La ricetta per salvare Camilla Canepa, quando la diciottenne ligure è stata ricoverata d’urgenza per poi spirarenell’ospedale San Martino di Genova, nella città della Lanterna circolava da settimane. Da circa un mese e mezzo. Ma è rimasta incredibilmente impantanata nelle pastoie della burocrazia. Nel periodo delle vaccinazioni di massa del 2021 Enrico Haupt, ex primario di Medicina generale all’ospedale di Lavagna, ha 71 anni, è in pensione, ma non riesce a staccarsi dal suo mestiere. È anche medico vaccinatore all’Evangelico di Genova. La morte di Francesca Toscano, 32 anni, insegnante di sostegno vaccinata con Astrazeneca il 22 marzo 2021 e deceduta il 4 aprile per trombosi cerebrale, lo colpisce particolarmente. Tanto da spingerlo, assieme ad alcuni colleghi, a elaborare un protocollo operativo che, se applicato per tempo, avrebbe potuto salvare la vita a chi si fosse presentato al Pronto soccorso con una sospetta Vitt, la trombocitopenia indotta da vaccino. La stessa patologia che il 10 giugno ha ucciso Camilla Canepa. Dopo un «colloquio informale con il direttore sanitario dell’Ospedale Evangelico Gaddo Flego», spiega il medico al pm di Genova il 25 marzo 2022, «ho predisposto un Pdta (percorso diagnostico terapeutico assistenziale, ndr) condiviso con i miei colleghi vaccinatori». Per il dottor Haupt è una corsa contro il tempo. La consegna alla Direzione sanitaria avviene il 13 aprile 2021 e il giorno seguente il documento viene girato ad Alisa (l’azienda sanitaria ligure) e, conferma il medico, «nello stesso tempo» è stato inviato anche «al Pronto soccorso». Quel giorno c’è una coincidenza. E Haupt la evidenzia davanti ai pm: «Combinazione lo stesso 13 aprile l’Aifa (l’Agenzia italiana per i farmaci, ndr) pubblica una informativa dove viene detto che gli operatori sanitari devono vigilare sui segni e sui sintomi e informare il vaccinato, quindi, combinazione... era una cosa coerente con le indicazioni dell’Aifa». Ad analizzare i due protocolli, però, c’è una contraddizione. La nota successivamente diffusa da Alisa, che recepiva le indicazioni del dottor Haupt, nel caso di sintomi neurologici dopo la somministrazione del vaccino, tra i vari esami prevedeva anche la Tac dell’encefalo senza mezzo di contrasto, quindi al naturale, senza iniettare nel sangue del paziente una sostanza opaca ai raggi x. Quella dell’Aifa, invece, prevedeva il liquido di contrasto. Un aspetto che, successivamente, deve essere stato corretto anche nel protocollo Alisa: «Il documento diceva», si evince dai messaggi WhatsApp mostrati dal medico al pm, «se Tac negativa, altra diagnosi […] infatti lo hanno cambiato e hanno messo Tac con mezzo di contrasto». Sostanzialmente, però, le indagini sanitarie indicate erano molto simili. La macchina burocratica però sembra muoversi al rallentatore. Il documento del dottor Haupt resta bloccato per settimane. «Il 15 aprile il Pdta», spiega in Procura l’ex primario, «viene inviato in Regione Liguria... Alisa... poi andiamo a maggio». Ed è a questo punto che il percorso amministrativo del Pdta si intreccia con la vaccinazione di Camilla. «La Camilla Canepa», ricorda Haupt, «viene vaccinata nell’ambito degli Open day». Il 25 maggio, infatti, le iniettano una dose di Astrazeneca, due giorni prima della pubblicazione ufficiale del Pdta da parte della Regione (27 maggio). Quando il 3 giugno Camilla si presenta al Pronto soccorso di Lavagna con emicrania e fotosensibilità, i criteri clinici per sospetta Vitt erano già scritti nel protocollo. Il documento, però, non è ancora ufficiale. Haupt lo dice chiaramente: «Certo ero un po’ insofferente del fatto che il Pdta non venisse pubblicato e ne ho parlato con il dottor Flego, chiedendo notizie sullo stato di valutazione del documento». L’idea era semplice, quasi banale: rendere il protocollo immediatamente fruibile a chi, in Pronto soccorso, si fosse trovato davanti un paziente con sintomi evidenti. Haupt precisa: «Quella sindrome lì... mal di testa o mal di pancia, le piastrine basse... se uno ha fatto il vaccino una settimana prima, il sospetto c’è tutto, a quel punto lì va attivata subito la terapia». Poi aggiunge: «Nella nostra idea, il Pdta doveva essere inviato ai Dea (Dipartimento di emergenza e accettazione, ndr) e al 118 al fine di far sì che le persone sospette di essere colpite da Vitt venissero subito attenzionate e trattate precocemente con immunoglobuline, nella considerazione che la somministrazione non ha effetti negativi, se non quelli di effettuare i prelievi ematici prima per evitare inquinamento del campione». Prelievo e terapia immediata. Attività che gli ospedali erano in grado di fare. Haupt lo dice senza giri di parole: «Le immunoglobuline sì. Mentre quello che non erano in grado di fare gli ospedali, a quell’epoca neanche il San Martino (di Genova, ndr), poi si sono adeguati, era fare l’analisi della ricerca degli anticorpi». Tutto molto semplice, all’apparenza. «So che prima del 27... della pubblicazione definitiva... nelle fasi finali», lamenta il dottore, «avevo ricevuto una bozza in questo senso, in maniera confidenziale dal direttore e avevo rilevato alcuni errori marginali». In sostanza, «dal 14 aprile», precisa Haupt, «si arriva al 27 maggio... dopo procedure interne, la Regione Liguria pubblica sulla Gazzetta ufficiale questo documento che viene girato dalla Direzione sanitaria degli ospedali ai Pronto soccorso, 118, eccetera». Ma il protocollo non è ancora operativo. «Il 28 maggio», ricorda il medico, «il documento è stato recapitato ufficialmente all’ospedale Evangelico e posso dedurre che analogamente sia avvenuto per gli altri ospedali». Intanto, fuori dagli uffici regionali, la campagna vaccinale corre. Gli Open day riempiono i palazzetti, le dosi vengono iniettate a ragazzi e adulti. Mentre il Pdta continua a girare tra gli uffici. E quel 28 maggio, ricorda Haupt, «era un venerdì, quindi nella migliore delle ipotesi il lunedì successivo i direttori di Dea avevano potuto convocare una riunione per diffondere questa documentazione e... il lunedì successivo era il 31 maggio». Troppo tardi. E Haupt sbotta: «Non basta appiccicarlo in bacheca, diciamo...». Quella carta, pensata per agire subito, rimane intrappolata tra uffici, timbri e riunioni. Così, il 3 e 4 giugno, a Camilla non viene applicato il percorso clinico indicato dal Pdta, né quello previsto dall’Aifa. Viene dimessa con una diagnosi di «cefalea». Quando Haupt riesce a inoltrare il suo lavoro personalmente alla collega Paola Truglio, primario del Pronto soccorso all’ospedale di Lavagna (indagata per la morte di Camilla e poi prosciolta) è il 6 giugno. Camilla era tornata in ospedale poco prima della mezzanotte del giorno precedente ed è già in gravi condizioni. «Ho un rapporto con la dottoressa Truglio professionale e non particolarmente confidenziale», spiega Haupt ai pm, aggiungendo che «quando la vicenda Canepa era già scoppiata, le ho chiesto come era andata e cosa era successo». Poi aggiunge, come detto, di aver «mandato il documento la prima volta il 6 giugno». Ma sottolinea anche di non avere «contezza se potesse averlo visto prima». Quel giorno, ricorda Haupt, scambia messaggi via WhatsApp con la collega. E dopo aver ricevuto «l’indirizzo mail della dottoressa Truglio» avrebbe inoltrato lì «il Pdta in formato Word». Il messaggio che accompagna il documento è questo: «Cara Paola, come promesso ti invio un po’ di documentazione. Il Pdta è stato approvato da Alisa il 27 maggio, dovrebbe essere stato inviato ai vari Dea. A mio avviso alla luce dei fatti odierni ha assunto anche rilevante importanza medico legale». La chat viene riletta dagli inquirenti: il tono è personale, quasi affettuoso. Finché non si fa tecnico: «Di Astrazeneca è interessante la tabella a pagina undici, dove si dimostra che in casi di bassa incidenza di infezione, come attualmente in Liguria, il rischio di morire di Covid per gli under 40 è nullo, mentre il rischio di morire per Astrazeneca è 10.000. Cari saluti, Enrico». «Direi che non ha ricevuto risposta», commenta la pm Francesca Rombolà. E la domanda resta sospesa: il protocollo era mai arrivato ufficialmente a Lavagna? «Non mi ha dato una risposta precisa», ammette Haupt. Fatto sta che a Lavagna la Tac viene fatta senza liquido di contrasto e non sarebbe stata visionata da un neuroradiologo. Per cui i piccoli segni riscontrabili anche a secco non vennero associati alla Vitt.
Bruno Sgromo: «Senza imperizia dei medici, Camilla aveva fino all’80% di possibilità»
I quattro medici del pronto soccorso dell’ospedale di Lavagna sono stati prosciolti dall’accusa di omicidio colposo eppure Camilla Canepa, la studentessa di Sestri Levante morta per il vaccino Covid di Astrazeneca, non aveva ricevuto l’assistenza prevista dai protocolli in caso di sospetta trombosi dei vasi cerebrali post vaccino (Vitt). Doveva essere eseguita una Tac con liquido di contrasto, cosa che non venne fatta, non venne intrapreso il percorso diagnostico terapeutico necessario.
Il gip di Genova Carla Pastorini ha deciso il non luogo a procedere: «Non può sostenersi che sussista quell’alto grado di credibilità razionale o probabilità logica per affermare la sussistenza del nesso causale e, cioè, per affermare che, la mancata adozione della condotta salvifica, sia causa provata dell’evento». È così impossibile per i cittadini avere giustizia in caso di errori conclamati e chiari dei sanitari?
Lo abbiamo chiesto all’avvocato Bruno Sgromo, il cui studio è specializzato in casi di malasanità e che da decenni si occupa di responsabilità professionale del medico e della struttura ospedaliera. Sgromo è anche il legale della famiglia Canepa, della mamma Barbara Spoto e della sorella, Beatrice Canepa. Il papà era morto di crepacuore pochi mesi dopo il decesso della figlia.
La diciottenne Camilla si era vaccinata nel maggio del 2021 in uno degli Open Day promossi dal Comitato tecnico scientifico, malgrado gli stessi esperti fossero al corrente che Astrazeneca proteggeva meno e comportava grandi rischi. Dovevano aderire «alla richiesta dell’allora ministro della Salute Roberto Speranza» di abbassare la somministrazione sotto i 60 anni, come è emerso dai verbali e dai video delle riunioni del Cts che La Verità sta pubblicando da giorni.
Sui verbali l’avvocato non vuole rilasciare dichiarazioni, si limita ad affermare che «allora c’erano tanta confusione e inadeguatezza». Sullo scudo penale invocato a protezione dei medici a meno di dolo o colpa grave e che il ministro Orazio Schillaci vuole rendere legge, il legale è molto duro.
Avvocato, partiamo dalla giovane che non doveva ricevere quel vaccino e che non è stata salvata.
«ll ministero della Salute aveva già tracciato il percorso in caso di tromboembolia strettamente legata alla somministrazione del vaccino Astrazeneca. Per Camilla, che presentava sintomi indicativi, doveva essere seguito quel protocollo, invece le linee guida non furono applicate. Sicuramente sulla sentenza avrà influito tantissimo lo scudo penale introdotto in epoca Covid, alleggerendo la responsabilità dei medici. Inoltre, le perizie tecniche richieste dal pm hanno dato una percentuale di perdita di chance di sopravvivenza dal 50 all’80%. Percentuale che non ha soddisfatto il principio di “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Avrebbe dovuto essere una perdita del 100%».
Era una sentenza scontata?
«Responsabilità di perdita di chance dal 50 all’80% in una ragazza di 18 anni sono importanti. Camilla avrebbe avuto possibilità di salvarsi fino all’80%. I medici potevano anche essere assolti successivamente, ma almeno il processo per omicidio colposo doveva aver luogo».
Quanto è difficile vedere riconosciuta la colpa di professionisti sanitari?
«Nel penale la statistica è di circa il 97% di archiviazioni dei procedimenti. Quel 3% è solo per i casi estremi, del tipo amputazione della gamba sbagliata».
Ma allora perché i medici e il ministro della Salute, Orazio Schillaci, continuano a chiedere che diventi strutturale lo scudo penale, provvedimento introdotto dal governo Draghi in emergenza Covid e prorogato fino a fine 2025?
«Infatti non ha senso, l’imperizia è già depenalizzata di fatto. Negligenza e imprudenza sono due condotte gravissime. Quello che vogliono è interrompere prima il percorso giudiziario, senza che il medico si faccia il periodo dell’indagine. Possibilità paventata anche dalla commissione Adelchi d’Ippolito, dal nome del magistrato che la presiedeva».
Si riferisce alla Commissione nazionale sulla colpa medica, istituita dal ministro della Giustizia Carlo Nordio nel marzo del 2023 e che aveva concluso i lavori lo scorso novembre con proposte di modifica alla disciplina della responsabilità medica, sia in ambito penale sia in ambito civile.
«Proprio quella. Era composta da avvocati che in tribunale non si sono mai occupati di responsabilità medica, e da medici. Nessun avvocato dalla parte del paziente. Una cosa vergognosa. Si pensa troppo spesso al medico, a come salvaguardare la serenità e il lavoro dei medici che hanno lobby fortissime, mai alla famiglia che si ritrova con un neonato rovinato o un figlio vegetale. Mai un pensiero a favore delle vittime».
Anche nel caso di Lisa Federico, 17 anni, morta per un trapianto di midollo osseo sbagliato, i medici del Bambino Gesù sono stati assolti dal gip. Ed è stata archiviata la posizione di Franco Locatelli, primario di oncoematologia. Eppure è agli atti che una delle dottoresse faceva presente la «situazione molto grave», dovuta a una somma di errori, «che espone la nostra paziente a un concreto ed elevato rischio».
«Ho seguito diversi casi simili, ci sono accordi di riservatezza e non se ne parla perché spesso si rinuncia all’azione penale e civile a fronte di somme pagate subito dall’ospedale. Quando invece si apre il procedimento penale, le possibilità di “ottenere giustizia” sono ridotte quasi a zero. Dato ancora più vergognoso se consideriamo che la tredicesima sezione civile del tribunale di Roma, il più importante d’Europa come casistica, ha stabilito che il 67% di tutti gli atti depositati sono evoluti in responsabilità».
Procedimenti archiviati in ambito penale hanno un esito così positivo nel civile?
«Non è accettabile che il principio penalistico sia prossimo al 100%, non può esserci questa enorme discordanza con il civile ma questo accade. Pensi solo che ogni anno l’Italia registra 15.000 morti per virus contratti in ambito ospedaliero, ma nessuno pone l’accento su un fatto così grave. Si preferisce parlare degli alti costi della medicina difensiva».
Mai quantificati, tra l’altro.
«E senza possibilità di stabilire se un medico ha predisposto un esame diagnostico in più perché ha paura di un contenzioso o “semplicemente” perché è coscienzioso e vuole tutelare il paziente. Ben venga sempre, la medicina difensiva, il cui costo è irrilevante».
ll principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nel giudizio penale scoraggia dal fare causa a un medico o a una struttura sanitaria.
«Certo, anche per i costi altissimi di un contenzioso in sanità, per il rischio di contro querele. Noi lavoriamo con una società di Litigation Funding, ovvero di finanziamento del contenzioso. Dopo aver verificato la fondatezza della causa, lo studio sostiene tutte le spese e i rischi a fronte di una percentuale sul risarcimento e solo a esito positivo. Normalmente, però, questo non accade, non si battaglia ad armi pari contro chi può avere i migliori professionisti contando su risorse infinite».
Che cosa consiglierebbe di fare a chi è stato vittima di malasanità?
«Sul fronte penale, se fai la denuncia querela subito, come spesso viene consigliato, sequestrano le cartelle cliniche, quindi prima mi procurerei una perizia di parte seria basata sulle cartelle. La denuncia, se poi fatta, è così supportata dalla perizia di parte. Per il civile, se la causa è strutturata bene, le possibilità di vincerla sono dell’80%».
In sede civile, quale conclusione avrà l’ingiusta morte Camila Canepa?
«Stiamo aspettando, la perizia dà responsabilità, la consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) del civile dovrebbe dare la bozza a novembre».
Molti membri contrari a dare Astrazeneca sotto i 60 anni: «È pericoloso». L’incontro si conclude senza l’ok. Ma poi Locatelli aggiunge una frase che di fatto dà il via libera dai 18 anni: proprio l’età di Camilla Canepa, uccisa dall’iniezione. Interrogati dagli inquirenti, gli esperti si trincerano dietro una barriera di «non ricordo».
La condanna a morte di Camilla Canepa potrebbe avere una data e un orario precisi: le 9:57 del 14 maggio 2021.Quattro anni fa, in una mattina di primavera inoltrata, il coordinatore del Comitato tecnico scientifico e presidente del Consiglio superiore di sanità, il pediatra Franco Locatelli, invia al segretario del comitato il verbale «aggiustato» della riunione del Cts di due giorni prima. Un «ritocchino» che risulterà fatale per la diciottenne di Sestri Levante. Il 12 maggio il Cts aveva dato parere favorevole alla richiesta del ministro Roberto Speranza di allargare la platea dei cittadini a cui si poteva raccomandare l’utilizzo di Astrazeneca e, contemporaneamente, aveva impartito anche l’estrema unzione al siero.
«Molto chiaramente si è già sotterrato, nel momento in cui l’Unione europea annuncia che non rinnoverà il contratto per il vaccino Astrazeneca, è chiaro che è un vaccino che in questa prospettiva non ha futuro» aveva scandito Locatelli. Ma ciò non era bastato a impedire che venisse somministrato ancora.
In quella sofferta seduta, il Cts, a causa di una spaccatura interna, non si spinge a raccomandare il vaccino alle persone tra i 50 e i 59 anni, come auspicato da Speranza. In compenso dà un via libera generalizzato a un utilizzo «non raccomandato». Nonostante gli effetti collaterali riscontrati. «Non rispondiamo al quesito, perché questo deve essere chiarissimo a tutti noi, diamo delle indicazioni generali, poi, come dire, ognuno faccia quel che vuole» sintetizza Locatelli.
Utilizzando un cavillo, gli esperti aprono al governo una strada alternativa per smaltire le ingenti scorte accumulate del siero in via di rottamazione. Infatti, nella versione finale del verbale della riunione del 12 maggio, quella inviata via mail da Locatelli al segretario Sergio Fiorentino, avvocato dello Stato, compaiono cinque righe che, in un certo senso, recepiscono le pressioni che alcune Regioni «vacciniste», Lazio e Liguria su tutte, stanno facendo per vedersi autorizzare gli Astra day. Anche se nessun quesito ufficiale era stato posto sull’argomento e lo stesso era stato solo sfiorato in un paio di sedute, Locatelli, quando riceve la bozza riassuntiva della riunione del 12 maggio, aggiunge un passaggio fondamentale per il destino di Camilla. Un capoverso che anticipa al segretario con queste parole: «In allegato trovi il verbale da me accuratamente rivisto».
Nella nuova versione del resoconto si legge a sorpresa: «Inoltre, alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, il Cts non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate dalle differenti realtà regionali o legate a provincie (sic, ndr) autonome, iniziative, quali i vaccination day, mirate a offrire, in seguito ad adesione/richiesta volontaria, i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni».
La comune conoscenza da parte dei membri del Cts della pericolosità della vaccinazione con Astrazeneca di soggetti giovani e, in particolare, di sesso femminile, si scontra con le pressioni politiche per ampliare la platea di soggetti da inoculare con Astrazeneca. Tutto il comitato si scherma dietro l’autorizzazione all’utilizzo del vaccino per gli over 18 e la sbandierata libertà di scelta da parte di una popolazione «reclusa».
Ma in quel momento i cittadini sono tutt’altro che liberi: o si vaccinano o sono destinati a vivere da prigionieri.
La Procura di Genova e, in particolare, i carabinieri del Nas hanno cercato di capire come sia potuto accadere che un siero che gli esperti non hanno voluto raccomandare a chi aveva più di 50 anni, sia potuto finire nel sangue di una diciottenne.
I verbali delle sommarie informazioni testimoniali sono una sagra del «non ricordo».
Il 22 giugno 2022, per capire i motivi della modifica, gli inquirenti chiedono a Locatelli: «Al comitato era pervenuta una richiesta scritta relativa all’organizzazione dei vaccination day?»
Risposta: «Non ricordo che sia giunto un quesito, neanche informale, che riguardava proprio questi vaccination day». I pm insistono: «Erano giunte sollecitazioni alla sua persona affinché il comitato prendesse posizione sui vaccination day?». Nuova replica: «No, non mi erano giunte sollecitazioni». Le toghe sembrano spazientirsi un po’: «Se non avete avuto quesiti specifici sui vaccination day, come ci può spiegare l’inserimento di tali osservazioni sul verbale della riunione del 12 maggio 2021?». Locatelli si dimostra un maestro dell’arrocco: «In quel contesto io non ho memoria e non ho risentito le registrazioni delle riunioni, ma se è stato verbalizzato faccio fatica a credere che questo argomento non fosse stato trattato durante la riunione; al riguardo, comunque, il Cts poteva dare un indirizzo, un parere, ma non aveva titolo per poter vietare l’utilizzo di un farmaco». Sebbene nella prima bozza del verbale non si facesse cenno agli open day, Locatelli tenta uno scaricabarile da manuale: «Tutto quello che veniva verbalizzato era sempre stato trattato nelle riunioni del Cts e mi sembra quantomeno strano che anche i miei colleghi non avessero fatto obiezioni al verbale».
Arriva a questo punto la domanda più insidiosa: «Nel maggio 2021 lei era già a conoscenza degli effetti collaterali provocati dal vaccino Astrazeneca sui soggetti più giovani, in particolare della trombosi trombocitopenica indotta dal vaccino?». Locatelli risponde serafico: «Sicuramente sì e aggiungo che venne creato un gruppo di lavoro specifico sulle trombosi associate al calo delle piastrine». Il luminare avrebbe partecipato anche «alla prima riunione di insediamento» del team.
Locatelli deve parare un altro temibile affondo: «Lei era consapevole della conseguenza che avrebbe comportato l’inserimento nel verbale della riunione del Cts del 12 maggio 2021 del nulla osta a che fossero organizzati i vaccination day?». Il testimone sembra prendersi le proprie responsabilità: «Concordo che queste indicazioni abbiano potuto fornire supporto all’organizzazione dei vaccination day». Subito dopo, però, puntualizza: «Ma non mi sento affatto di escludere che le stesse avrebbero potuto comunque essere organizzate». A questo punto Locatelli sparacchia la palla in tribuna: «Comunque questo vaccino era stato approvato dai due enti regolatori (l’Agenzia italiana del farmaco e quella europea dei medicinali, Aifa ed Ema, ndr) e, inoltre, rammento che in quei giorni l’emergenza sanitaria era ancora importante e, comunque, all’inizio era già stato somministrato a persone con età inferiore a 60 anni». Il coordinatore non ci sta a fare da capro espiatorio di quel caos organizzato che era la gestione pandemica dei governi Conte 2 e Draghi.
Un clima di confusione confermato dalle dichiarazioni di Fiorentino: «Non ricordo come siamo arrivati a scrivere questa cosa […]. L’argomento (open day, ndr) non era incluso nel quesito proposto dal professor Locatelli. Ricordo, però, che, nel corso della riunione, sebbene in modo marginale, il tema era stato affrontato. Per quel che ricordo alcune figure istituzionali della Regione Lazio e della Campania avevano sollevato la problematica nel dibattito pubblico». Ma la questione non è entrata nell’ordine del giorno e nemmeno nella discussione vera e propria. «Non c’è nessun quesito scritto», precisa Fiorentino con gli inquirenti. E le cinque righe finite per alcune settimane al centro delle indagini? «L’estratto è stato scritto dal professor Locatelli il quale ha integrato la mia bozza con quello che mi avete letto» conclude l’avvocato.
Le toghe hanno posto una domanda interessante a Giovanni Rezza, all’epoca direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute: «Come concilia quello che lei ha asserito sull’inopportunità da un punto di vista medico di somministrare il vaccino ai giovani e la decisione del Cts?». L’esperto alza le mani: «Noi come Dipartimento della prevenzione sanitaria non abbiamo mai incentivato i vaccination day, infatti non è stata emessa alcuna circolare inerente a questa iniziativa, anche perché formalmente legittima stante le autorizzazioni in tal senso di Ema e di Aifa al di sopra dei 18 anni di età».
Il virologo Giorgio Palù, uno dei più contrari all’estensione dell’utilizzo di Astrazeneca, con la sua testimonianza, offre alla Procura un indizio per individuare il motivo dell’aggiunta: «Ricordo che la questione era stata sollevata su sollecitazione delle Regioni, tra cui il Lazio, con l’assessore D’Amato (Alessio, ndr), e la Liguria». Ma lo specialista precisa di «non aver visto alcuna richiesta formale» e che «il parere sulla questione è stato proposto all’ultimo momento».
L’immunologo Sergio Abrignani è l’unico che fa riferimento con i pm a un vero e proprio secondo quesito avente a oggetto i vaccination day: «Quando è arrivato? Non me lo ricordo, Franco Locatelli sicuramente ci menzionò la richiesta da parte delle Regioni o di altre istituzioni».
Di fronte a tanta approssimazione, i magistrati, non soddisfatti, riconvocano Locatelli il 5 dicembre 2022 e ritornano sull’argomento clou: «Dalla visione degli appunti e della documentazione acquisita è emerso» che «l’aggiunta è stata fatta da lei: ricorda perché è stata fatta o sulla base di quali indicazioni è stata inserita nel verbale?» è l’esordio degli inquirenti. L’ex coordinatore del Cts, dopo aver specificato di non avere stilato lui il promemoria della riunione (il compito spettava a Fiorentino), dà una risposta ancora più fumosa di quella offerta sei mesi prima: «Io non mi ricordo perché c’è stata l’aggiunta e lo dico in assoluta sincerità e trasparenza. Posso solo ipotizzare, ma sottolineo che è una ipotesi, che sia coerente con un punto precedente del verbale in cui credo venga declinata in maniera decisa che i vaccini a vettore adenovirale sono approvati dalle agenzie regolatorie, nel caso specifico Ema e Aifa. E, quindi, essendo approvati hanno autorizzazione all’uso». Uno dei pm si mostra perplesso: «Lei non si ricorda davvero?». Locatelli giura due volte e supplica: «Mi creda non è minimamente né reticenza, né non volontà di condividere […] non mi ricordo la genesi di quella frase se non ipotizzando che sia conseguente al fatto che due vaccini erano approvati dalle agenzie regolatorie e il Cts non aveva alcun titolo per proibire o autorizzare alcunché». I magistrati provano a insistere ancora un po’, anche se, poi, danno l’impressione di accontentarsi. Il verbale si chiude in meno di un’ora, tempo che comprende rilettura e approvazione del testo.
Locatelli, dopo essere stato convocato nuovamente a Genova per dare spiegazioni più esaurienti, si aggrappa ancora alle proprie amnesie e alle autorizzazioni altrui. Una condotta che, alla fine, paga e gli evita ogni incriminazione.
Nel maggio del 2021 il Cts era pienamente consapevole dei molti rischi e degli scarsi benefici, tanto da accettare a fatica la richiesta di Speranza di abbassare l’età per la somministrazione: «Ma sotto i 50 non esiste». Infatti... Di lì a pochi giorni partono gli Astra-day: vaccino inglese per tutti. Il mese successivo muore Camilla Canepa.
C’è stato un momento in cui il Comitato tecnico scientifico, la cabina di regia ideata da Giuseppe Conte per portare l’Italia fuori dalla pandemia, sembrava essersi avvitato su un freddo calcolo: quante vite bisognava essere sicuri di salvare con il vaccino per prendersi la responsabilità di provocare una trombosi in un cittadino sano. Era il maggio del 2021 e la forbice tra «rischi» e «benefici», in quei giorni in cui la circolazione del virus era minima, si era avvicinata clamorosamente, come conferma la registrazione video della riunione del 7 maggio 2021 (diciotto giorni prima della vaccinazione di Camilla Canepa, la diciottenne di Sestri Levante uccisa da una dose all’Astra day), che all’epoca era segreta e che ora La Verità mette a disposizione dei lettori sul sito Web. Il Paese viveva un’apparente tregua: la curva dei contagi si abbassava, i reparti Covid si svuotavano, ma la campagna vaccinale correva, sospinta dalla politica che non voleva rallentamenti.
Il Cts aveva davanti la matematica spietata dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco), letta da Franco Locatelli: nella fascia 50-59 anni, con bassa circolazione virale, il vaccino Astrazeneca avrebbe salvato «una vita a fronte di un caso di trombosi con trombocitopenia». Il rapporto era «uno a uno». In scenari peggiori il conto cambiava, ma non la sostanza: sempre una trombosi grave per ogni manciata di vite risparmiate. Si arrivava al massimo a un rapporto di «1 a 15» in caso di alta circolazione del virus. E sul tavolo c’erano anche i dati italiani: 34 casi di trombosi venosa già accertati, 29 intracraniche e cinque viscerali. Le vittime: 22 donne con età media di 48 anni e 12 uomini con età media di 52. Al tavolo tecnico non se lo dicono, ma era raro che un under 50 senza ulteriori patologie finisse in obitorio per aver contratto un’infezione da coronavirus.
La conta dei morti per effetti avversi, invece, cominciava a farsi seria: «È un evento raro ma», allo stesso tempo, «un effetto riconosciuto associato alla vaccinazione», scandì Donato Greco nel corso della riunione. Eppure si continuarono a vaccinare dai 50 anni in giù come se quei numeri non esistessero. E il ministro della Salute Roberto Speranza, due giorni prima, aveva mandato al Cts una richiesta di valutazione sulla possibilità di somministrare Johnson&Johnson e Astrazeneca, «oggi raccomandati preferibilmente in soggetti sopra i 60 anni, anche nella fascia di età compresa tra i 50 e i 60». «Il discorso sul rapporto rischio beneficio lo si fa, ed è giusto, però in questo caso abbiamo altre opzioni che sono altri vaccini che non hanno questo problema», avvertì Sergio Abrignani, aggiungendo che se esistevano «alternative» più sicure, non aveva senso rischiare «anche un solo morto» per somministrare Astrazeneca. Meglio «ritardare di dieci giorni» l’arrivo delle forniture. In quelle parole c’era tutto: il Cts sapeva che si poteva evitare e sapeva anche che il costo umano non era accettabile. Giorgio Palù fu altrettanto chiaro: «Sappiamo di un meccanismo patogenetico che accomuna tutti i vaccini a vettore adenovirus […]. Se dovessi dare il mio parere […] non andrei oltre però 50-59 anni, è una cosa che darei con molta difficoltà, lo dico veramente, lo darei con difficoltà». La difficoltà c’era, il rischio pure, ma nessuno si prese la responsabilità di tirare il freno a mano.
La bioeticista del gruppo, Cinzia Caporale, ricorda a tutti che «Macron ha cominciato a fare una campagna di donazione del vaccino Astrazeneca a Paesi emergenti perché lì […] è una questione tra non avere nulla e avere un vaccino sub ottimale». La preposizione «sub», sotto, davanti a «ottimale», esprime chiaramente il giudizio che in quel momento il Cts aveva di Astrazeneca. Le parole della Caporale avrebbero dovuto introdurre una riflessione. Astrazeneca può andar bene dove non ci sono alternative, ma in Italia diventa una scelta eticamente ingiustificabile. Ma non è l’unico campanello d’allarme suonato dalla Caporale: «Io capisco la necessità di utilizzare tutti i vaccini che si hanno, li abbiamo ordinati, li abbiamo comprati o altro, però attenzione perché alla fine le persone… poi la stampa è libera… i commenti ci sono… altri studiosi fanno anche le loro analisi sui dati, quindi non è che possiamo restare, come dire, ancorati a un disegno ideale che ci figuriamo se poi il dato contrasta con questo». Insomma, anche se i vaccini sono stati comprati ed è meglio non sprecarli bisogna pur stare attenti a quei «cattivoni» dei giornalisti che potrebbero denunciare eventuali errori. Il Cts prende tempo: «Mi pare che ci sia consenso nel richiedere dati addizionali al commissario (in quel momento era il generale Francesco Paolo Figliuolo, ndr) per quel che riguarda sia numeri precisi di vaccini che si avranno da qui alla fine di giugno sia il numero della popolazione della fascia 50-59», dice Locatelli. Poi c’è un grottesco siparietto: «Giorgio», riprende Locatelli, «a scendere sotto quella fascia non ci si pensa minimamente». I carabinieri che hanno trascritto quella riunione per la Procura di Genova annotano: «I due ridono». Ed è in quelle risate che si misura la distanza tra chi, chiuso nelle stanze, prendeva con leggerezza i calcoli sui rischi e chi, invece, dal peso di quanto veniva deliberato in quel contesto rischiava di essere schiacciato.
Poi Locatelli riprende ad argomentare: «Come dire… i rischi… poi insomma neanche in contesti epidemiologici sfavorevoli giustificherebbero la scelta e appunto chiediamo più dati addizionali per formulare un parere compiuto». In quella videoregistrazione il problema, però, non era solo legato a quanti potenziali vite salvate potesse valere una trombosi. Era anche come scriverlo, quanto dire e cosa lasciare fuori dai verbali ufficiali. La riservatezza diventa quasi un’ossessione, più della trasparenza scientifica. Locatelli, a un certo punto, mentre Silvio Brusaferro mostra il suo studio sulle incidenze della pandemia, frena di colpo: «Questa diapositiva secondo me è particolarmente delicata perché interpretata, come dire, in maniera prevenuta rispetto al vaccino di Astrazeneca, ti fa passare il messaggio che sia meno efficace rispetto agli altri quindi sia una sorta di vaccino di serie B […], quindi farei maturare bene il dato e lo controllerei prima di mostrarlo». Non sembra un dubbio scientifico, ma un problema di immagine: Astrazeneca non deve sembrare «di serie B», anche se i dati lo dimostrano. Brusaferro lo spalleggia senza esitazioni: «Condivido con te Franco sull’opportunità poi forse anche di non entrare nei dettagli per vaccino, ma dare il messaggio che tutti i vaccini funzionano». È il patto comunicativo del Cts: non rimarcare le differenze, non dire che uno è peggiore, diffondere solo la versione edulcorata. Sergio Fiorentino sembra il più cauto: «Velocemente volevo dire che tutta questa discussione sul documento riservato non la riporterei nel verbale».
Ed è a questo punto che l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino conferma i timori di una diffusione di notizie sensibili: «Colgo l’occasione per rappresentarvi che ieri, per esempio, il Tar del Lazio ci ha ordinato di depositare due verbali rispetto a un ricorso del Codacons […]. Non c’entrano niente con quel ricorso che parla di ristoranti, ma, comunque, insomma, se noi mettiamo queste informazioni nel verbale prima o poi verranno fuori, quindi ometterei tutta questa parte di dibattito». È l’ammissione più schietta: non è che quelle informazioni non esistano, è che non vanno messe negli atti, perché un giorno qualcuno potrebbe leggerle. E la Caporale coglie il rischio di questa impostazione: «Le persone non sono così sprovvedute come delle volte si pensa nei consessi di esperti […]. E più rinneghiamo, cioè neghiamo l’informazione, e più ci saranno sospetti che l’informazione vera, cioè che il dato disaggregato dei vaccini sia, come dire, non comunicabile». Avverte che quello che sta accadendo lì dentro non potrà rimanere segreto per sempre. Locatelli, però, ricorda a tutti: «Reitero quanto è stato chiesto prima, cioè con l’ovvio impegno da parte di tutti noi di mantenere assoluta riservatezza». E infine, in quella stessa riunione, c’è un ulteriore passaggio che sembra fotografare la gestione del Cts. Quando si discute delle linee guida per l’accesso alle Rsa, le strutture con i più fragili, i professoroni se ne lavano le mani. È Giuseppe Ippolito ad affermare: «Non possiamo entrare in un documento chiuso già presentato ieri e approvato alla conferenza Stato-Regioni perché allora veramente facciamo la figura dei pierini». Ammette che, anche se quel documento può essere lacunoso o perfino sbagliato, non conviene al Cts modificarlo. Il problema è quello di intromettersi a giochi fatti. Una resa preventiva. Qui emerge il lato più criticabile: il Cts che si proclama organo tecnico e scientifico abdica al suo ruolo proprio davanti a un atto politico-amministrativo già confezionato. E così la tutela della salute degli ospiti delle Rsa passa in secondo piano rispetto al timore di urtare la suscettibilità della Conferenza Stato-Regioni. Nessuna correzione, nessuna puntualizzazione. Solo l’ansia di non sembrare dei «pierini». E, così, a guardare le riunioni dei professoroni si ha l’impressione che stiano più attenti a non disturbare i palazzi che ad applicare un metodo scientifico.
Un anno fa Bruno Vespa mi chiese di fare un confronto con Giovanni Rezza, ex direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute: «Cinque minuti» dopo il Tg1 per parlare del vaccino AstraZeneca e degli effetti collaterali da esso provocati. La trasmissione fu registrata nel pomeriggio, ma non si esaurì in cinque minuti, perché il botta e risposta fra me e l’ex alto funzionario che guidò il ministero durante la pandemia andò ben oltre il tempo assegnato. Da me incalzato con i verbali del Comitato tecnico scientifico, quella congrega di esperti che consigliò il ministro Roberto Speranza nelle ore più buie, l’ex direttore si esibì in una serie di balbettii, di «non mi pare» e «non ricordo». Al punto che davanti alle mie domande, che riguardavano la morte di Camilla Canepa, Vespa fu costretto, dopo aver sospeso la registrazione, a chiedere a Rezza di chiarire se dopo il decesso della giovane di Sestri Levante il Cts avesse cambiato le disposizioni e interrotto i vaccination day aperti ai ragazzi. E l’ex direttore fu costretto ad ammettere che sì, solo allora, nonostante i pericoli di effetti collaterali fossero già noti da prima del malore che colpì Camilla, il Cts proibì le inoculazioni dei ventenni.
Non so se negli archivi Rai, oltre ai cinque minuti andati in onda, sia stata conservata anche la parte «tagliata». Nel caso non fosse stata buttata, sono certo che riprodurla servirebbe a capire perché ancora oggi La Verità insista per chiedere chiarezza sulla gestione della campagna vaccinale e sulle responsabilità di chi allora avrebbe dovuto fare buon uso del principio scientifico di precauzione. Giorni fa, a proposito di Camilla Canepa, ho scritto che la lettura dei verbali del Comitato tecnico scientifico è agghiacciante. I resoconti mettono in luce la preoccupazione di alcuni dei professoroni che ne facevano parte e il timore che ci scappasse il morto, ma c’erano da smaltire le scorte di AstraZeneca e non bisognava che sorgessero dubbi sui vaccini. Così si preferì passare sopra alle perplessità e accelerare le iniezioni, comprendendo anche i ragazzi. Camilla pagò quella scelta. Mentre lei era già in coma, Speranza, per mettere a tacere le voci di chi consigliava prudenza con il siero AstraZeneca, riferisce di aver chiesto al proprio medico di essere inoculato proprio con il vaccino anglo-svedese. Peccato che lui di anni ne avesse 42 e non 18, come Camilla, e che a essere a rischio fossero proprio le donne più giovani. No, il ministro non voleva che si alimentassero dubbi e dunque spronava i tecnici a essere uniti, a difendere le scelte prese in precedenza, anche se settimane prima del decesso di Camilla, alcuni «esperti» tra i quali Sergio Abrignani consigliassero prudenza, dicendo «se poi ci scappa il morto, che facciamo»? Il morto ci fu e allora dentro il Cts scattò il panico e anche il pentimento, con l’attuale capo della Protezione civile Fabio Ciciliano che commentò amaro: avessimo fatto le cose per bene non ci sarebbe stato il decesso di una ragazza.
Leggere quei verbali, che La Verità ripropone sul suo sito in video, come detto è agghiacciante, ma è anche istruttivo. Si capisce perché i comitati tecnici o consultivi non debbano essere composti da esperti che la pensino tutti allo stesso modo. Essere tutti concordi, venire tutti dallo stesso giro di baroni, universitari o ministeriali, comporta l’azzeramento del dissenso, la creazione del pensiero unico. È questo che non comprendono i soloni che oggi parlano di No vax a proposito dell’esclusione di due professionisti non in linea con gli altri venti imposti dalla cupola medico scientifica che da anni governa la sanità. Che cosa abbia prodotto questo circolo di esperti è noto. Invece di predisporre un piano pandemico, preparando i medici e acquistando i dispositivi di protezione, per giorni e giorni si girò i pollici convinto che il Covid non sarebbe mai arrivato in Italia e dunque non c’era motivo di allarmarsi. Poi, quando l’epidemia dilagò, si inventarono il lockdown, i vaccination day, il green pass: un errore dietro l’altro. E adesso, invece di riconoscere di aver sbagliato e ammettere le proprie responsabilità, cercano ancora di tappare la bocca a chi non la pensa come loro. Ecco perché di fronte all’arroganza e alla prepotenza di costoro non possiamo e non dobbiamo tacere.






