2025-05-15
Svolta a Garlasco, perquisita casa Sempio
Nel riquadro Andrea Sempio, indagato per l’omicidio Poggi. Sullo sfondo i Vigili del fuoco al lavoro per svuotare il canale dove potrebbe essere stata gettata l’arma del delitto (Ansa)
Blitz all’alba degli investigatori nell’abitazione dell’indagato per l’omicidio di Chiara Poggi e in quella dei suoi genitori. I pompieri prosciugano un canale per cercare l’arma del delitto. Grazie a un testimone sarebbero a caccia di un attizzatoio.Un canale, una vecchia cascina, una casa disabitata. A 18 anni dall’omicidio di Chiara Poggi i carabinieri ritornano a scavare nel fango del passato. Cercano un oggetto metallico, forse l’arma del delitto. Forse un attizzatoio da camino. O forse soltanto l’ennesima suggestione. Le strumentazioni dei Vigili del fuoco ieri hanno setacciato l’acqua vicino all’ex proprietà della nonna delle cugine della vittima, le gemelle Cappa. È qui, a Tromello, a una manciata di chilometri da Garlasco, che un uomo ha raccontato alla trasmissione televisiva Le Iene di aver visto, proprio la mattina del 13 agosto 2007, una ragazza gettare qualcosa nel canale (area in passato già dragata). Un oggetto metallico. Un peso. Parole che bastano per riaprire i giochi. Per autorizzare nuove perquisizioni. Per rimettere in moto una macchina, quella giudiziaria, che in questa storia si è inceppata spesso. Nonostante una sentenza definitiva. Il nuovo racconto sembra legarsi, con precisione chirurgica, a un’altra versione. Quella di Marco Muschitta, l’operaio della società idrica che, come ha ricostruito La Verità il giorno della riapertura dell’inchiesta, disse ai carabinieri: «Ho visto una ragazza bionda in bicicletta con in mano un attrezzo da camino». L’orario? «Tra le 9e 25 e le 9 e 45 del 13 agosto». Il giorno del delitto. Una manciata di minuti dopo, però, ritrattò tutto: «Mi sono inventato ogni cosa. Sono uno stupido». Ma intercettato mentre parlava con suo padre ribadì che la sua verità era contenuta nella prima versione. Il verbale finì ai margini dell’inchiesta. Ma oggi quel racconto rispunta. Perché c’è di nuovo un oggetto di ferro. E c’è di nuovo una ragazza. Il nome che aleggia è sempre lo stesso: Stefania Cappa, cugina di Chiara. Non indagata. Mai indagata. Ma chiamata in causa, nel tempo, più volte. Anche da chi ipotizzava che l’arma potesse essere una mazzetta da muratore, sparita nei giorni precedenti l’omicidio da un cantiere della Croce Garlaschese, che sarebbe stato frequentato da Stefania. Nel frattempo i carabinieri sono tornati a bussare alla porta dell’indagato: Andrea Sempio, 38 anni, amico storico di Marco Poggi. Due archiviazioni alle spalle, è finito nella nuova inchiesta disposta dal procuratore di Pavia Fabio Napoleone e affidata all’aggiunto Stefano Civardi e al pm Valentina De Stefano. Hanno perquisito casa sua, portando via dei vecchi diari sui quali prendeva appunti su come piacere alle ragazze. Ma, come riferisce il suo difensore, l’avvocato Angela Taccia, «non hanno trovato nulla di rilevante o riconducibile al delitto». Sempio, stando all’avvocato, «non ha mai nemmeno conosciuto le gemelle Cappa». Ma il suo Dna interessa ancora. E lo scorso 13 marzo è stato prelevato coattivamente, perché aveva negato l’assenso. I tamponi sono stati effettuati anche su due suoi amici, Mattia Capra e Roberto Freddi (non indagati). Domani il gip Daniela Garlaschelli conferirà l’incarico per l’incidente probatorio. I periti scelti sono tecnici della polizia di Stato: Denise Albani, genetista, e Domenico Marchigiani, esperto dattiloscopico. Lavoreranno sui reperti biologici, compresi quelli trovati sotto le unghie della vittima e ritenuti inutilizzabili nei precedenti gradi di giudizio. Si controlleranno anche impronte, frammenti del tappetino del bagno, tamponi, confezioni di alimenti. Tutto ciò che potrebbe ancora confermare una presenza. La nuova indagine nasce da un’istanza degli avvocati Giada Bocellari e Antonio De Rensis, i difensori di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni per l’omicidio della fidanzata. Il punto centrale: il presunto match genetico tra il Dna di Sempio e il materiale raccolto sul corpo della vittima. Ma non è finita. Un altro colpo di scena è arrivato con la convocazione della madre di Sempio, Daniela Ferrari, chiamata dai carabinieri per chiarire alcune circostanze legate al ticket del parcheggio usato dal figlio a supporto del suo alibi. Ma lei si è avvalsa della facoltà di non rispondere. L’interrogatorio è durato pochissimo perché ha accusato un malore. Giuseppe e Rita Poggi, genitori di Chiara, si dicono «increduli» e «basiti». Perché il dolore non si prescrive. Ma nemmeno l’ingiustizia. «Alberto Stasi è un condannato in via definitiva», ripete la madre: «Le sentenze ci sono e l’unico condannato è lui». A novembre 2023 è accaduto l’impensabile: i carabinieri hanno sequestrato anche i sacchi della spazzatura di casa Poggi. Quattro mozziconi di sigaretta sono finiti agli atti. Papà Giuseppe si è infuriato: «Il mio Dna è a disposizione da anni. Non mi aspettavo che si rovistasse nei nostri rifiuti». L’ultima amara conferma arriva dalla mamma di Chiara: «L’attizzatoio del camino c’è. Gli attrezzi sono tutti al loro posto». Nelle sentenze del processo bis d’Appello e in Cassazione si ipotizzava che l’arma potesse essere un martello da muratore. Nessuna certezza. Mai. Ma oggi la suggestione dell’attizzatoio è tornata, come se il tempo non fosse mai passato. Nel 2009 la difesa di Stasi puntò il dito anche sugli alibi dei genitori delle gemelle Cappa. L’avvocato Giuseppe Colli parlò di «crepe». Si sostenne che mentre loro affermavano di essere in casa fino alle 9 e 30 i tabulati e le testimonianze li avrebbero collocati fuori. Valutazioni che finirono nel cestino. E che ora riemergono. Insieme ai mille nodi che gli inquirenti dovranno sciogliere.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
Francesca Albanese (Ansa)