vista economico è un partito di estrema sinistra. Ragion per cui faremo in modo che alle politiche del 2027 gli italiani abbiano anche un’altra opzione, liberaldemocratica e riformatrice, che dia loro la sicurezza che col loro voto non manderanno mai Landini o Vannacci a fare i ministri».
Ultima ma decisiva domanda: in Italia ci sono la sensibilità culturale, la competenza economica e il rigore etico necessari perché si radichi un’idea compiutamente liberale che immagina un arretramento dello Stato dall’economia?
«Il liberalismo è sempre stato minoranza in Italia, non c’è dubbio. Ce lo dicono le culture politiche tradizionali che hanno animato l’Italia nell’ultimo secolo. Ma c’è un pezzo di Paese – non proprio piccolo – che ha capito che i populismi (di destra e di sinistra) non si moderano: si combattono. Mettendo insieme i non pochi che condividono una impostazione liberale e riformatrice e vedendo quanto pesa nel Paese questa visione di società. Ed è esattamente quello che stiamo facendo e che continueremo a fare».






