Rame, filiere e prezzi in altalena. Congo, il cobalto resta limitato e la pace non si vede. In India arriva la prima gigafactory cinese. I ricambi auto cinesi invadono la Germania.
Trattative per la pace in Ucraina, prezzo gas giù. Gli USA contro il Net Zero 2050. Tony Blair vuole le fabbriche cinesi in GB. Falliscono i camion elettrici di Nikola. Mercedes, giù i profitti, tagli in vista.
Pechino può usare i veicoli per controllare le connessioni, ma Urso smentisce il «Corriere della Sera» sulle richieste di Dongfeng al governo. Anche per le Ong verdi gli obiettivi di emissioni 2025 sono irrealizzabili.
Mentre il governo si prepara a perfezionare i documenti da presentare al Consiglio europeo con la richiesta di anticipare all’inizio del prossimo anno l’esercizio della clausola di revisione del Regolamento sui veicoli leggeri, attualmente indicato per la fine del 2026, e rivedere anche la norma sui nuovi target più stringenti per le emissioni di CO2, si apre un altro fronte.
È noto da tempo che il ministero del Made in Italy sta vagliando la possibilità di accordi con un player cinese da affiancare a Stellantis. È un’azione esplorativa a 360 gradi ma con il presupposto che l’ingresso nel nostro Paese, non sarà con la formula dell’assemblaggio di parti importate ma con il coinvolgimento della componentistica italiana. Una nuova casa automobilistica deve essere un valore aggiunto per la nostra economia non una penalizzazione.
Ieri il Corriere della Sera, in un articolo ha lasciato intendere che ci sarebbe qualcosa di più di un’iniziale analisi della situazione ovvero che la partita con i cinesi sarebbe in fase avanzata al punto che il gruppo automotive Dongfeng avrebbe posto pesanti condizioni in cambio dell’investimento in Italia. La tesi del quotidiano milanese però è stata seccamente smentita dal ministero dell’Industria di Adolfo Urso. Il Corriere è arrivato infatti a riferire che degli emissari del ministero del Made in Italy si preparano a un nuovo tour di visite di siti produttivi e a colloqui con Pechino. Il cuore della presunta trattativa non sarebbe solo di carattere finanziario e industriale ma strategico. Dongfeng è un piccolo produttore di auto elettriche controllato completamente dallo Stato e dal partito. In gioco non ci sarebbero solo gli impianti e la logistica ma qualcosa di più importante. Secondo quanto scritto dal Corriere della Sera, Pechino «ha iniziato a sollecitare il governo su un ruolo di Huawei nelle infrastrutture di telecomunicazioni in Italia». I servizi di rete di Huawei sono stati proibiti da vari Paesi, a partire da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Nuova Zelanda e circa un anno fa la Commissione europea aveva annunciato misure per evitare l’uso della tecnologia del gruppo cinese. Ora Huawei userebbe l’ingresso in Italia, tramite le soluzioni di connettività delle auto, come cavallo di Troia per tornare in Europa. In ballo c’è anche la tecnologia dell’intelligenza artificiale.
Questo tema è così sensibile che recentemente l’amministrazione di Joe Biden della Casa Bianca ha presentato una norma per impedire l’utilizzo di software sviluppati in Cina nei veicoli «connessi» in circolazione negli Stati Uniti: il divieto si dovrà applicare alle automobili, ai camion e agli autobus ma non ai mezzi agricoli e ai macchinari minerari. Il motivo è la tutela della sicurezza nazionale, cioè si vuole impedire alle agenzie di intelligence cinesi di raccogliere informazioni sugli spostamenti dei cittadini americani o di sfruttare le automobili per accedere alla rete elettrica o ad altre infrastrutture sensibili. Il New York Times ha ricordato che sono motivazioni simili a quelle che hanno portato alla messa al bando delle apparecchiature di Huawei dalle reti di telecomunicazioni e all’indagine sulle gru cinesi presenti nei porti americani. Il Congresso, inoltre, ha approvato una legge che obbliga TikTok a distaccarsi dalla cinese ByteDance, pena il blocco della piattaforma.
L’infotainment, ovvero le apparecchiature elettroniche presenti in modo massiccio sulle auto di nuova generazione che consentono la connessione alla rete, rappresentano un veicolo per raccogliere una massa consistente di informazioni anche strategiche.
Come in Italia possa avvenire lo scambio tra investimenti e uso del 5G non è dato capire ma appare inverosimile.
Ieri infatti è arrivata la secca smentita dal ministero del Made in Italy su quanto scritto dal Corsera. «Non è prevista alcuna missione in Cina e non è in atto alcun confronto né vi è alcuna richiesta in merito alle infrastrutture di telecomunicazioni in Italia e sull’intelligenza artificiale. Riguardo all’Ia nel settore dell’auto è vero esattamente il contrario di quanto riportato nell’articolo: come più volte già ribadito, in ogni MoU (documento che stabilisce le intese generali tra due parti, ndr) siglato dal Mimit con il governo o con le aziende cinesi è previsto che la parte “intelligente” di eventuali veicoli prodotti in Italia debba essere realizzata nel nostro Paese sotto le regole della sicurezza nazionale ed europea».
Il tema dei rischi dell’ingresso delle tecnologie cinesi è d’attualità e la presunta richiesta del gruppo Dongfeng, indica che l’obiettivo non sono solo gli stabilimenti ma Pechino potrebbe usare l’auto per arrivare a controllare la rete di connessione.
La battaglia di Urso è anche sui livelli più stringenti delle emissioni di CO2 che scattano da gennaio prossimo. Perfino la Transport & Environment (T&E) la principale organizzazione non governativa europea ferma sostenitrice della transizione all’elettrico, riconosce che tutti i grandi gruppi automobilistici sono molto lontani dai target che scatteranno il prossimo anno. Per rispettare gli obiettivi di emissioni la quota di mercato delle elettriche dovrebbe salire al 20-22%, ma oggi la diffusione delle auto full green è sotto il 15%. Questo significa arrivare a vendere un’auto a batteria ogni quattro a combustione. Un obiettivo non raggiungibile entro il 2025. La T&E dice che la soluzione per diminuire le emissioni è di aumentare la vendita di ibride. Certo le ibride sono più accessibili ma siccome non hanno gli stessi risultati, come abbattimento delle emissioni, vanno vendute in numeri importanti. Come sempre c’è da confrontarsi con un mercato che finora ha mostrato di non voler seguire le scelte ideologiche.
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Reuters parla di trattative avanzate per la costruzione di un sito di Dongfeng. Il ministro Adolfo Urso: «Non si decide in un giorno». Sindacati preoccupati: «Userà fornitori italiani? Deve aggiungersi e non sostituire l’ex Fiat». Oggi vertice con le parti sociali.
Probabilmente tutto sarà molto più chiaro oggi, quando i sindacati incontreranno al Mimit il ministro Adolfo Urso e gli chiederanno conto delle indiscrezioni, fonte Reuters, che ieri davano il governo impegnato in colloqui avanzati con Dongfeng Motors, azienda automobilistica dello Stato cinese, per la realizzazione di uno stabilimento produttivo in Italia che faccia da hub per tutta Europa. Non solo. Perché, sempre secondo le notizie in possesso dell’agenzia, il progetto potrebbe coinvolgere, tra gli investitori di riferimento, anche imprese italiane del settore della componentistica e prevedere una partecipazione pubblica di minoranza. Boom.
La notizie ha fatto subito il giro delle redazioni e dei giornalisti impegnati a seguire i tavoli di crisi che coinvolgono il ministero dell’Industria e a Urso è stato immediatamente chiesto un chiarimento.
«Domani (ieri, ndr) abbiamo il tavolo automotive, per impegni industriali di questo tipo non si decide in un giorno né in un mese, è un processo produttivo che richiede i suoi tempi. Il ministero è in campo, come dimostrano le riunioni di questi giorni, anche in questa settimana di agosto: ieri i segretari confederali, oggi il tavolo della moda, domani l’automotive, dopodomani Confindustria. Nel frattempo i tavoli di crisi, il ministero è pienamente attivo».
Urso l’ha presa alla larga. Ma non si può non notare che la mancata smentita corrisponda a una mezza conferma e che il riferimento al vertice sull’automotive di oggi sia un indizio sul fatto all’incontro con le parti sociali potrebbe sbottonarsi.
Anche perché al di là del possibile arrivo di una casa automobilistica cinese in Italia, notizia circolata ormai diverse volte, conta quello che la casa asiatica verrà a fare da noi.
«Senza conoscere i particolari», spiega alla Verità Gianluca Ficco, responsabile del settore auto della Uilm, «è difficile dare un giudizio. Se Dongfeng dovesse arrivare in Italia per sostituire Stellantis non mi sembra una grande mossa. La vedo difficile che possa garantire i 40.000 lavoratori attuali e le migliaia di addetti dell’indotto. Diverso invece il discorso se dovesse rappresentare una risorsa produttiva aggiuntiva». E poi sul tema della componentistica. «Si parla di hub per l’Europa», aggiunge, «vorrei sapere cosa si intende. Se il riferimento è a un sito che produce vetture possiamo essere d’accordo, se invece l’obiettivo è creare un polo di assemblaggio e smistamento sulla falsariga di quello che fa Dr con i componenti che arrivano dalla Cina, allora non ci siamo. Sarebbe un grosso problema anche per il nostro sistema di fornitori».
«Lunedì il ministro Urso», spiega alla Verità il segretario generale della FimFerdinando Uliano, «ha ribadito che nel recente viaggio in Asia è stato sottoscritto un memorandum che riguarda anche la mobilità con la Cina, ma nulla di più. Noi sappiamo che Dongfeng è uno dei tre più grandi produttori d’auto cinesi e che tra le altre cose è anche un’azionista di Stellantis (era presente nell’azionariato di Peugeot al momento della fusione), ma un discorso è avere la certezza che verrà a produrre auto da noi agganciandosi a fornitori italiani, altro è raccogliere informazioni che ci fanno intendere che agirà da mero assembratore di componenti che arrivano da Pechino. In questo caso non andremmo da nessuna parte. Al momento non c’è chiarezza e chiederemo spiegazioni oggi al ministro».
Ecco, è probabile che nell’incontro di questo pomeriggio alcune di queste domande troveranno una risposta.
Nell’attesa vale la pena ricordare quanto successo poco meno di quattro mesi fa (eravamo a metà aprile). In occasione del Design Week di Milano,Qian Xie, capo europeo di Dongfeng, aveva annunciato l’inizio dei colloqui con il governo italiano per valutare la possibilità di costruire le proprie automobili nel nostro Paese.
«I contatti sono molto positivi», commentava Xie. «Riconosciamo all’Italia la sua lunga cultura automobilistica a cui si aggiunge la sua collocazione geografica che facilita il trasporto verso altre regioni, sia di prodotti che di componenti». Per Bloomberg, l’altra agenzia che aveva dato l’esclusiva, «i cinesi ipotizzavano di creare un impianto in grado di produrre fino a 100.000 veicoli ogni anno».
Se così fosse, la notizia di ieri rappresenterebbe una sorta di passo avanti virtuale della trattativa. E vista la crisi che sta attraversando il settore in Italia e in Europa, non dovremo attendere a breve prima di sapere se e quando ci sarà davvero un sito produttivo di una casa cinese in Italia. Chissà cosa ne penserà l’ad di Stellantis, Carlos Tavares, che non perde mai occasione per ricordare che la concorrenza asiatica va considerata «un rischio». Il problema è che il suo gruppo ha fatto poco o nulla per evitarlo.
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- La casa di Wuhan fa retromarcia, ma con il governo ha parlato anche di dettagli. L’elettrico costa troppo, da noi meglio l’ibrido.
- Stellantis, che continua a mandare in cassa integrazione i lavoratori e chiede nuovi sussidi, investe 100 milioni di dollari in Argentina per il green.
Lo speciale contiene due articoli.
Dopo la Chery, anche la cinese Dongfeng fa sapere di non avere alcuna intenzione di produrre le sue vetture in Italia. Tutto era nato da un’intervista concessa all’agenzia Bloomberg dal responsabile delle attività europee del costruttore di Wuhan, Qian Xie, che aveva parlato di «trattative in corso» con l’esecutivo Meloni per produrre auto nel nostro Paese. Tanto che lo stesso ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, aveva, in occasione di un convegno di Confcommercio, confermato che le trattative in corso c’erano, eccome. Secondo quanto risulta alla Verità, infatti, tra il governo e il colosso cinese c’erano stati più contatti e anche un incontro in presenza. Tanto che tra le richieste dell’esecutivo c’era anche che i cinesi dovessero usare il 40% della componentistica europea.
In realtà, però, nella notte di due giorni fa, la stessa casa cinese ha smentito le affermazioni dell’esecutivo e in particolare le parole di Urso bollando la notizia come «un’informazione falsa: la Dongfeng non alcun progetto industriale per l’Italia».
Non si capisce, dunque, dove sia stato il cortocircuito. Anche perché non si è parlato di indiscrezioni di stampa, ma di una intervista rilasciata da un top manager di Dongfeng e riportata da Bloomberg in cui si paventava la costruzione di una fabbrica nel nostro Paese da 100.000 vetture l’anno. Fatto sta che anche il colosso cinese ha reso noto di non avere intenzione di costruire una fabbrica in Italia.
«La verità è che costruire auto elettriche in Italia non conviene», spiega alla Verità, Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor. «Il governo fa bene a cercare un partner, anche perché la produzione italiana è scesa a livelli bassissimi. Ma non può essere un costruttore di auto elettriche. Il motivo è legato al costo ancora troppo elevato delle batterie. Oggi, anche con gli incentivi una piccola elettrica costa almeno 25.000 euro da noi. Ma, l’esperienza insegna che il mercato decolla quando il prezzo dell’auto si avvicina a quello che guadagna un giovane operaio o dipendente in un anno, cioè intorno ai 17.000 circa. Quindi produrre in Italia una elettrica diventa complicato ed è anche per questo che i cinesi hanno fatto un passo indietro. Hanno preferito produrre dove il lavoro costa meno».
Ad ogni modo, si tratta di una doccia fredda per l’esecutivo che da tempo sta corteggiando i colossi cinesi per farli produrre in patria, dopo che i rapporti con Stellantis si stanno sempre più deteriorando perché il gruppo franco-italiano chiede incentivi governativi e risponde a suon di cassa integrazione per i dipendenti di Cassino e Mirafiori. Non va nemmeno dimenticato, poi, che la cinese Dongfeng ha una quota dell’1,6% di Stellantis, elemento che lega indissolubilmente le due case costruttrici.
L’obiettivo del governo è quindi quello di trovare un partner credibile che costruisca da noi i suoi modelli. Possibilmente non elettrici, quindi, visto che le auto a batteria sono spesso fonte di perdite per i produttori (la prima casa automobilistica del settore, Tesla, per intenderci sta licenziando il 10% della sua forza lavoro). L’ideale sarebbe quella di trovare qualcuno che da noi produca modelli ibridi, prodotti in grado di non distruggere le competenze europee nel mondo dei motori termici e che allo stesso tempo permetta una transizione energetica sostenibile.
Giusto di recente, prima di Dongfeng anche Chery aveva fatto retromarcia sempre con il governo italiano. Il copione, anche in questo caso, era il medesimo. All’inizio tutto pareva andare per il meglio con il governo che confermava le trattative e poi, di botto, una grande marcia indietro con l’idea di costruire una fabbrica in Spagna, più precisamente nell'area industriale della Zona Franca (creata negli Anni ‘50 con uno status extradoganale) di Barcellona. L'annuncio è giunto di concerto da Chery e da Ebro EV-Motors, una società automobilistica spagnola specializzata nella progettazione, produzione e commercializzazione di veicoli e produzione, che nel 2021 - dopo lo stop delle attività di Nissan nella Zona Franca - aveva rilevato lo stabilimento della Casa giapponese. Chery e EV-Motors costituiranno una joint venture per la produzione del primo modello (probabilmente con il marchio Omoda) del gruppo cinese già a partire dal quarto trimestre di quest’anno. È così previsto il ritorno in attività di «centinaia di lavoratori» ex Nissan che dalla chiusura della fabbrica ricevevano uno stipendio sociale.
Byd, invece, all’Italia non ci ha nemmeno pensato facendo sapere direttamente che avrebbe costruito una fabbrica in Ungheria che, informa una nota della stessa casa cinese, sarà il «primo grande impianto di produzione di veicoli elettrici di consumo di una casa automobilistica cinese in Europa».
Priorità per Stellantis: le rinnovabili
Stellantis ha investito 100 milioni di dollari in Argentina, per ottenere il 49,5% della società 360Energy Solar SA che ha una vasta esperienza nella ricerca, progettazione, sviluppo, ingegneria, costruzione e gestione di impianti solari fotovoltaici. È stata inoltre la prima azienda in Argentina ad usare i sistemi di stoccaggio dell’energia nei suoi parchi e a promuovere progetti sull’idrogeno verde, con l’obiettivo di contribuire alla mobilità sostenibile.
E dunque, in Italia Stellantis continua a mettere in cassa integrazione i dipendenti dei suoi siti produttivi e a chiedere incentivi, soprattutto sull’elettrico, perché senza di questi diversi stabilimenti italiani sarebbe a rischio. Ma fuori dal nostro Paese fa investimenti ingenti, che hanno l’unico obiettivo di raggiungere i risultati green. E pensare che di incentivi lo Stato italiano, nel corso degli anni, ne ha concessi di importanti. Secondo una stima fatta da Federcontribuenti dal 1975 al 2012, la casa Torinese ha ottenuto 220 miliardi di euro tra le varie casse integrazioni, prepensionamenti, rottamazioni (incentivate da tutti i governi), i nuovi stabilimenti in gran parte finanziari con le risorse pubbliche e i diversi contributi statali. Somma alla quale si devono aggiungere gli incentivi per le sole auto elettriche che sono stati concessi dal 2019 in poi, e le ultime agevolazioni, inserite in legge di Bilancio pari a 950 milioni di euro, di cui 793 destinati al solo acquisto di auto di nuova immatricolazione. Incentivi che per la maggior parte sono finiti nelle tasche di Stellantis: «Il 40% degli incentivi è andato a Stellantis, come è giusto che fosse, ma la metà di questi sono finiti in modelli prodotti all’estero e importati in Italia. Non può continuare così», aveva dichiarato a inizio anno il ministro per le Imprese ed il Made in Italy, Adolfo Urso, in risposta alla minaccia dell’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, che chiedeva nuovi incentivi al governo italiano per non mettere a rischio diverse fabbriche.
Da aggiungere poi che, a fronte di richieste di sempre nuove agevolazioni, Stallantis non ha particolarmente investito nel nostro Paese. Secondo Milano Finanza «nel 2000 i dipendenti diretti del gruppo in Italia erano 112.000, nel 2017 solo 60.000» e nei giorni scorsi la società ha deciso di mettere in cassa integrazione più di 2.000 operai dello stabilimento di Mirafiori, addetti alla Fiat 500 elettrica e alle auto Maserati, da lunedì 22 aprile fino al 6 maggio.
A fronte di queste evidenze, la decisione di Stellantis di investire 100 milioni di dollari in una società argentina lascia dunque alquanto perplessi. A rendere nota l’operazione è stata lo stesso gruppo che in un comunicato ha precisato come la holding del settore automotive compie «un passo importante verso l'obiettivo dell’autonomia energetica» e il raggiungimento della neutralità del carbonio entro il 2038, uno dei pilastri del piano strategico globale «Dare Forward 2030». Il presidente di Stellantis per il Sud America ha inoltre precisato che «l’obiettivo di offrire una mobilità pulita, sicura e conveniente ci sfida a ripensare ogni parte delle nostre operazioni e dell’infrastruttura che ci supporta". La strategia energetica che Stellantis e 360Energy iniziano a delineare prevede lo sviluppo di parchi solari nelle fabbriche automobilistiche.
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