2018-06-07
«Suono Bach nelle favelas e negli ospedali»
Balazs Borocz Pilvax Studio
Gloria Campaner, talento del pianoforte ha deciso di fare della sua arte un veicolo sociale: «Ho capito tante cose quando mia madre si ammalò di cancro. Mi piace portare un sorriso a chi sta peggio di me. Ho fatto un concerto perfino davanti a un pubblico di ragazzi sordi».Aprile 1989. Le dita minute di Gloria Campaner si muovono come piccole pioniere sui tasti di un pianoforte a coda rosso, dono di una zia per il suo terzo compleanno. Una riproduzione in scala ridotta, due ottave. «Ma suonava come un piano vero», rievoca la trentaduenne musicista di Jesolo (Venezia) con un velo di rinnovato stupore. «Dopo avere allestito nella mia stanza un auditorium di bambole e pupazzi, davo inizio allo spettacolo mimando le movenze dei concertisti di musica classica visti alla tv. Con tanto di inchino finale». A dispetto dell'età, Campaner ha vissuto con anticipo, rispetto a tanti suoi colleghi, onori e turbamenti dell'esibirsi in sale da concerto venerate come santuari nel panorama sinfonico mondiale: dalla Wiener Saal di Salisburgo alla Carnegie Hall di New York, che nella prima metà del Novecento echeggiò le note di prodigi del pentagramma quali Richard Strauss, George Gershwin, Igor Stravinskij. Il curriculum della pianista veneta mette i brividi. Dagli esordi in pubblico all'età di 5 anni, è un susseguirsi di riconoscimenti: oltre 20, tra Italia ed estero. Ambasciatore europeo della cultura, nel 2011 è invitata al Quirinale dal presidente Giorgio Napolitano per uno spettacolo in mondovisione. Nel 2014, è la prima italiana ad aggiudicarsi il Borletti Buitoni trust, premio assegnato ai giovani musicisti di maggior talento nello scenario internazionale. Non esiste continente nel quale Campaner non abbia accomodato sul palco il suo panchetto nero come fosse una bandiera conficcata nel suolo di un nuovo territorio. Nelle brevi pause tra una tournée e l'altra, trova il tempo per suonare negli ospedali oncologici e portare la musica negli angoli più sciagurati del pianeta. Il musicologo austriaco Walter Arlen, stimato compositore e critico musicale del Los Angeles Times, ha scritto di lei: «La profondità delle sue armonie, la straordinaria fluidità e la sensibilità stilistica ne fanno una pianista tra i più stupefacenti».Lei ha tutti i numeri della predestinata.«Credo di avere imparato a leggere le note prima delle parole, sebbene la mia sia stata una formazione poco ortodossa per un musicista. I miei volevano per me un'istruzione tradizionale: sono arrivata fino all'università, dove ho studiato russo, ceco e portoghese. Prendevo lezioni di piano e mi iscrivevo agli esami da privatista. Oggi non è più possibile, bisogna fare per forza il conservatorio. Un peccato».Perché?«Con lo scopo di allinearsi all'Europa, si finisce per disilludere i cuori. Lo vedo anche coi miei allievi. Nel tentativo di unificarsi a degli standard, si rischia di penalizzare creatività e passione».Dei suoi primi passi che ricordo ha?«Li ricordo come una naturale continuazione del gioco iniziato nella mia cameretta. Ai primi concerti pubblici, sparivo per giocare a nascondino; quando mia madre mi chiamava, arrivavo con le ginocchia sporche di terra».È vero che, da adolescente, alternava partiture classiche ai ritornelli rock suonando in una band col suo fidanzatino?«Sì, con lui e coi miei migliori amici. Ancora oggi, mi prendono in giro perché volevo fare la rockstar: sul cellulare, hanno il mio numero salvato come “Roxy". A casa arrangiavo le canzoni di nascosto perché papà sosteneva che fossero una perdita di tempo».Era così?«Al contrario. Quel gruppo era la mia ricreazione in un momento in cui studiavo come una forsennata».Ma l'amore, nella sua vita di musicista, quanto pesa?«È la mia energia vitale, ciò che mi ha fatto superare i momenti difficili. Grazie all'amore, ho capito una cosa fondamentale: che c'è una grande differenza tra l'essere soli e il sentirsi soli».Si dice che la solitudine sia una condizione necessaria per un artista.«Un po' di mal d'amore fa bene. Sergej Vasil'evič Rachmaninov scrisse: “Sorella della musica è la poesia, madre la sofferenza". Credo che, alla fine, la musica sia più per chi la suona che per chi la scrive. Un po' come la poesia è più per chi legge».Quando ha deciso di fare della musica un veicolo sociale?«Circa dieci anni fa, quando cominciai a viaggiare seriamente. Prima dei 20 anni, avevo fatto tournée importanti, ma mai nel Terzo mondo. Fui contattata dall'associazione Link for aid per tenere uno spettacolo di beneficenza in Myanmar. Poi arrivarono le prime esperienze in Brasile e i concerti nelle favelas di Rio de Janeiro».Quello in Myanmar fu il primo concerto di musica classica nella storia del Paese dopo la dittatura militare. Che ricordo conserva?«Di una nazione nel bel mezzo del suo risveglio. Oggi è un catino ribollente, con un'attività culturale pazzesca. Fu un'esperienza fortissima, compreso un principio di malaria che mi colse. Ripensandoci, non do grande importanza all'aspetto storico: a colpirmi fu vedere il bene che la musica poteva fare, sebbene molta di quella gente non avesse la minima idea di cosa stessi suonando».Ha avuto più brividi in Myanmar o alla Carnegie Hall?«Difficile rispondere. La Carnegie Hall rappresenta più un traguardo per sé stessi, una prova di stress e adrenalina che ogni musicista dovrebbe affrontare. In teatri del genere non potrai mai fare il miglior concerto della tua vita: te la fai sotto e basta. E poi gli abbonati una sera ascoltano te, quella dopo un altro artista… Per un ragazzo del Myanmar, un concerto è un'esperienza di vita. C'è chi non la vivrà mai».Nella città di Yangon conobbe Kevin, un ragazzo birmano che viaggiò due giorni su un autobus per ascoltarla. Oggi, grazie a lei, studia pianoforte negli Stati Uniti. Ce ne parla?«Stavo tenendo una master class. In una pausa, mi ero assentata per bere un tè. D'un tratto, sentii una melodia provenire dalla stanza adiacente: era il Quarto preludio di Chopin. Tornai nell'aula e vidi questo ragazzo seduto al pianoforte con una postura goffa, sghemba. La musica che suonava, però, arrivava dritta dall'anima. Riuscii a portarlo in Italia a studiare e ora vive negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio».Ho visto un filmato di una vostra lezione privata. Le piace insegnare?«Molto. Cominciai a 22 anni, quando ero ancora un'allieva. Penso che la musica non vada insegnata, ma ascoltata in compagnia. Condivisa. Certo, si può dare una guida tecnica, ma il miglior maestro è dentro di noi. Quando ti avvicini a un interprete come Kevin, anche se credi di sapere tutto del brano che esegue, capisci che lo stai sentendo col suo cuore».Le imperfezioni possono generare emozioni?«Assolutamente. L'imperfezione è vita, verità. Individuare un errore è quasi impossibile, se non a livello tecnico. Ma la tecnica è un consiglio, uno strumento deputato all'espressione».A proposito di emozioni: cosa l'ha spinta a esibirsi nei reparti oncologici degli ospedali?«Cinque anni fa, mia madre si ammalò di cancro. Quando quel male mi toccò da vicino, capii tante cose. Da allora, ho intrapreso un grande percorso personale: viaggi in India, ritiri spirituali. Grazie all'associazione Donatori di musica, ho avuto l'opportunità di portare un sorriso a chi sta peggio di me».So che ha suonato di fronte a un pubblico di bambini sordi.«Sì, alla Utah school for the deaf and blind, il più grande centro di ricerca negli Usa per ragazzi sordi e ciechi. Grazie a un meccanismo di tecnologia avanzata, potevano ascoltarmi attraverso le vibrazioni».Però dichiara di non essere «una crocerossina».«L'ho detto? Non ricordo, ma è vero. Non cerco di salvare il mondo, voglio solo far stare bene le persone. Specie i bimbi, perché in loro c'è il futuro».Davanti a loro si commuove?«Certo. Mi capita spesso di commuovermi mentre suono. È un sentimento che agisce nel profondo, non visibile all'esterno. A volte può bastare un suono prodotto da un pianoforte che non conoscevo».Ho letto in un'intervista che tenne un concerto il giorno in cui suo padre morì. Dove trovò il coraggio per non dare forfait?«Sapevo che lui avrebbe preferito così. Inoltre, era un concerto in duo e non volevo danneggiare chi suonava con me. Avevo trascorso la notte precedente in ospedale, ma tirai fuori una forza che non le so spiegare. Pensai che vivevo per la musica, di musica, e mi abbandonai. Fu tutto così triste, eppure così forte. Ancora oggi, penso a papà quando eseguo dei brani che amava. Nel mio cuore, glieli dedico».«Jesolo, paura al teatro Vivaldi: la pianista sviene per emorragia interna. Dopo il concerto di Capodanno, Gloria Campaner è stata portata d'urgenza all'ospedale per essere operata e salvata». Questa notizia fu riportata cinque anni fa da un quotidiano locale veneto.«Quell'articolo fu un disastro, avrei preferito che non uscisse. Quella sera sentivo che qualcosa non andava, ma ero nella mia città, c'erano i parenti e gli amici: non volevo deludere nessuno. Di certo non pensavo a un'emorragia in corso. All'ospedale, i medici mi dissero: “Deve stare attenta. Lei non sente il dolore"».Quell'esperienza l'ha segnata?«È cambiato tutto da quel momento. Mi sono trasferita in un'altra casa. Qualsiasi cosa facessi, l'ho cambiata. Non che prima fossi un'incosciente».La sensazione, ascoltandola, è che per avere tanto si debba perdere tanto. «Già. Non perché ci sia un prezzo da pagare: è la profondità umana. Restando in superficie, è più facile non farsi male. Eppure, non vedo la mia vita come una corsa sul filo del rasoio. Se nelle emozioni sono sempre stata una spericolata, mi considero una persona prudente. Ad esempio, ora ho accostato la macchina per parlare con lei. Vede?».
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