2020-12-18
Sul Natale da salvare solo parole al vento
Per mesi Giuseppe Conte ha chiesto sacrifici per tutelare le festività, prendendosi i meriti degli sforzi degli italiani. La sua però è stata l'ennesima promessa non mantenuta, visto che i cittadini festeggeranno blindati. E a gennaio sulla scuola la scena si ripeterà Quante volte abbiamo sentito, da fine ottobre a oggi, il premier Giuseppe Conte e tutta la sua corte di ministri, portavocianti, consulenti, replicanti, ripetere ossessivamente il mantra secondo cui le restrizioni che ci imponevano in autunno servivano a «salvare il Natale»? Il refrain è stato riproposto in modo martellante, a reti e testate (quasi) unificate, in una sorta di interminabile edizione postmoderna del Cinegiornale Luce: «Ora sacrifici per un Natale sereno», ci dicevano con una ripetitività da musichetta ipnotica. Ecco, adesso che siamo arrivati a Natale, scopriamo invece che ci rinchiudono di nuovo agli arresti domiciliari. Peggio ancora: ci trattano da sudditi, a cui ancora la mattina del 18 dicembre, a sei giorni dalla vigilia, non è consentito sapere cosa potremo fare a Natale, se e quanti parenti potremo vedere o visitare, con chi e dove potremo pranzare, se con i genitori o i nonni o i nipotini dovremo limitarci a una telefonata o magari a una videochiamata.Se non parlassimo di cose drammaticamente serie, ci sarebbe perfino da ridere di una simile mancanza di credibilità. Ricapitoliamo: per un tempo lungo, ci è stato imposto il sistema dei tre colori (giallo, arancione, rosso, con livelli crescenti di chiusura e restrizione), e soprattutto ci si è raccontato che questo regime era basato su un algoritmo, su 21 parametri oggettivi, e che dunque la catalogazione di ogni regione era assolutamente automatica, senza alcun elemento di politicità, di arbitrarietà, di discrezionalità. La tesi era: l'esame oggettivo e matematico dei 21 parametri porta a un verdetto certo e inappellabile. Non solo: si era anche stabilito un principio di severità assoluta. Se per caso una regione vedeva peggiorare il suo status (dal giallo all'arancione o dall'arancione al rosso), per risalire in classifica doveva per ben 14 giorni consecutivi riguadagnare e mantenere (su tutti e 21 i parametri!) i livelli della categoria superiore. E solo allora sarebbe potuta tornare a un livello di chiusura meno rigido. Ma attenzione: se per caso, durante i 14 giorni, qualcosa fosse andato storto su qualcuno di quei parametri, il conteggio delle due settimane sarebbe ricominciato daccapo. Insomma, una corsa in salita ripidissima, crudele, quasi sadica. Eppure, rispettando giudiziosamente criteri pur così proibitivi, cittadini e governatori, insieme, si erano riconquistati il giallo praticamente in tutta Italia. Naturalmente, ed è storia di appena dieci giorni fa, a quel punto il governo si è messo a suonare la grancassa, a rivendicare il successo. Un grande classico di quest'anno di Covid: quando le cose vanno bene, è merito del governo; quando vanno male, è colpa delle Regioni o degli italiani. Così, fino a pochi giorni fa, il governo si era affrettato a mettere le penne del pavone, a prendersi il merito dei sacrifici che avevano prodotto un buon risultato. Non solo: con zelo propagandistico degno di miglior causa, a quel punto Conte e i suoi hanno lanciato la campagna (ultrapromossa in tv) del cashback, invitando gli italiani a spendere con carta di credito, e a farlo di persona, andando direttamente nei negozi in vista del Natale. Cosa che gli italiani hanno fatto. O meglio: qualcuno è effettivamente andato a comprare qualche regalino, e qualcun altro si è semplicemente concesso, lo scorso weekend, una innocente passeggiata in centro, con tanto di mascherina e nel più assoluto rispetto delle regole. Apriti cielo! È bastata qualche foto (non di rado un po' schiacciata, dando inevitabilmente il senso di un affollamento maggiore di quello reale) per attivare, tra politica e mainstream media, un'ondata di panico. E, subito dopo, un riflesso di scatenata colpevolizzazione degli italiani, accusati nientemeno che di irresponsabilità e «shopping selvaggio» (in Italia, quando c'è qualcosa di sgradito, c'è sempre qualcuno che tira fuori l'aggettivo «selvaggio»). E così, com'è come non è, senza alcuna base scientifica e dimenticando i 21 parametri che fino a poco tempo prima venivano recitati da ministri e sottosegretari come una giaculatoria, è iniziata la corsa a rinchiuderci di nuovo. Per paradosso, se fino a qualche giorno fa si discuteva di allentare un altro po', smontando le regole più irrazionali (quelle che precludevano gli spostamenti tra Comuni, anche vicinissimi tra loro), improvvisamente il vento è cambiato, ed è ricominciata la gara tra «chiusuristi»: chi vorrebbe il lockdown totale dal 24 fino alla Befana senza interruzioni, chi - bontà sua - si limita a pretendere una soluzione del genere per otto giorni (tra festivi e prefestivi). E in questa tarantella - raccontano retroscena surreali - non sarebbe mancato nemmeno qualche pasdaran dell'ala sinistra della maggioranza, poi fortunatamente bloccato dal Viminale, pronto a chiedere nientemeno che controlli di polizia nelle case degli italiani. Mancava solo questo: l'irruzione della celere in tinello per interrompere in flagranza il pranzo con la zia. Per paradosso, si tratta degli stessi soggetti, sprezzanti del ridicolo, che un annetto fa gridavano e ululavano contro i presunti «pieni poteri» di Matteo Salvini. Con queste premesse e dopo queste promesse, si può credere ancora a questi signori? Possiamo sentirci sicuri nel sapere che tocca a loro organizzare la riapertura delle scuole il 7 gennaio (dopo il disastro combinato da metà settembre in poi)? Possiamo sentirci sollevati nel sapere che saranno sempre loro a gestire la delicatissima ed enorme operazione vaccini? Al pensiero, c'è da tremare.