2020-09-27
Sul Duce Fausto Leali la pensa come Pavese
L'editore Nino Aragno ha tolto dall'oblio il «Taccuino segreto» dello scrittore amato dalla sinistra. In quelle pagine, che Enrico Einaudi e Italo Calvino negarono al pubblico, l'intellettuale lodava lo Stato etico fascista. E rivolgeva apprezzamenti a Benito Mussolini, Adolf Hitler e Francisco Franco. A quelli che fischiano Fausto Leali quando al Grande fratello dice a modo suo delle verità storiche su Benito Mussolini (tipo che Adolf Hitler lo ammirasse, cosa vera, si legga il Mein Kampf), occorre ricordare che il cantante sta in buona compagnia, infatti la pensava così pure Cesare Pavese, ovvero uno dei numi magni della sinistra. Lo dimostra il Taccuino segreto (o per dir meglio «secretato» da Italo Calvino e dall'Einaudi dopo la morte dello scrittore), un piccolo bloc notes steso tra il 1942-43, nel quale tra molti giudizi eterodossi sono lodati apertamente Mussolini, i nazisti e più in genere una visione nicciano-agonistica della vita. Il taccuino, fino a ieri conosciuto solo da pochi studiosi bacucchi e da qualche italianista, viene oggi pubblicato dall'editore Nino Aragno con l'aggiunta in appendice delle reazioni, soprattutto di sinistra, soprattutto polemiche, quando ne apparvero alcuni brani, i più scabrosi, sulla Stampa dell'8 agosto 1990. Ma che cosa dice Pavese, quello stesso - ricordiamo - che scrisse sull'Unità, lavorò per l'Einaudi gramsciana e compose uno dei romanzi resistenziali per eccellenza, La casa in collina, in questo esecrando taccuino? Ebbene, rivolgendosi a sé stesso e quindi senza atteggiarsi di fronte a un pubblico, Pavese mette insieme un piccolo breviario di destrofilia. Secondo lui Mussolini aveva finalmente dato una «disciplina» agli italiani, il cui difetto capitale era quello di non saper «essere atroci»; esalta perciò lo Stato etico fascista apportatore di «ordine»; le stragi dei nazisti le paragona a quelle liberatorie della Rivoluzione francese; rivolge apprezzamenti a Hitler, a Francisco Franco e alle loro guerre «epiche», miste a feroci ironie verso gli antifascisti e i pacifisti; Pavese vi commenta positivamente anche il Manifesto di Verona, cioè l'atto fondante della Repubblica sociale, foriero di una prossima rinascita dell'Italia.Lorenzo Mondo, critico letterario nonché scopritore e possessore del taccuino, racconta nel volume di Aragno anche il perché della sua tardiva pubblicazione, a ben 70 anni dalla morte di Pavese: «Andai da Calvino», allora dirigente dell'Einaudi «che stava dietro la sua scrivania. Mentre sfogliava il taccuino, la sua faccia mi pareva ancora più pallida e magra. Disse che non ne sapeva niente e stette a guardarmi in silenzio meditabondo… Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c'era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese». Di fatto quelle pagine avrebbero incrinato la comoda vulgata di un Pavese antifascista tout court, così Giulio Einaudi pensò bene di non accoglierle nelle opere «complete» dello scrittore che stava man mano pubblicando, omise cioè il Taccuino come se non fosse mai esistito. Non sarebbe molto piaciuta a sinistra l'idea del compagno glorioso ma problematico, che pensa con la propria testa anche andando controcorrente, anziché allinearsi alle direttive indicate dal partito e dalla sua egemonia culturale. È la solita vecchia tragica storia della sinistra in Italia, come nel resto del mondo.Sono quasi tutte comiche invece le reazioni postume dell'intellighenzia italiota alla lettura dei primi brani del taccuino nel 1990. Giudizi che vanno dallo sbigottimento alla minimizzazione, fino alla messa in dubbio della sua autenticità (comunque provata inconfutabilmente da Mondo). Reazioni anche ignobili quando derubricano il Taccuino, al pari del suicidio di Pavese, come l'ennesimo effetto di uno squilibrato, l'esito nevrotico di un pazzo. Per Gian Carlo Pajetta, ad esempio, Pavese vi appare come un «vigliacco e disertore», dunque passibile di fucilazione; Fernanda Pivano invece si dice «pugnalata alle spalle da quello che credeva un antifascista puro»; mentre per Natalia Ginzburg lo scrittore sembra un «ragazzo inconsapevole» (benché all'epoca della stesura avesse già 34 anni suonati). Insomma, questo volume fa infine luce su una pagina dimenticata, o meglio fatta dimenticare, della nostra cultura. Se si vuole, contigua a quella della lettera al duce di Norberto Bobbio (la missiva amorevolissima in cui Bobbio si proclama «fermo e convinto fascista»), ma la vicenda del taccuino pavesiano è ancor più esemplare nell'illustrare la cappa ideologico-culturale che dal dopoguerra ammorba il nostro Paese.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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