2020-11-11
Sugli aiuti Conte s’è messo nella gabbia Ue
Giuseppe Conte (Alessandro Serranò/Getty Images)
Confermati gli errori dei giallorossi nella trattativa con Bruxelles: il tetto di 800.000 euro non può essere sforato a livello di «unità economica». Regioni e imprese nel panico. Mentre la Bce minaccia: «Non consentiremo di aggirare l'utilizzo dei prestiti europei».Il governo aiuterà le categorie colpite dal lockdown sfilando 1,2 miliardi dal fondo con cui lo Stato avrebbe dovuto pagare i debiti. Il resto arriverà dai risparmi della Cig e da stanziamenti «per esigenze indifferibili».Lo speciale contiene due articoli.Quando si tocca il fondo, non è detto che si debba per forza risalire. Si può sempre cominciare a trivellarlo. Sembra questa la sintesi più idonea a descrivere la situazione sul fronte che abbiamo delineato ieri a proposito della disciplina degli aiuti di Stato per mitigare l'impatto della crisi economica da Covid.Il nostro Paese ha messo tutte le uova nello stesso paniere: ha concesso aiuti di varia natura (contributi a fondo perduto, crediti di imposta, garanzie su prestiti, tassi agevolati su prestiti, eccetera) facendo riferimento quasi esclusivamente ai 12 casi di aiuti ammissibili secondo il Temporary Framework (Tf) emanato dalla Commissione il 19 marzo, modificato e successivamente integrato quattro volte. Tali aiuti sono considerati ammissibili ai sensi del terzo comma lettera b) dell'articolo 107 Tfue che li ammette per porre «rimedio a un grave turbamento dell'economia». Il problema, e il grave errore del governo, sta nel fatto che una parte consistente di quegli aiuti (paragrafi 3.1 e 3.2 del Tf) devono fare i conti con il limite di 800.000 euro. Il fatto che la scadenza sia stata prorogata al 30 giugno 2021 sembra solo un inutile orpello. Cosa se ne fanno le imprese di un ulteriore termine per fare ciò che già oggi non riescono a fare, visto che danzano sul filo di equilibrio del superamento del plafond? Poco o nulla è stato concesso alle imprese ai sensi dell'articolo 107, secondo comma, lettera b), che giustifica aiuti concessi per ovviare ai danni causati da calamità naturali ed altri eventi eccezionali. Un documento, pubblicato proprio ieri dalla Commissione, mostra che da marzo essa ha autorizzato 29 misure con questa giustificazione. Soltanto una, dicasi una, è relativa all'Italia (i 199 milioni erogati ad Alitalia). La novità di oggi, abbastanza clamorosa, che apprendiamo da fonti di Bruxelles e documenti che La Verità ha potuto visionare, contribuisce ad aumentare la sensazione di imperizia del governo. Dopo l'allarme lanciato dal Sole 24 Ore il 29 ottobre scorso circa il rischio di restituzione degli aiuti di Stato e la parziale smentita del giorno dopo («Il governo: aiuti, trattiamo con la Ue»), abbiamo la conferma, documenti alla mano, che la trattativa si è conclusa in modo infruttuoso: i servizi della Commissione hanno ribadito che il calcolo del limite di 800.000 euro sarà eseguito non a livello di singola impresa beneficiaria, ma di impresa «come unità economica».In sintesi, i conti si faranno a livello di gruppo, anche tenendo conto di società controllate in altri Paesi Ue. È facilmente immaginabile il caos che si scatenerà, anche perché in Italia è stato attivato il Registro Nazionale degli Aiuti (Rna) a livello di singola impresa beneficiaria e Francia e Germania, ad esempio, non hanno nemmeno quello e le autocertificazioni rischiano di essere un boomerang. La vicenda è nata perché il governo, con il decreto Rilancio, varò uno schema di aiuti concedibili da Regioni, Province autonome e Camere di Commercio con fondi propri, del valore di 9 miliardi. Anche tale regime-quadro, pur non essendo concesso dallo Stato centrale, ricalcava perfettamente gli aiuti concedibili ai sensi del Tf. Quando il 21 maggio la Commissione ne dichiarò la compatibilità, le Regioni predisposero autonomi strumenti agevolativi che non necessitavano di ulteriori approvazioni, purché coerenti con il regime-quadro autorizzato. Ma la Commissione qualche giorno fa ha ribadito che non solo tali strumenti concorrono a «consumare» il plafond unico, ma anche che «la Commissione non può accettare l'interpretazione di impresa singola beneficiaria e considererà diversi soggetti giuridici come facenti parte di un'unica entità economica ai fini degli aiuti di Stato». Con ciò gettando Regioni e imprese nella più totale incertezza sul da farsi.Su un altro versante, il governo ha dimostrato ottima vista nel seguire pedissequamente il Tf della Commissione ma è stato colpito da improvvisa presbiopia al punto 3.12 introdotto proprio con l'ultima modifica del 13 ottobre. È infatti possibile concedere alle imprese un aiuto fino al 70% (90% per le micro e piccole imprese) dei costi fissi non coperti dagli utili sostenuti nel periodo 1 marzo 2020-30 giugno 2021, a condizione che si registri una perdita di fatturato almeno del 30% rispetto a uno stesso periodo del 2019. In sostanza, basta considerare le perdite subite nel periodo di riferimento e calcolare il contributo. Una misura più che adeguata per alberghi, ristoranti, bar e attività ricreative e culturali falcidiate dalle misure restrittive delle ultime settimane e della primavera scorsa. Invece il governo, col decreto Ristori, si è rifugiato nella replica dell'economicamente irrilevante contributo a fondo perduto già erogato a giugno.C'era invece uno strumento di pronto impiego, già avallato da Bruxelles, ed è stato ignorato. Aveva forse un unico difetto: costava troppo.Allora riteniamo probabile che siano state efficaci le minacce prima sussurrate dalla Bce e poi ieri l'altro pronunciate ad alta voce da Yves Mersch, membro del comitato esecutivo, e raccolte dalla Reuters: «La Bce - che con i suoi acquisti ha creato un incentivo all'emissione di debito nazionale a tassi eccezionalmente bassi - non può essere usata per aggirare l'utilizzo dei prestiti europei. Non possiamo essere accomodanti davanti a questo evidente aggiramento e potremo reagire per evitare tale situazione».Ormai non si nascondono più: l'acquisto di debito nazionale da parte della Bce è un pasto gratis inammissibile. Bisogna pagare dazio per mezzo delle condizioni dei prestiti europei.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sugli-aiuti-conte-se-messo-nella-gabbia-ue-2648856320.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="per-finanziare-il-decreto-ristori-bis-usati-i-soldi-che-la-pa-deve-alle-aziende" data-post-id="2648856320" data-published-at="1605074165" data-use-pagination="False"> Per finanziare il decreto Ristori bis usati i soldi che la Pa deve alle aziende In questi giorni di lockdown il governo Conte non perde occasione per citare il decreto Ristori e i nuovi fondi che l'esecutivo ha destinato alle categorie professionali colpite dalla chiusura obbligata delle attività voluta per contenere la pandemia. In realtà, in una sorta di gioco delle tre carte, i fondi per il decreto Ristori sono stati trovati grazie a un «taglia e cuci» in arrivo da soldi già stanziati nei mesi scorsi. Con uno sguardo attento si noterà che 1,2 miliardi arrivano dal fondo per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione da 12 miliardi istituito con il decreto Rilancio, 830 milioni da risparmi della Cig Covid, 160 dai risparmi per le indennità per gli stagionali del turismo, 200 milioni da un fondo per «esigenze indifferibili» e 100 milioni dal fondo del Viminale per la gestione dei centri per l'accoglienza dei migranti. In particolare, come La Verità aveva già reso noto ad agosto, il 2 giugno scorso il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, annunciò il pagamento di 12 miliardi di arretrati della Pa. A occuparsi delle linee di credito per la pubblica amministrazione sarebbe stata Cassa depostiti e prestiti. Peccato che dei 12 miliardi stanziati, solo uno venne effettivamente richiesto e utilizzato. Lo Stato, attraverso il decreto Rilancio aveva infatti messo a disposizione delle Aziende sanitarie locali, delle Regioni e degli enti locali i fondi per liquidare i debiti commerciali maturati prima della fine del 2019. Come aveva già fatto notare la Cgia di Mestre, però, alla data del 7 luglio, termine entro il quale le articolazioni periferiche della Pa dovevano presentare la richiesta di denaro alla Cdp, «sarebbe stato richiesto solo 1 miliardo». Così, nel decreto Agosto, si decise di riaprire i termini per cui Asl, Regioni ed enti locali potevano chiedere la liquidità per pagare i creditori: la finestra temporale era tra il 21 settembre e il 9 ottobre prossimi. Anche in questo caso, però, calma piatta. «Dalla segnalazione riportata dalla Corte dei conti», spiegava già ad agosto il segretario della Cgia, Renato Mason, «si starebbe consolidando una tendenza in atto da alcuni anni che vede le amministrazioni pubbliche saldare con puntualità le fatture di importo maggiore e ritardare intenzionalmente la liquidazione di quelle di dimensione meno elevate». Insomma, questi 11 miliardi rimanenti stanziati dal governo per pagare i creditori non li voleva nessuno. A un mese di distanza si è così trovata una soluzione alternativa: parte di quei soldi verranno usati per il decreto Ristori. In poche parole, lo Stato ha stanziato dei soldi, nessuno li ha voluti e ora parte di quei fondi verranno utilizzati per pagare gli imprenditori messi in ginocchio dalla seconda ondata del Covid-19. Del resto, ieri il presidente Sergio Mattarella ha messo la sua firma sul decreto Ristori bis dedicato ad aziende, lavoratori autonomi e dipendenti danneggiati dalle restrizioni dell'ultimo dpcm e ora i fondi dovranno essere disponibili. Si tratta di 2,5 miliardi di euro, che si aggiungono ai 5 miliardi del precedente dl Ristori in vigore dal 29 ottobre. Nel caso la situazione dovesse peggiorare, nel provvedimento è previsto anche un fondo da 340 milioni nel 2020 e 70 milioni nel 2021 per aiutare le attività ulteriormente danneggiate se ci saranno nuove zone arancioni o rosse (come è purtroppo avvenuto nel caso di Abruzzo, Umbria, Basilicata, Liguria e Toscana). Intanto, però, l'Ufficio parlamentare di Bilancio punta il dito contro il decreto Ristori. Nella memoria trasmessa alle commissioni Bilancio e Finanze del Senato, l'Ubp fa notare che la norma comporta «un peggioramento dell'indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche di 3,3 miliardi (pari allo 0,2% del Pil) nel 2020 mentre ha un impatto appena positivo o nullo sul medesimo saldo negli anni successivi Quindi, per effetto del decreto, il deficit cresce nel 2020 dal 10,5% del Pil indicato nel Documento programmatico di bilancio 2021 al 10,7%». Complessivamente, nel decreto Ristori sono stimati maggiori oneri pari a 4,4 miliardi nel 2020 e 0,1 miliardi nel 2021. Le misure più rilevanti sotto il profilo quantitativo consistono nell'erogazione di un nuovo contributo a fondo perduto (2,5 miliardi nel 2020) e nel rifinanziamento di alcune misure settoriali già introdotte nei precedenti decreti (1 miliardo nel 2020 e 0,5 nel 2021). Inoltre, il decreto estende ulteriormente le disposizioni di esonero e di sospensione delle imposte e dei contributi (0,9 miliardi nel 2020 con recupero di -0,4 nel 2021). Il nuovo contributo a fondo perduto sarà erogato in particolare ai soggetti titolari di partita Iva e si stima interesserà una platea di 470.000 soggetti beneficiari. Come ricorda l'Ubp, inoltre, «le nuove integrazioni salariali di fatto prolungano di alcune settimane lo stesso “pacchetto" di interventi di tutela dei redditi da lavoro e sostegno all'occupazione avviato dal precedente decreto». Da questa prospettiva, dunque, il decreto Ristori si qualifica come «ponte» in attesa dei prossimi interventi, di natura più strutturale e con un orizzonte più lungo, che potrebbero essere varati prossimamente. Sul piano degli effetti finanziari, conclude l'Ubp, la relazione tecnica «stima in circa 2,1 miliardi l'autorizzazione di spesa per le nuove integrazioni salariali, di cui 0,6 miliardi nel 2020 e 1,5 nel 2021, e in 1,3 miliardi l'effetto sull'indebitamento netto del 2021».
Eugenia Roccella (Getty Images)
Uno scontro impari, 16 aerei contro oltre 40, e un pilota generoso che salvò un compagno senza badare a quanto carburante gli rimaneva. Questa è la storia di George ed Andrew.