content.jwplatform.com
Con Marina Terragni, garante per l'infanzia e l'adolescenza, parliamo del sistema di gestione dei minori e dei casi dolorosi di piccoli tolti alle famiglie.
Con Marina Terragni, garante per l'infanzia e l'adolescenza, parliamo del sistema di gestione dei minori e dei casi dolorosi di piccoli tolti alle famiglie.
Dopo l'attacco politico arriva quello della magistratura che, come spesso accade, non disdegna esprimersi prima che il Parlamento decida. E così, tutti insieme contro il disegno di legge Pillon che riforma il diritto di famiglia e le norme sull'affido condiviso. Dopo la senatrice Emma Bonino e la femminista già direttore del dipartimento delle statistiche sociali dell'Istat, Maria Laura Sabbadini, ieri infatti è arrivata Mariarosa Guglielmi, segretario di Magistratura democratica. Un attacco a gamba tesa non solo contro i principi ispiratori, il contenuto e gli effetti del ddl 735, ma direttamente contro il leghista Simone Pillon, accusato di far parte di una sub-cultura che produce contro riforme. E così, se per una larga opposizione il testo sulla bigenitorialità perfetta non funziona e il ddl non è emendabile e va ritirato, per Md è praticamente incostituzionale. «Si moltiplicano i segnali di un nuovo oscurantismo, di una utopia regressiva che investe interi sistemi di diritti, come il diritto di famiglia, e vuole passi indietro su conquiste fondamentali che riguardano i diritti del vivere e la libertà di agire di ciascuno di noi davanti alle decisioni della vita. Il disegno di legge Pillon è il portato della stessa sub-cultura, fortemente ideologizzata, che ha prodotto le iniziative contro l'aborto, gli attacchi in nome dei valori della famiglia “tradizionale" alle unioni civili, al biotestamento, alla laicità dello Stato». Così la Gugliemi in un passaggio della sua relazione in apertura del Congresso nazionale dell'associazione di magistrati.
Pronta la risposta del senatore nonché avvocato e mediatore familiare Pillon: «Spiace prendere atto dell'invasione di campo da parte di Magistratura democratica, che non solo si scaglia contro il disegno di legge, ma persino prevede interventi da parte della Corte costituzionale e della Corte di Strasburgo. Con buona pace di Montesquieu forse oggi per qualcuno ha scarso valore il principio fondamentale della separazione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario, uno dei pilastri della nostra democrazia. Mi chiedo cosa abbiano questi magistrati contro il diritto dei bambini di stare con mamma e papà anche dopo la separazione e il divorzio». Ma Pillon non perde l'ottimismo: «Per fortuna, però, in Italia le proposte di legge, anche quelle che non piacciono a giudici di sinistra, si discutono in Parlamento, senza che siano correnti della magistratura a dettare l'agenda politica».
Alla base del ddl, molto contestato fin dalla sua presentazione, lo scorso agosto, c'è la proposta di istituire, nel caso di figli minorenni di coppie separate o divorziate, una bigenitorialità «perfetta» con tempi paritari, regolata in maniera diversa rispetto a quanto avviene oggi, in cui la maggior parte dei padri mantiene i figli vedendoli a weekend alternati. Malgrado tutti siano favorevoli all'idea che la cura e l'educazione dei figli sia a carico di entrambi i genitori, il modello Pillon non piace alle opposizioni, alle femministe, ai giudici minorili e ad alcuni costituzionalisti.
Maurizio Tortorella
Più che una relazione, un atto d'accusa. Più che un discorso, una requisitoria. E anche l'imputato, seppur mai citato per nome e cognome, è evidente. È Matteo Salvini, il vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno: colpevole, signori della corte, di voler trascinare l'Italia «verso un nuovo assetto normativo e culturale fortemente regressivo per i diritti e per le garanzie, e verso una manomissione dei principi dello Stato di diritto che priva la giurisdizione del suo ruolo di garanzia e di terzietà».
Parole dure, eh? Del resto, a pronunciarle ieri è stata Mariarosa Guglielmi, pubblico ministero a Roma nonché segretario generale di Magistratura democratica, la corrente delle toghe più di sinistra. Silvio Berlusconi fu il primo a chiamarle pubblicamente «toghe rosse», e purtroppo si sa com'è finita. Ieri la Guglielmi ha aperto il ventiduesimo congresso della corrente, a Roma, e contro il governo gialloblù ha sparato una raffica di accuse. «Con il voto di marzo», ha detto dal palco, «si sono imposti due radicalismi simmetrici». Il primo radicalismo, secondo la Guglielmi, ha i colori del razzismo leghista: «È il nuovo sovranismo, che ha intercettato il risentimento e gli ha offerto un bersaglio e un nemico, lo straniero che minaccia la nostra sicurezza, usurpa i nostri diritti e contamina la nostra identità». Il secondo radicalismo, invece, è quello «egualitario e camaleontico» dell'antipolitica grillina: «Senza il vincolo di ideologie, senza il peso di un passato e di una sua storia di riferimento, ha assecondato il ribellismo e ha sancito la sconfitta della sinistra, conquistandone il popolo».
Può sembrare questa la principale motivazione dell'accusa contro il Movimento 5 stelle: avere fregato tanti voti alla sinistra. In realtà, a Lugi Di Maio e soci, la segretaria di Md ha rimproverato soprattutto «l'inesauribile trasformismo»: il voltafaccia che avrebbe consentito al M5s di «scendere a compromessi persino sulla pelle dei migranti, abbandonati al loro destino in mare».
Ieri, mentre già cominciavano a fioccare le polemiche per i toni apocalittici della Guglielmi, la battuta migliore è venuta a Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: «Al congresso di Md se ne sentono di tutti i colori», ha sorriso. «Forse avrebbero dovuto consentire al pubblico di entrare a pagamento. Varrebbe la pena di pagare un biglietto per vedere un film così vecchio e raro».
Del resto, non è certo la prima volta che Md s'impanca a giudice di un governo. Da quando è nata, nel 1964, la corrente non ha fatto altro che prendere posizione su ogni sospiro della politica. Una volta Livio Pepino, uno dei migliori cervelli di Md, postulò la necessità che «il magistrato si ponesse come contropotere». Ovviamente, Pepino parlava dell'unico magistrato correttamente abilitato a fregiarsi di tale nome: democratico, progressista. Insomma, «de sinistra».
Più forti di un partito politico, più dure di un sindacato, più potenti di un esercito, le «toghe rosse» di Md hanno sempre sparato a zero sul potere esecutivo e su quello legislativo, ovviamente ogni qual volta si allontanavano verso destra.
E ne hanno censurato tante leggi, dalle norme anticlandestini («S'introduce un reato inutile, profondamente iniquo e discriminatorio: non si può trasformare un fenomeno sociale in fenomeno criminale») fino alla legge Biagi («La tanto celebrata riforma del mercato del lavoro, lungi dal provocare il benefico effetto di un'emersione del “nero", accresce la precarizzazione dei rapporti e l'arretramento della sicurezza»).
Insomma, la storia stessa di Md lasciava prevedere che questo congresso avrebbe dato la stura a alle idiosincrasie che dallo scorso marzo i magistrati progressisti avevano già tante volte manifestato contro il governo «sovranista» e alla diarchia grillino-leghista. E così è stato. «In pochi mesi», ha attaccato la Guglielmi, «il volto del Paese è cambiato, e sembra essersi interrotto il percorso che ha condotto sin qui la nostra democrazia». Parole durissime, è ovvio, sono venute contro la nuova legittima difesa: una riforma che secondo Md propone «un'idea arcaica di giustizia come vendetta privata», perché «anteporre l'inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare uno strappo con il sistema dei valori della nostra Costituzione».
Critiche più sensate, alla fine, hanno riguardato «il diritto penale orientato alla massima repressione»: ieri Md si è schierata contro gli eccessi grillini della legge «spazzacorrotti», e contro la scomparsa della prescrizione. «Le garanzie», ha ricordato Guglielmi, «non sono una concessione o una rinuncia a favore degli avversari della legalità, ma sono un'esigenza della giurisdizione».
Come in certi antichi congressi del Pci, la Guglielmi ha fatto anche autocritica: ha parlato della «incomprensibile arrendevolezza» di Md sulle posizioni assunte dal sindacato delle toghe, l'Associazione nazionale magistrati, sotto la presidenza di Piercamillo Davigo, e dei «danni provocati dal rappresentare la magistratura come unica paladina della legalità, dimenticando la tutela dei diritti e il rispetto delle garanzie che rappresenta la cifra di civiltà di un Paese». Sacrosanto, anche perché alle ultime elezioni del Consiglio superiore della magistratura, nel luglio 2018, Md è crollata da 7 a 4 eletti, in gran parte a favore proprio della corrente di Davigo. Ma così facendo, alla fine, la dottoressa Guglielmi ha davvero schierato Md contro tutti.
Sarina Biraghi
A questo punto c'è da pensare che il disegno di legge «Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità», primo firmatario il senatore leghista Simone Pillon, sarà argomento del prossimo G20 in programma a Buenos Aires il 30 novembre. Non vogliamo esagerare, ma se perfino l'Onu si è presa la briga di scrivere al governo italiano sulla faccenda, ci si chiede se questo ddl stia diventando un caso internazionale come la pace nel mondo e il problema della fame.
Le signore relatrici speciali delle Nazioni unite, Dubravka Šimonović e Ivana Radačić, hanno scritto sei pagine fitte all'esecutivo gialloblù per spiegare tutta la loro «profonda preoccupazione» dovuta a queste disposizioni che «potrebbero comportare una grave regressione, alimentando la disuguaglianza e la discriminazione basate sul genere». La proposta di legge per la riforma dell'affido condiviso in caso di divorzio, di cui sono appena iniziate le audizioni in Senato, allarma le Nazioni unite al punto da farle accodare ad altre istituzioni internazionali ultimamente assai impegnate a scrivere missive a Roma.
Questa volta la corrispondenza inviata al governo italiano riguarda appunto un disegno di legge che si pone il problema di mettere un po' d'ordine dentro al dramma del divorzio. Certo, le soluzioni proposte da Pillon possono essere discusse, ci mancherebbe, ma che ci si metta perfino l'Onu è davvero singolare. Dobbiamo quindi prendere atto che l'organizzazione che si preoccupa di sviluppare relazioni amichevoli tra le nazioni, in nome anche dell'autodeterminazione dei popoli, interviene su come un Parlamento regolarmente eletto discute sugli assegni di mantenimento o l'assegnazione della casa tra separati.
Le firmatarie sollecitano risposta entro 60 giorni, e già che ci sono chiedono delucidazioni anche sugli spazi riservati ad alcune associazioni del mondo femminista nella città di Roma, costrette, dicono le relatrici speciali, a un «giro di vite» dovuto agli sfratti del Comune (che ha cercato di riscuotere affitti non pagati).
Il problema di discriminazione di genere che solleverebbe il ddl Pillon, secondo l'Onu, ha tutta l'aria di essere l'ennesima pretesa figlia di una certa ideologia, più che una questione di merito. Se c'è una cosa che il disegno di legge cerca di affrontare, pur con tutte le critiche che possono sollevarsi, è proprio l'introduzione di una certa pariteticità tra padre e madre, soprattutto pensando a interventi giuridici spesso pesanti nei confronti dei padri per quanto riguarda la libertà nei rapporti con i figli.
Le preoccupazioni della missiva onusiana riguardano anche casi di violenza presenti nella coppia, in particolare di fronte alla mediazione obbligatoria introdotta dalla proposta Pillon. Ma il punto, per quanto serio, è comunque affrontato anche nel ddl dove all'articolo 11, che affronta la discussa collocazione condivisa, prevede tutele del minore proprio nei casi di: «violenza; abuso sessuale; trascuratezza; indisponibilità di un genitore; inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore».
Le motivazioni delle due relatrici delle Nazioni unite sono in sostanza le stesse che aveva espresso tanta parte del mondo progressista di casa nostra, per cui la proposta Pillon è da rigettare perché «punitiva e retrograda nei confronti delle donne». In altri termini, si tratta di femminismo e libertà di divorzio, cioè forme spesso ideologiche che il senatore Pillon ha provato a intaccare attraverso una proposta pragmatica, benché molto perfettibile. Eppure, basterebbe guardare in faccia la realtà per accorgersi che il dramma sociale nasce spesso dal fatto che l'istituto del divorzio, in particolare quello «senza colpa», fondato sulla libertà sentimentale come assoluto, mette al centro gli interessi dei minori solo in modo figurato. Perché in realtà oggi ciò che non deve assolutamente essere messo in discussione è il libero amore degli adulti. L'interesse preminente del minore, al di là di tutto, sarebbe quello per cui i suoi genitori non si separassero.
La realtà ha ragioni che la politica non vuol conoscere. Parlando di divorzi e figli minori, il principio già da anni era particolarmente evidente, ma lo è divenuto ancor di più in occasione del nuovo disegno di legge sulla riforma dell'affidamento condiviso. L'opposizione da parte femminista era scontata. Ma anche per quanto riguarda i cattolici, sta avendo ancora una volta ragione la buonanima del cardinale Carlo Caffarra: solo un cieco non vede la confusione che c'è oggi nella Chiesa. Stavolta non si tratta di dottrina, ma il tema di fondo è sempre quello della famiglia. Infatti, da parte di alcuni commentatori cattolici si è mostrata - nella migliore delle ipotesi - una sorprendente ignoranza delle problematiche giuridiche, sociologiche e di psicologia che sono in campo.
Sono state avanzate obiezioni emotive e strumentali, per temi che invece avrebbero più che mai bisogno di risposte consapevoli e competenti. Del resto, non è una novità per il mondo cattolico. A chi scrive, nelle trascorse due legislature, alcuni parlamentari di ispirazione pro family telefonavano mezz'ora prima di andare in aula, per chiedere consiglio su cosa dire riguardo alle proposte di legge che riguardavano la famiglia e il matrimonio. E questo benché, allora come oggi, fossi un semplice avvocato di provincia, autore di un paio di saggi sull'argomento, che peraltro ho sempre considerato come parole al vento.
Adesso i tempi sembrano cambiati addirittura in peggio. Infatti, all'epoca molti opinionisti di solito moderati improvvisavano per semplice ignoranza tecnica. Oggi sembrano aver definitivamente sposato, forse senza nemmeno accorgersene, le tesi del mainstream femminista.
Ripartiamo quindi dall'inizio della storia, per cercare di capirne un po' di più. Nei primissimi anni Settanta, mentre in tutto l'Occidente si stava avviando la cosiddetta rivoluzione sessuale, l'introduzione del «divorzio senza colpa» - cioè per pure ragioni sentimentali - ebbe anche in Italia l'effetto collaterale di separare, sul piano simbolico e culturale, il matrimonio dalla procreazione. Il sistema dei divorzi dovette subito farsi carico della sorte dei bambini. Essi infatti si trovarono subito a essere le parti più deboli in assoluto, in mezzo al conflitto dei genitori ai quali, nel giro di pochi anni, nessuno si sarebbe nemmeno più azzardato a chiedere di rimanere insieme «per il loro bene». La soluzione fu quella di mettere al centro i loro bisogni in via figurata, purché non venisse messa in discussione la nuova libertà sentimentale concessa agli adulti.
Questo portò al radicarsi della gigantesca ipocrisia del «preminente interesse del minore», sulla quale ancora oggi in Italia si regge tutto il sistema delle separazioni e dei divorzi. Infatti, il bene dei bambini dovrebbe essere il Nord della bussola di tutti gli operatori del settore, ma nessuno vuole ammettere che il bene davvero prevalente è l'interesse dei genitori, o anche di uno solo, a voler divorziare dall'altro. Nessuno riconosce ciò che la realtà impone come evidenza, e cioè che il vero preminente interesse del minore, nella generalità dei casi, sarebbe quello che i suoi genitori non si separassero.
Ciò comporta che, nonostante quel che vogliono darci a bere, il sistema divorzista è sempre stato centrato sugli interessi degli adulti. Non bisogna quindi impressionarsi della levata di scudi di tanta parte dell'avvocatura, e di alcuni studiosi di psicologia, contro il disegno di legge del senatore Simone Pillon. Infatti, spesso e volentieri, si tratta degli stessi nomi che 12 anni fa erano insorti contro l'approvazione della legge sull'affidamento condiviso che oggi considerano intoccabile. Basta essere un po' del giro, per capire che avvocati e consulenti non vogliono mai che i giudici siano limitati nella possibilità di decidere come impone la cultura dominante.
Nel 2006, quegli stessi esperti dicevano che superare l'affidamento esclusivo alle madri sarebbe stato un disastro, perché si sarebbero intasati i tribunali di ricorsi paterni e, ça va sans dire, si sarebbero messe in discussione le sacrosante conquiste delle donne. Ora, da parte cattolica, alcuni hanno spostato un po' il tiro, denunciando che stavolta a essere in pericolo sarebbero i diritti delle mamme, cosa che in Italia funziona sempre.
Al contrario, la riforma in discussione in Parlamento serve proprio a evitare che nella pratica giudiziaria si continui a decidere secondo i pregiudizi correnti, accogliendo criteri che non sono di certo una invenzione di Pillon. Si punta infatti a introdurre anche in Italia principi di equità già comprovati da esperienze internazionali e, sul piano giuridico, da una risoluzione del Consiglio d'Europa. Nel 2015 quest'ultimo ha raccomandato il cosiddetto shared parenting, per cui i figli dei separati - in assenza di specifiche controindicazioni -, già dai 2 o 3 anni di età devono preferenzialmente avere doppia residenza, e tempi di permanenza presso un genitore di almeno un terzo rispetto all'altro. Rispetto a questo standard, i giudici hanno comunque il sacrosanto obbligo di verificare le situazioni contingenti in contraddittorio con i genitori, ma devono giustificare le deroghe al principio.
I contenuti di questa risoluzione sono già realtà in diversi Stati europei e negli Usa, cosi come in Australia e nel Quebec canadese. In tutti questi Paesi, peraltro, è fuori discussione che la pariteticità non debba essere sempre e comunque perfetta. In presenza di bambini molto piccoli, è ovvio che anche in assenza di accordo sarà la madre a essere privilegiata. Ma la presenza paterna deve essere incrementata senza aspettare l'adolescenza, quando il ruolo paterno diventa ancor più essenziale. Ed è comunque necessario che si metta fine all'assoluto imperio del «caso per caso», che nella pratica finisce sempre per essere quello imposto dal pensiero dominante.
In considerazione di tutto ciò, l'allarme secondo il quale il nuovo disegno di legge sarebbe centrato sugli interessi degli adulti piuttosto che su quello dei minori, è ipocrita e chiaramente strumentale. Tra l'altro, chi davvero studia il fenomeno sa che nei Paesi dove già è stato sperimentato lo shared parenting non è successo il finimondo. Ci sono studi psichiatrici autorevoli che attestano che il benessere dei figli abituati fin dalla tenera età a risiedere sia nella casa della mamma che del papà è maggiore di quelli in custodia monoparentale. Alla faccia dei «pacchi postali», dei quali si lamenta la cultura mammista che in effetti, per ragioni addirittura ancestrali, in Italia è più forte che altrove.
Ma ancor più importante è che si superi il concetto tipicamente mediterraneo, cioè familista, di assegnazione della casa familiare indipendentemente dalla proprietà. Questa sarebbe la più grande conquista del disegno di legge Pillon, se solo riuscirà a reggere l'urto parlamentare. Infatti, l'idea fino a ora imperante per cui il bisogno di stabilità dei bambini dovrebbe sempre prevalere anche sui titoli di proprietà riguardanti l'immobile, è una delle cause nascoste della crisi del matrimonio.
Uno dei maggiori ostacoli allo sposarsi, tra le giovani coppie di oggi, è proprio quello per cui, non essendoci alcuna tutela contro l'eventualità che l'altro coniuge voglia interrompere la relazione, nessuno accetta di buon grado di poter essere espropriato dei beni e delle garanzie economiche sulle quali aveva costruito un progetto di vita. Questa incertezza è anche una delle ragioni pregnanti dell'attuale crisi della natalità, perché nulla scoraggia le coppie dall'avere figli quanto l'impossibilità di veder tutelata, pure dai possibili ripensamenti del partner, la propria stabilità familiare. Non è, insomma, solo una questione di difficoltà economiche. Ma ancora una volta, come dicevamo, la realtà ha delle ragioni che la politica finge di non vedere.
C'è un intero popolo in Italia, (circa 2 milioni di persone solo negli ultimi dieci anni) in forte credito con l'amministrazione della giustizia. Si tratta di tutti i bambini cresciuti dopo la separazione e il divorzio senza un padre, mentre avrebbero potuto averlo, vederlo, ascoltarlo, come accadeva negli altri Paesi sviluppati del mondo. Eppure si conoscevano già i gravi disturbi fisici e psichici cui questa assenza esponeva. I dati sulle patologie dei «fatherless», figli senza padre, erano noti da tempo e registrati nelle statistiche dei vari paesi (ancora prima del mio primo libro sull'argomento, Il Padre l'assente inaccettabile, pubblicato in Italia nel 2003 e tradotto in molti Paesi).
È anche per metter fine a quella devastazione psicologica e affettiva che la legge finalmente dedicata anche in Italia all'affido materialmente condiviso dei figli (joint material custody), potrebbe essere fra le più significative della legislatura. Verrà discussa in Senato dal 10 settembre (primo firmatario l'avvocato Simone Pillon, della Lega). Restituire finalmente ai figli entrambi i genitori è una di quelle azioni che nel giro di pochi anni potrebbero cambiare la situazione del Paese.
La spinta vitale dei figli, infatti, esige un padre e una madre, altrimenti si indebolisce. Per questo in Svezia la questione dei figli dopo separazione e divorzio è seguita dal ministero della Salute e ovunque è considerata di carattere sanitario, prima che giuridico. La presenza di entrambi i genitori nella vita dei figli, anche quando la loro unione è finita, è condizione indispensabile al loro benessere e salute, altrimenti possono ammalarsi anche anni dopo l'infanzia e adolescenza.
La nuova legge avrebbe dunque ricadute risananti su tutta la comunità nazionale. Naturalmente se verrà applicata. Non è detto però che ciò accada. Ed è giusto riconoscere di che ordine siano le resistenze.
In Italia infatti, più che l'istituto famigliare, ciò che finora è stato tenacemente difeso dalla politica e dalla magistratura è stato il potere della madre. È ciò che fin dagli anni 60 l'antropologo canadese Edward C. Banfield (Una comunità del mezzogiorno, Il Mulino, poi tradotto in diverse lingue) riconobbe come causa di quel «familismo amorale», fondato su interessi calpestando le leggi, che rendeva fin da allora così difficile fare dell'Italia uno stato democratico. Legge e autorità infatti rimandano ovunque, simbolicamente al padre, alla sua presenza e tutela. In sua assenza, prolifera l'arbitrio e il posto del padre viene preso dalla mentalità che si ispira alla Grande Madre, l'archetipo di riferimento dei mammasantissima che su di essa giurano.
Si tratta dell'ambiente psicologico dove la legge viene sistematicamente aggirata, come ha raccontato la psicoanalista Silvia di Lorenzo nel libro La Grande Madre Mafia.
È anche per questo che in Italia la legge sull'affido condiviso è arrivata (nella versione oggi in vigore, del 2006) decenni dopo gli altri Paesi d'Europa. Eppure il diritto del bambino ad avere due genitori era già stato stabilito dalla Convenzione di New York fin dal 1989. In Italia però perfino quella legge cauta e tardiva, varata tra mille insidie e trabocchetti, sembrò troppo audace.
Molti tribunali continuarono così a fare come se non ci fosse e a considerare affidatario unico la madre, a spese del padre, stringendo la presenza paterna in termini e condizioni tali che il rapporto padre-figlio spesso si perdeva. Le associazioni dei padri andarono a Bruxelles e Strasburgo a denunciare i tempi ristrettissimi concessi loro in Italia per stare coi figli, e ottennero il richiamo del Consiglio d'Europa a favore dei parametri in vigore altrove: se possibile la metà del tempo, e comunque non meno di un terzo. Ne dipende la salute del minore. Oggi (come ricorda nella premessa la legge Pillon), l'Italia è però ancora uno degli ultimi paesi del mondo per quel che riguarda la genitorialità (co-parenting) delle coppie separate.
È ora di cambiare: tutta l'esperienza clinica, sociale e economica della condizione giovanile lo richiede. L'assenza paterna dopo la separazione-divorzio e l'insicurezza e la passività che induce nei figli è, ad esempio, uno dei perché l'Italia abbia il più esteso gruppo di giovani né-né (che non studiano né lavorano) d'Europa. Anche per questo la nuova legge rimette al centro i figli e i loro genitori, e responsabilizza tutti, perché sia la madre che il padre continuino a impegnarsi fino in fondo coi figli, con tempi e impegno equivalenti anche dopo separazione e divorzio.
Nel disegno di legge Pillon sono infatti i genitori stessi che dovranno accordarsi per crescere i figli con pari responsabilità. Finita l'onnipotenza delle madri, ma anche le fughe di quei padri che si liberavano delle responsabilità staccando «l'assegno mensile». Entrambi devono accompagnare la crescita dei figli e il giudice dovrà intervenire solo se i genitori non si mettono d'accordo, o se decidono contro l'interesse dei figli minorenni.
Se non si accordano, la via d'uscita non sarà comunque la costosa e conflittuale causa, che con i suoi tecnicismi giuridici va a intasare per anni i Tribunali e impinguare i professionisti specializzati (lasciando i figli alla madre), ma l'istituto più semplice e meno costoso della mediazione famigliare. Il mediatore sarà un professionista iscritto al relativo albo, in possesso di formazione specialistica e le cui tariffe (dopo il primo incontro gratuito) devono essere stabilite dal ministero della giustizia. Al centro della mediazione non ci sono le pretese dell'uno o altro genitore ma il bambino. È di lui che entrambi i genitori dovranno occuparsi: educazione, salute, sport, frequentazioni, spese rispettive. Su tutto ciò dovranno produrre un piano, attento e dettagliato. Il domicilio sarà doppio perché i figli dovranno abitare sia con la madre che con il padre (anche per sentirsi con entrambi «a casa propria») con tempi possibilmente eguali, comunque non meno di dodici giorni al mese: sono i parametri internazionali, non quelli «matricentrici» finora seguiti in Italia.
L'«assegno» per la madre in genere non c'è più perché i genitori devono contribuire direttamente alle varie spese, secondo una ripartizione che presenteranno nel piano genitoriale previsto. Dopo l'accordo dovranno poi seguirne l'esecuzione, seguendolo a seconda delle circostanze con il «coordinatore genitoriale», altro esperto con funzione di consulenza e mediazione, scelto nelle professioni psicologiche, mediche, legali. È un cambiamento epocale rispetto al modo di procedere «a braccio» seguito finora da genitori e avvocati, a seconda delle emozioni del momento; una richiesta di responsabilità che potrebbe provocare uno sviluppo significativo negli stessi genitori. Cui potranno sempre affiancarsi in ogni momento i nonni, finora non contemplati. Prende così forma uno scenario di dialogo, confronto e crescita tra le parti, ben diverso da quello grettamente bellicoso e interessato seguito finora, dove i protagonisti non erano mai i bambini ma l'uno o l'altro genitore, con le rispettive e spesso egoistiche pretese e avvocati.
Si tratta di soluzioni del resto già sperimentate con successo nei paesi più avanzati in questo campo, come Australia, molti Stati negli Usa e la maggior parte di quelli europei. Dovunque è stato applicato, l'affidamento materialmente condiviso ha anche prodotto una forte e continua riduzione della conflittualità, come riconosciuto dalle statistiche e dagli esperti del campo. Come se fossero le leggi di prima a fare litigare. D'altra parte se devi dormire in macchina per pagare un assegno che non sai come verrà speso e la tua casa di famiglia è stata assegnata all'ex moglie, per forza litighi, e nessuno ci guadagna. Ma quel tempo forse è passato. Speriamo.

