La ricetta per salvare Camilla Canepa, quando la diciottenne ligure è stata ricoverata d’urgenza per poi spirarenell’ospedale San Martino di Genova, nella città della Lanterna circolava da settimane. Da circa un mese e mezzo. Ma è rimasta incredibilmente impantanata nelle pastoie della burocrazia. Nel periodo delle vaccinazioni di massa del 2021 Enrico Haupt, ex primario di Medicina generale all’ospedale di Lavagna, ha 71 anni, è in pensione, ma non riesce a staccarsi dal suo mestiere. È anche medico vaccinatore all’Evangelico di Genova. La morte di Francesca Toscano, 32 anni, insegnante di sostegno vaccinata con Astrazeneca il 22 marzo 2021 e deceduta il 4 aprile per trombosi cerebrale, lo colpisce particolarmente. Tanto da spingerlo, assieme ad alcuni colleghi, a elaborare un protocollo operativo che, se applicato per tempo, avrebbe potuto salvare la vita a chi si fosse presentato al Pronto soccorso con una sospetta Vitt, la trombocitopenia indotta da vaccino. La stessa patologia che il 10 giugno ha ucciso Camilla Canepa. Dopo un «colloquio informale con il direttore sanitario dell’Ospedale Evangelico Gaddo Flego», spiega il medico al pm di Genova il 25 marzo 2022, «ho predisposto un Pdta (percorso diagnostico terapeutico assistenziale, ndr) condiviso con i miei colleghi vaccinatori». Per il dottor Haupt è una corsa contro il tempo. La consegna alla Direzione sanitaria avviene il 13 aprile 2021 e il giorno seguente il documento viene girato ad Alisa (l’azienda sanitaria ligure) e, conferma il medico, «nello stesso tempo» è stato inviato anche «al Pronto soccorso». Quel giorno c’è una coincidenza. E Haupt la evidenzia davanti ai pm: «Combinazione lo stesso 13 aprile l’Aifa (l’Agenzia italiana per i farmaci, ndr) pubblica una informativa dove viene detto che gli operatori sanitari devono vigilare sui segni e sui sintomi e informare il vaccinato, quindi, combinazione... era una cosa coerente con le indicazioni dell’Aifa». Ad analizzare i due protocolli, però, c’è una contraddizione. La nota successivamente diffusa da Alisa, che recepiva le indicazioni del dottor Haupt, nel caso di sintomi neurologici dopo la somministrazione del vaccino, tra i vari esami prevedeva anche la Tac dell’encefalo senza mezzo di contrasto, quindi al naturale, senza iniettare nel sangue del paziente una sostanza opaca ai raggi x. Quella dell’Aifa, invece, prevedeva il liquido di contrasto. Un aspetto che, successivamente, deve essere stato corretto anche nel protocollo Alisa: «Il documento diceva», si evince dai messaggi WhatsApp mostrati dal medico al pm, «se Tac negativa, altra diagnosi […] infatti lo hanno cambiato e hanno messo Tac con mezzo di contrasto». Sostanzialmente, però, le indagini sanitarie indicate erano molto simili. La macchina burocratica però sembra muoversi al rallentatore. Il documento del dottor Haupt resta bloccato per settimane. «Il 15 aprile il Pdta», spiega in Procura l’ex primario, «viene inviato in Regione Liguria... Alisa... poi andiamo a maggio». Ed è a questo punto che il percorso amministrativo del Pdta si intreccia con la vaccinazione di Camilla. «La Camilla Canepa», ricorda Haupt, «viene vaccinata nell’ambito degli Open day». Il 25 maggio, infatti, le iniettano una dose di Astrazeneca, due giorni prima della pubblicazione ufficiale del Pdta da parte della Regione (27 maggio). Quando il 3 giugno Camilla si presenta al Pronto soccorso di Lavagna con emicrania e fotosensibilità, i criteri clinici per sospetta Vitt erano già scritti nel protocollo. Il documento, però, non è ancora ufficiale. Haupt lo dice chiaramente: «Certo ero un po’ insofferente del fatto che il Pdta non venisse pubblicato e ne ho parlato con il dottor Flego, chiedendo notizie sullo stato di valutazione del documento». L’idea era semplice, quasi banale: rendere il protocollo immediatamente fruibile a chi, in Pronto soccorso, si fosse trovato davanti un paziente con sintomi evidenti. Haupt precisa: «Quella sindrome lì... mal di testa o mal di pancia, le piastrine basse... se uno ha fatto il vaccino una settimana prima, il sospetto c’è tutto, a quel punto lì va attivata subito la terapia». Poi aggiunge: «Nella nostra idea, il Pdta doveva essere inviato ai Dea (Dipartimento di emergenza e accettazione, ndr) e al 118 al fine di far sì che le persone sospette di essere colpite da Vitt venissero subito attenzionate e trattate precocemente con immunoglobuline, nella considerazione che la somministrazione non ha effetti negativi, se non quelli di effettuare i prelievi ematici prima per evitare inquinamento del campione». Prelievo e terapia immediata. Attività che gli ospedali erano in grado di fare. Haupt lo dice senza giri di parole: «Le immunoglobuline sì. Mentre quello che non erano in grado di fare gli ospedali, a quell’epoca neanche il San Martino (di Genova, ndr), poi si sono adeguati, era fare l’analisi della ricerca degli anticorpi». Tutto molto semplice, all’apparenza. «So che prima del 27... della pubblicazione definitiva... nelle fasi finali», lamenta il dottore, «avevo ricevuto una bozza in questo senso, in maniera confidenziale dal direttore e avevo rilevato alcuni errori marginali». In sostanza, «dal 14 aprile», precisa Haupt, «si arriva al 27 maggio... dopo procedure interne, la Regione Liguria pubblica sulla Gazzetta ufficiale questo documento che viene girato dalla Direzione sanitaria degli ospedali ai Pronto soccorso, 118, eccetera». Ma il protocollo non è ancora operativo. «Il 28 maggio», ricorda il medico, «il documento è stato recapitato ufficialmente all’ospedale Evangelico e posso dedurre che analogamente sia avvenuto per gli altri ospedali». Intanto, fuori dagli uffici regionali, la campagna vaccinale corre. Gli Open day riempiono i palazzetti, le dosi vengono iniettate a ragazzi e adulti. Mentre il Pdta continua a girare tra gli uffici. E quel 28 maggio, ricorda Haupt, «era un venerdì, quindi nella migliore delle ipotesi il lunedì successivo i direttori di Dea avevano potuto convocare una riunione per diffondere questa documentazione e... il lunedì successivo era il 31 maggio». Troppo tardi. E Haupt sbotta: «Non basta appiccicarlo in bacheca, diciamo...». Quella carta, pensata per agire subito, rimane intrappolata tra uffici, timbri e riunioni. Così, il 3 e 4 giugno, a Camilla non viene applicato il percorso clinico indicato dal Pdta, né quello previsto dall’Aifa. Viene dimessa con una diagnosi di «cefalea». Quando Haupt riesce a inoltrare il suo lavoro personalmente alla collega Paola Truglio, primario del Pronto soccorso all’ospedale di Lavagna (indagata per la morte di Camilla e poi prosciolta) è il 6 giugno. Camilla era tornata in ospedale poco prima della mezzanotte del giorno precedente ed è già in gravi condizioni. «Ho un rapporto con la dottoressa Truglio professionale e non particolarmente confidenziale», spiega Haupt ai pm, aggiungendo che «quando la vicenda Canepa era già scoppiata, le ho chiesto come era andata e cosa era successo». Poi aggiunge, come detto, di aver «mandato il documento la prima volta il 6 giugno». Ma sottolinea anche di non avere «contezza se potesse averlo visto prima». Quel giorno, ricorda Haupt, scambia messaggi via WhatsApp con la collega. E dopo aver ricevuto «l’indirizzo mail della dottoressa Truglio» avrebbe inoltrato lì «il Pdta in formato Word». Il messaggio che accompagna il documento è questo: «Cara Paola, come promesso ti invio un po’ di documentazione. Il Pdta è stato approvato da Alisa il 27 maggio, dovrebbe essere stato inviato ai vari Dea. A mio avviso alla luce dei fatti odierni ha assunto anche rilevante importanza medico legale». La chat viene riletta dagli inquirenti: il tono è personale, quasi affettuoso. Finché non si fa tecnico: «Di Astrazeneca è interessante la tabella a pagina undici, dove si dimostra che in casi di bassa incidenza di infezione, come attualmente in Liguria, il rischio di morire di Covid per gli under 40 è nullo, mentre il rischio di morire per Astrazeneca è 10.000. Cari saluti, Enrico». «Direi che non ha ricevuto risposta», commenta la pm Francesca Rombolà. E la domanda resta sospesa: il protocollo era mai arrivato ufficialmente a Lavagna? «Non mi ha dato una risposta precisa», ammette Haupt. Fatto sta che a Lavagna la Tac viene fatta senza liquido di contrasto e non sarebbe stata visionata da un neuroradiologo. Per cui i piccoli segni riscontrabili anche a secco non vennero associati alla Vitt.
Bruno Sgromo: «Senza imperizia dei medici, Camilla aveva fino all’80% di possibilità»
I quattro medici del pronto soccorso dell’ospedale di Lavagna sono stati prosciolti dall’accusa di omicidio colposo eppure Camilla Canepa, la studentessa di Sestri Levante morta per il vaccino Covid di Astrazeneca, non aveva ricevuto l’assistenza prevista dai protocolli in caso di sospetta trombosi dei vasi cerebrali post vaccino (Vitt). Doveva essere eseguita una Tac con liquido di contrasto, cosa che non venne fatta, non venne intrapreso il percorso diagnostico terapeutico necessario.
Il gip di Genova Carla Pastorini ha deciso il non luogo a procedere: «Non può sostenersi che sussista quell’alto grado di credibilità razionale o probabilità logica per affermare la sussistenza del nesso causale e, cioè, per affermare che, la mancata adozione della condotta salvifica, sia causa provata dell’evento». È così impossibile per i cittadini avere giustizia in caso di errori conclamati e chiari dei sanitari?
Lo abbiamo chiesto all’avvocato Bruno Sgromo, il cui studio è specializzato in casi di malasanità e che da decenni si occupa di responsabilità professionale del medico e della struttura ospedaliera. Sgromo è anche il legale della famiglia Canepa, della mamma Barbara Spoto e della sorella, Beatrice Canepa. Il papà era morto di crepacuore pochi mesi dopo il decesso della figlia.
La diciottenne Camilla si era vaccinata nel maggio del 2021 in uno degli Open Day promossi dal Comitato tecnico scientifico, malgrado gli stessi esperti fossero al corrente che Astrazeneca proteggeva meno e comportava grandi rischi. Dovevano aderire «alla richiesta dell’allora ministro della Salute Roberto Speranza» di abbassare la somministrazione sotto i 60 anni, come è emerso dai verbali e dai video delle riunioni del Cts che La Verità sta pubblicando da giorni.
Sui verbali l’avvocato non vuole rilasciare dichiarazioni, si limita ad affermare che «allora c’erano tanta confusione e inadeguatezza». Sullo scudo penale invocato a protezione dei medici a meno di dolo o colpa grave e che il ministro Orazio Schillaci vuole rendere legge, il legale è molto duro.
Avvocato, partiamo dalla giovane che non doveva ricevere quel vaccino e che non è stata salvata.
«ll ministero della Salute aveva già tracciato il percorso in caso di tromboembolia strettamente legata alla somministrazione del vaccino Astrazeneca. Per Camilla, che presentava sintomi indicativi, doveva essere seguito quel protocollo, invece le linee guida non furono applicate. Sicuramente sulla sentenza avrà influito tantissimo lo scudo penale introdotto in epoca Covid, alleggerendo la responsabilità dei medici. Inoltre, le perizie tecniche richieste dal pm hanno dato una percentuale di perdita di chance di sopravvivenza dal 50 all’80%. Percentuale che non ha soddisfatto il principio di “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Avrebbe dovuto essere una perdita del 100%».
Era una sentenza scontata?
«Responsabilità di perdita di chance dal 50 all’80% in una ragazza di 18 anni sono importanti. Camilla avrebbe avuto possibilità di salvarsi fino all’80%. I medici potevano anche essere assolti successivamente, ma almeno il processo per omicidio colposo doveva aver luogo».
Quanto è difficile vedere riconosciuta la colpa di professionisti sanitari?
«Nel penale la statistica è di circa il 97% di archiviazioni dei procedimenti. Quel 3% è solo per i casi estremi, del tipo amputazione della gamba sbagliata».
Ma allora perché i medici e il ministro della Salute, Orazio Schillaci, continuano a chiedere che diventi strutturale lo scudo penale, provvedimento introdotto dal governo Draghi in emergenza Covid e prorogato fino a fine 2025?
«Infatti non ha senso, l’imperizia è già depenalizzata di fatto. Negligenza e imprudenza sono due condotte gravissime. Quello che vogliono è interrompere prima il percorso giudiziario, senza che il medico si faccia il periodo dell’indagine. Possibilità paventata anche dalla commissione Adelchi d’Ippolito, dal nome del magistrato che la presiedeva».
Si riferisce alla Commissione nazionale sulla colpa medica, istituita dal ministro della Giustizia Carlo Nordio nel marzo del 2023 e che aveva concluso i lavori lo scorso novembre con proposte di modifica alla disciplina della responsabilità medica, sia in ambito penale sia in ambito civile.
«Proprio quella. Era composta da avvocati che in tribunale non si sono mai occupati di responsabilità medica, e da medici. Nessun avvocato dalla parte del paziente. Una cosa vergognosa. Si pensa troppo spesso al medico, a come salvaguardare la serenità e il lavoro dei medici che hanno lobby fortissime, mai alla famiglia che si ritrova con un neonato rovinato o un figlio vegetale. Mai un pensiero a favore delle vittime».
Anche nel caso di Lisa Federico, 17 anni, morta per un trapianto di midollo osseo sbagliato, i medici del Bambino Gesù sono stati assolti dal gip. Ed è stata archiviata la posizione di Franco Locatelli, primario di oncoematologia. Eppure è agli atti che una delle dottoresse faceva presente la «situazione molto grave», dovuta a una somma di errori, «che espone la nostra paziente a un concreto ed elevato rischio».
«Ho seguito diversi casi simili, ci sono accordi di riservatezza e non se ne parla perché spesso si rinuncia all’azione penale e civile a fronte di somme pagate subito dall’ospedale. Quando invece si apre il procedimento penale, le possibilità di “ottenere giustizia” sono ridotte quasi a zero. Dato ancora più vergognoso se consideriamo che la tredicesima sezione civile del tribunale di Roma, il più importante d’Europa come casistica, ha stabilito che il 67% di tutti gli atti depositati sono evoluti in responsabilità».
Procedimenti archiviati in ambito penale hanno un esito così positivo nel civile?
«Non è accettabile che il principio penalistico sia prossimo al 100%, non può esserci questa enorme discordanza con il civile ma questo accade. Pensi solo che ogni anno l’Italia registra 15.000 morti per virus contratti in ambito ospedaliero, ma nessuno pone l’accento su un fatto così grave. Si preferisce parlare degli alti costi della medicina difensiva».
Mai quantificati, tra l’altro.
«E senza possibilità di stabilire se un medico ha predisposto un esame diagnostico in più perché ha paura di un contenzioso o “semplicemente” perché è coscienzioso e vuole tutelare il paziente. Ben venga sempre, la medicina difensiva, il cui costo è irrilevante».
ll principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nel giudizio penale scoraggia dal fare causa a un medico o a una struttura sanitaria.
«Certo, anche per i costi altissimi di un contenzioso in sanità, per il rischio di contro querele. Noi lavoriamo con una società di Litigation Funding, ovvero di finanziamento del contenzioso. Dopo aver verificato la fondatezza della causa, lo studio sostiene tutte le spese e i rischi a fronte di una percentuale sul risarcimento e solo a esito positivo. Normalmente, però, questo non accade, non si battaglia ad armi pari contro chi può avere i migliori professionisti contando su risorse infinite».
Che cosa consiglierebbe di fare a chi è stato vittima di malasanità?
«Sul fronte penale, se fai la denuncia querela subito, come spesso viene consigliato, sequestrano le cartelle cliniche, quindi prima mi procurerei una perizia di parte seria basata sulle cartelle. La denuncia, se poi fatta, è così supportata dalla perizia di parte. Per il civile, se la causa è strutturata bene, le possibilità di vincerla sono dell’80%».
In sede civile, quale conclusione avrà l’ingiusta morte Camila Canepa?
«Stiamo aspettando, la perizia dà responsabilità, la consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) del civile dovrebbe dare la bozza a novembre».
Nel maggio del 2021 il Cts era pienamente consapevole dei molti rischi e degli scarsi benefici, tanto da accettare a fatica la richiesta di Speranza di abbassare l’età per la somministrazione: «Ma sotto i 50 non esiste». Infatti... Di lì a pochi giorni partono gli Astra-day: vaccino inglese per tutti. Il mese successivo muore Camilla Canepa.
C’è stato un momento in cui il Comitato tecnico scientifico, la cabina di regia ideata da Giuseppe Conte per portare l’Italia fuori dalla pandemia, sembrava essersi avvitato su un freddo calcolo: quante vite bisognava essere sicuri di salvare con il vaccino per prendersi la responsabilità di provocare una trombosi in un cittadino sano. Era il maggio del 2021 e la forbice tra «rischi» e «benefici», in quei giorni in cui la circolazione del virus era minima, si era avvicinata clamorosamente, come conferma la registrazione video della riunione del 7 maggio 2021 (diciotto giorni prima della vaccinazione di Camilla Canepa, la diciottenne di Sestri Levante uccisa da una dose all’Astra day), che all’epoca era segreta e che ora La Verità mette a disposizione dei lettori sul sito Web. Il Paese viveva un’apparente tregua: la curva dei contagi si abbassava, i reparti Covid si svuotavano, ma la campagna vaccinale correva, sospinta dalla politica che non voleva rallentamenti.
Il Cts aveva davanti la matematica spietata dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco), letta da Franco Locatelli: nella fascia 50-59 anni, con bassa circolazione virale, il vaccino Astrazeneca avrebbe salvato «una vita a fronte di un caso di trombosi con trombocitopenia». Il rapporto era «uno a uno». In scenari peggiori il conto cambiava, ma non la sostanza: sempre una trombosi grave per ogni manciata di vite risparmiate. Si arrivava al massimo a un rapporto di «1 a 15» in caso di alta circolazione del virus. E sul tavolo c’erano anche i dati italiani: 34 casi di trombosi venosa già accertati, 29 intracraniche e cinque viscerali. Le vittime: 22 donne con età media di 48 anni e 12 uomini con età media di 52. Al tavolo tecnico non se lo dicono, ma era raro che un under 50 senza ulteriori patologie finisse in obitorio per aver contratto un’infezione da coronavirus.
La conta dei morti per effetti avversi, invece, cominciava a farsi seria: «È un evento raro ma», allo stesso tempo, «un effetto riconosciuto associato alla vaccinazione», scandì Donato Greco nel corso della riunione. Eppure si continuarono a vaccinare dai 50 anni in giù come se quei numeri non esistessero. E il ministro della Salute Roberto Speranza, due giorni prima, aveva mandato al Cts una richiesta di valutazione sulla possibilità di somministrare Johnson&Johnson e Astrazeneca, «oggi raccomandati preferibilmente in soggetti sopra i 60 anni, anche nella fascia di età compresa tra i 50 e i 60». «Il discorso sul rapporto rischio beneficio lo si fa, ed è giusto, però in questo caso abbiamo altre opzioni che sono altri vaccini che non hanno questo problema», avvertì Sergio Abrignani, aggiungendo che se esistevano «alternative» più sicure, non aveva senso rischiare «anche un solo morto» per somministrare Astrazeneca. Meglio «ritardare di dieci giorni» l’arrivo delle forniture. In quelle parole c’era tutto: il Cts sapeva che si poteva evitare e sapeva anche che il costo umano non era accettabile. Giorgio Palù fu altrettanto chiaro: «Sappiamo di un meccanismo patogenetico che accomuna tutti i vaccini a vettore adenovirus […]. Se dovessi dare il mio parere […] non andrei oltre però 50-59 anni, è una cosa che darei con molta difficoltà, lo dico veramente, lo darei con difficoltà». La difficoltà c’era, il rischio pure, ma nessuno si prese la responsabilità di tirare il freno a mano.
La bioeticista del gruppo, Cinzia Caporale, ricorda a tutti che «Macron ha cominciato a fare una campagna di donazione del vaccino Astrazeneca a Paesi emergenti perché lì […] è una questione tra non avere nulla e avere un vaccino sub ottimale». La preposizione «sub», sotto, davanti a «ottimale», esprime chiaramente il giudizio che in quel momento il Cts aveva di Astrazeneca. Le parole della Caporale avrebbero dovuto introdurre una riflessione. Astrazeneca può andar bene dove non ci sono alternative, ma in Italia diventa una scelta eticamente ingiustificabile. Ma non è l’unico campanello d’allarme suonato dalla Caporale: «Io capisco la necessità di utilizzare tutti i vaccini che si hanno, li abbiamo ordinati, li abbiamo comprati o altro, però attenzione perché alla fine le persone… poi la stampa è libera… i commenti ci sono… altri studiosi fanno anche le loro analisi sui dati, quindi non è che possiamo restare, come dire, ancorati a un disegno ideale che ci figuriamo se poi il dato contrasta con questo». Insomma, anche se i vaccini sono stati comprati ed è meglio non sprecarli bisogna pur stare attenti a quei «cattivoni» dei giornalisti che potrebbero denunciare eventuali errori. Il Cts prende tempo: «Mi pare che ci sia consenso nel richiedere dati addizionali al commissario (in quel momento era il generale Francesco Paolo Figliuolo, ndr) per quel che riguarda sia numeri precisi di vaccini che si avranno da qui alla fine di giugno sia il numero della popolazione della fascia 50-59», dice Locatelli. Poi c’è un grottesco siparietto: «Giorgio», riprende Locatelli, «a scendere sotto quella fascia non ci si pensa minimamente». I carabinieri che hanno trascritto quella riunione per la Procura di Genova annotano: «I due ridono». Ed è in quelle risate che si misura la distanza tra chi, chiuso nelle stanze, prendeva con leggerezza i calcoli sui rischi e chi, invece, dal peso di quanto veniva deliberato in quel contesto rischiava di essere schiacciato.
Poi Locatelli riprende ad argomentare: «Come dire… i rischi… poi insomma neanche in contesti epidemiologici sfavorevoli giustificherebbero la scelta e appunto chiediamo più dati addizionali per formulare un parere compiuto». In quella videoregistrazione il problema, però, non era solo legato a quanti potenziali vite salvate potesse valere una trombosi. Era anche come scriverlo, quanto dire e cosa lasciare fuori dai verbali ufficiali. La riservatezza diventa quasi un’ossessione, più della trasparenza scientifica. Locatelli, a un certo punto, mentre Silvio Brusaferro mostra il suo studio sulle incidenze della pandemia, frena di colpo: «Questa diapositiva secondo me è particolarmente delicata perché interpretata, come dire, in maniera prevenuta rispetto al vaccino di Astrazeneca, ti fa passare il messaggio che sia meno efficace rispetto agli altri quindi sia una sorta di vaccino di serie B […], quindi farei maturare bene il dato e lo controllerei prima di mostrarlo». Non sembra un dubbio scientifico, ma un problema di immagine: Astrazeneca non deve sembrare «di serie B», anche se i dati lo dimostrano. Brusaferro lo spalleggia senza esitazioni: «Condivido con te Franco sull’opportunità poi forse anche di non entrare nei dettagli per vaccino, ma dare il messaggio che tutti i vaccini funzionano». È il patto comunicativo del Cts: non rimarcare le differenze, non dire che uno è peggiore, diffondere solo la versione edulcorata. Sergio Fiorentino sembra il più cauto: «Velocemente volevo dire che tutta questa discussione sul documento riservato non la riporterei nel verbale».
Ed è a questo punto che l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino conferma i timori di una diffusione di notizie sensibili: «Colgo l’occasione per rappresentarvi che ieri, per esempio, il Tar del Lazio ci ha ordinato di depositare due verbali rispetto a un ricorso del Codacons […]. Non c’entrano niente con quel ricorso che parla di ristoranti, ma, comunque, insomma, se noi mettiamo queste informazioni nel verbale prima o poi verranno fuori, quindi ometterei tutta questa parte di dibattito». È l’ammissione più schietta: non è che quelle informazioni non esistano, è che non vanno messe negli atti, perché un giorno qualcuno potrebbe leggerle. E la Caporale coglie il rischio di questa impostazione: «Le persone non sono così sprovvedute come delle volte si pensa nei consessi di esperti […]. E più rinneghiamo, cioè neghiamo l’informazione, e più ci saranno sospetti che l’informazione vera, cioè che il dato disaggregato dei vaccini sia, come dire, non comunicabile». Avverte che quello che sta accadendo lì dentro non potrà rimanere segreto per sempre. Locatelli, però, ricorda a tutti: «Reitero quanto è stato chiesto prima, cioè con l’ovvio impegno da parte di tutti noi di mantenere assoluta riservatezza». E infine, in quella stessa riunione, c’è un ulteriore passaggio che sembra fotografare la gestione del Cts. Quando si discute delle linee guida per l’accesso alle Rsa, le strutture con i più fragili, i professoroni se ne lavano le mani. È Giuseppe Ippolito ad affermare: «Non possiamo entrare in un documento chiuso già presentato ieri e approvato alla conferenza Stato-Regioni perché allora veramente facciamo la figura dei pierini». Ammette che, anche se quel documento può essere lacunoso o perfino sbagliato, non conviene al Cts modificarlo. Il problema è quello di intromettersi a giochi fatti. Una resa preventiva. Qui emerge il lato più criticabile: il Cts che si proclama organo tecnico e scientifico abdica al suo ruolo proprio davanti a un atto politico-amministrativo già confezionato. E così la tutela della salute degli ospiti delle Rsa passa in secondo piano rispetto al timore di urtare la suscettibilità della Conferenza Stato-Regioni. Nessuna correzione, nessuna puntualizzazione. Solo l’ansia di non sembrare dei «pierini». E, così, a guardare le riunioni dei professoroni si ha l’impressione che stiano più attenti a non disturbare i palazzi che ad applicare un metodo scientifico.
Il video del fuorionda di Palù al comitato: spinte ministeriali a vaccinare i giovani
All’indomani della morte di Camilla, drammatica seduta del Cts: zuffe e scaricabarili. La registrazione coglie anche la telefonata del presidente Aifa che racconta di pressioni politiche per autorizzare Astrazenaca sotto i 60 anni. Posizione ribadita davanti ai pm.
Ordini del giorno modificati all’ultimo secondo, zuffe da osteria, scaricabarili in serie. Tutto questo è accaduto nella drammatica riunione dell’11 giugno 2021 del Comitato tecnico scientifico, che si era svolta il giorno dopo la morte di Camilla Canepa, diciotto anni appena. La ragazza di Sestri Levante aveva ricevuto il vaccino Astrazeneca durante uno degli open day autorizzati proprio da una pilatesca decisione del comitato. La notizia rimbalza sui giornali, sulle tv, nelle case. Dentro il Cts rimbomba come un colpo di pistola. I video delle riunioni, che all’epoca erano blindati e che La Verità offre ai propri lettori sul suo sito Web, ora mostrano, parola per parola, le contraddizioni, i dubbi, i litigi dei professoroni chiamati a orientare il Paese nella pandemia. Quell’11 giugno nessuno vuole restare con il cerino in mano. Parte della riunione ruota attorno agli Astra day, proprio gli eventi che hanno portato Camilla davanti a una siringa carica di rischio. Un mese prima, il 12 maggio, il Cts aveva deciso di non raccomandare Astrazeneca e Johnson&Johnson, i due vaccini vettoriali (utilizzano un virus innocuo per trasportare il materiale genetico di un patogeno nelle cellule del corpo), agli under 60. Eppure nel verbale compare un’aggiunta che nessuno ricorda di aver discusso: «Il Cts non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate… iniziative, quali i vaccination day… per tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni». Una frase che diventa un lasciapassare. È con quelle parole che le Regioni autorizzano la somministrazione a tappeto. È a causa di quelle parole che Camilla si presenta il 25 maggio in un hub vaccinale della Liguria, convinta di fare la cosa giusta. Solo che la formula dell’adesione «volontaria» era un inganno: come poteva una diciottenne conoscere i rischi di trombosi cerebrali legati a quel siero? Quei rischi erano noti ai tecnici, come dimostrano i video delle riunioni del Cts, non a chi si metteva in fila. Ecco perché l’11 giugno la discussione esplode. Giorgio Palù, presidente dell’Aifa, il custode della sicurezza dei farmaci, viene registrato mentre è impegnato in una telefonata privata. Non si accorge che il microfono è aperto. Tutti lo ascoltano. «Era una decisione presa in linea con gli altri Paesi europei: Astrazeneca e Johnson&Johnson, per analogia, non si facevano sotto i 60 anni. Ci sono pressioni che non capisco sia per portarla più bassa Astrazeneca che Johnson&Johnson. Le dico la verità, glielo dico perché, uno per la responsabilità, perché il Cts in questo momento dà un parere e credo che ho espresso il mio parere anche come virologo e non mi sento di tornare indietro ecco, per qualche insistenza o desiderata ministeriale, ecco, volevo dirglielo questo…». La frase gela i colleghi. Franco Locatelli lo richiama: «Giorgio hai il microfono aperto, ti stiamo ascoltando, per cortesia, chiudi il microfono». Cinzia Caporale si infastidisce: «Potete staccare l’audio dalla regia per favore? Non capisco perché la regia non riesca a chiudere il microfono». Ma Palù va a ruota libera: «Ma sa, in Francia, in Germania 60… Johnson&Johnson». Poi ancora: «È questa che stiamo prendendo sia come Aifa, l’abbiamo presa, e devo dire che anche Magrini… anche come ente regolatorio, l’ho portata io in Cts... questa sicuramente siamo tutti d’accordo, il problema è quell’altro che…». Una conversazione a cuore aperto, davanti a tutti, che rivela ciò che nessuno voleva ammettere: le pressioni per allargare la platea dei vaccinati, anche ai giovani. La morte di Camilla diventa un macigno che fa archiviare i toni diplomatici. Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero della Salute, scoppia: «Io non ho l’anello al naso». Poi si scaglia contro gli open day: «Per quanto riguarda gli Astra day, noi come direzione generale non ci siamo mai espressi a favore». Fabio Ciciliano prova a replicare. Rezza lo inchioda: «Evidentemente, non so da chi, è stato chiesto un parere a questo consesso, di cui fai parte anche tu, e anche tu evidentemente devi rispondere di un undicesimo della responsabilità». Il clima diventa tesissimo, come da oggi potranno verificare personalmente i lettori sul sito. Rezza alza ancora la voce: «C’è una ragazza che è morta e tu stai bloccando tutto ciò per una frase». Ciciliano s’inalbera: «Gianni non te lo consento, non mi fare alzare la voce, non te lo consento perché se si fosse lavorato in maniera diversa questa ragazza non sarebbe morta, Gianni. E non te lo consento». L’audio registra urla, accuse. Una scena che sembra più un processo che una riunione tecnica. Rezza non si ferma: «Io non firmerò mai quel verbale». Poi minaccia di lasciare: «Io chiedo oggi al ministero, perché non posso dimettermi io, chiedo al ministro di uscire fuori dal Cts e faccio il mio dovere di direttore generale della direzione di Prevenzione. Resteranno gli esperti all’interno del Cts». Sergio Abrignani prova a riportare un po’ d’ordine: «Dobbiamo mettere nel verbale, secondo me, chi ha posto il quesito anzitutto, se è stato il ministro, se è stata la direzione, se è stata la Presidenza del Consiglio e questo taglia la testa al toro». Ma nessuno vuole assumersi la paternità di quella decisione. Silvio Brusaferro domanda: «Non possiamo mettere il nome, cioè chi ha fatto la richiesta? Scusate io non ho contezza». Alla fine, quando la riunione rischia di diventare incontrollabile, Locatelli tira fuori la formula salva coscienze: «Allora provo a proporvi una versione. Il Cts raccomanda che le Regioni quando promuovono eventi open day a favore delle vaccinazioni rispettino le indicazioni per fasce d’età. Va bene?». Tutti annuiscono, esausti. Giuseppe Ippolito cerca di smorzare con una battuta: «Oggi hai bisogno di una dose di omeprazolo». Ma non ride nessuno. Quella sera il verbale segna la marcia indietro del Cts. Una retromarcia che arriva solo dopo la morte di Camilla, sacrificata su un altare di pressioni politiche e verbali col trucco. Perché, lo spiegherà Palù ai magistrati e ai carabinieri, in quella riunione la questione degli Astra day non era all’ordine del giorno. Era arrivata dall’esterno. E che non figurava ufficialmente. L’aveva introdotta Locatelli. «Io il quesito sui vaccination day non l'ho mai visto formalmente», dice in modo fermo Palù agli inquirenti. Il pm Francesca Rombolà lo incalza: «Sì, ma nel momento che le arriva un verbale e vede che c'è questa decisione… allora lei dice… quasi non ha partecipato poi alla fine». Palù risponde: «No, ho partecipato e ricordo che alla fine ho detto: “Volete farli, fateli, le Regioni li facciano”». E spiega il motivo: «Quando la legge te lo consente, l'Ema (l’Agenzia europea per i medicinali, ndr) te lo consente, Fda (l’Agenzia statunitense per gli alimenti e i medicinali, ndr) te lo autorizza dai 18 anni in su, le Regioni hanno autonomia decisionale, cosa vuole che dica io?». Poi il passaggio da brividi: «E c’è una insistenza perché questa cosa venga fatta… questo dicono. Non è da un punto di vista scientifico, il punto di vista scientifico rimane la fascia di età. Quello è il vero punto e rimane che gli adenovirus sono autoinfiammatori, sia per la fibra, sia per la loro struttura che attivano una cascata infiammatoria e questo io l'ho ricordato e credo anche di aver citato che avevo studiato il problema. Quindi ero contrario». Il pm non si accontenta: «Sì, però, il verbale lo ha approvato anche lei». Palù risponde: «Vabbè l'ho approvato per forza, perché a un certo momento l'ho accettato. Signori, è libero, lo fate, la responsabilità è degli altri… se le Regioni lo fanno che se lo facciano». Dalla polizia giudiziaria devono aver storto il naso. Nella trascrizione integrale della deposizione attribuiscono agli investigatori solo un «sì, però…». Che è bastato a far sbottare Palù: «Io non ho il potere di veto su una decisione. Il Cts aveva tra i suoi membri persone che erano già inclinate a dire sì». Confermando così l’esistenza di una tesi già precostituita, che nel Cts andava solo approvata. Anche se la scienza diceva altro. E Palù lo spiega nitidamente: «Senta, io le dico onestamente, in scienza e coscienza ho sempre insistito che non si poteva fare. Quanto al quesito, io non l’ho visto. È chiaro che i vaccination day… io non l'ho visto il quesito… è arrivato all’ultimo momento». Ma il suo punto di vista era fermo: «Se vogliono farlo (le Regioni, ndr) che lo facciano. Questo è il concetto. E quindi che poi tradotto nel verbale, “non ostativo”, cosa dovevo fare? Dire che ero contrario al “non ostativo”? In realtà avevo detto: “Se proprio insistete…”». I video oggi visibili raccontano il resto: non un Comitato che difendeva la scienza, ma un organo che cercava di difendere sé stesso. E che, davanti alla morte di una ragazza, non seppe fare altro che infilare in un verbale la solita toppa burocratica.
Pressioni dal ministero per i vaccini ai giovani.
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trascrizione Cts 11 giugno.pdf







