Ottenendo lo slittamento delle scadenze, Raffaele Fitto smentisce Mario Draghi e punta su valutazioni più favorevoli della futura Commissione.Da martedì, con il via libera preliminare della Commissione al pagamento della quarta rata del Pnrr (16,5 miliardi) a favore dell’Italia, si chiude un’era e se ne apre un’altra. In mezzo, a fare da spartiacque, c’è la revisione del Piano, chiesta dal governo Meloni il 7 agosto e approvata dalla Commissione il 24 novembre. L’8 dicembre sarà il Consiglio Ecofin ad adottare la Decisione che renderà a tutti gli effetti valido quel piano revisionato.Bisogna prendere atto che a Giorgia Meloni e Raffaele Fitto è riuscita un’impresa titanica, non a caso fatta scivolare subito in secondo piano da chi tifava per il fallimento. Tanto più evidente la difficoltà, quanto più netto è il ricordo delle parole con cui Mario Draghi rifiutava perfino l’idea che ci fossero problemi all’orizzonte. «Ho fatto tutto il possibile, le ho lasciato il lavoro fatto. Ora tocca a lei», così un virgolettato il 6 ottobre su La Stampa. Ancora prima, il 19 settembre in conferenza stampa a Palazzo Chigi, a specifica domanda sulla revisione del Piano, rispose che la decisione era «un tema di campagna elettorale». Aggiungendo che «quello che si può rivedere è ciò che non è stato bandito; siccome è stato quasi tutto bandito, c’è poco da rivedere». Nonostante fosse ben consapevole che «da quando ci è stato dato il Pnrr è cambiato tutto», concluse, in tono stizzito, che «quello che è stato fatto, è stato fatto… non c’è un granché da fare».Insomma i problemi erano evidenti, ma Draghi ritenne di dover proseguire comunque. A Fitto sono bastati i sette lunghi mesi di interlocuzione con la Commissione necessari per ricevere il pagamento della terza rata, per capire che aveva davanti un cantiere che, in buona parte, andava smontato e rimontato. Un lavoro certosino e ponderoso che, in prima battuta, è rappresentato dalla numerosità di obiettivi e traguardi che sono stati oggetto di revisione. Infatti, il «vecchio» Pnrr prevedeva che, dalla quinta alla decima rata, dovessero essere conseguiti 349 obiettivi e traguardi, in aggiunta ai 178 già conseguiti con le prime quattro rate. Ora sono diventati 439, di cui 49 riferibili al nuovo capitolo RepowerEu, specificamente finalizzato ad incentivare l’abbandono delle fonti energetiche fossili a favore di quelle rinnovabili e a diminuire la dipendenza energetica dalla Russia. A questi 49 obiettivi/traguardi se ne aggiungono ben 96 che sono stati modificati o cancellati, a beneficio del capitolo RepowerEu, per un totale di 145 tra obiettivi nuovi e revisionati. All’incirca un quarto degli obiettivi/traguardi ancora da conseguire fino al 2026 sono stati interessati dalla revisione. In più il RepowerEu è diventato la settima «missione» del Piano e ha potuto in prima istanza beneficiare di 8,4 miliardi provenienti dalle misure modificate o azzerate, a cui si sono aggiunti 2,7 miliardi di risorse aggiuntive, per sommare 11,1 miliardi nuovi di zecca in quanto a destinazione di spesa. Di questa cifra ben 6,4 miliardi saranno incentivi alle imprese sotto il titolo «transizione 5.0». Non ci sembra proprio che si tratti di un intervento marginale, come le parole di Draghi lasciavano intendere circa 14 mesi fa.Ma è proprio questo il ritardo che ci sentiamo di imputare a quel governo. Già dalla primavera 2022, erano tutti ben chiari i fattori che avrebbero reso impossibile il rispetto degli impegni per i semestri successivi; era altrettanto chiara la disponibilità di uno strumento legale (l’articolo 21 del Regolamento con le sue «circostanze oggettive») per modificare il Piano. Ma nulla è accaduto, nonostante - come le parole dello stesso Draghi testimoniano - ci fosse piena consapevolezza del muro contro cui si stava andando a sbattere. È toccato a Fitto prendere atto, ricevendo l’assenso di Bruxelles, che 30 interventi non sono più attuabili perché l’inflazione ha gonfiato i costi inizialmente stimati. Poi ce ne sono altri sei non più fattibili perché le catene di fornitura sono andate in pezzi. Altri otto sono caduti sotto i colpi delle condizioni di domanda e di mercato che sono cambiate. Poi ci sono 43 interventi che hanno dovuto essere modificati per cambiare le modalità con cui poter centrare l’obiettivo (nella gran parte dei casi ci voleva più tempo e sono stati concentrati sul 2025 e 2026). Infine, altri tre interventi sono stati modificati per il sopraggiungere di circostanze imprevedibili, come l’inatteso dilungarsi delle procedure di avvio.Tutto questo ha portato a un significativo appesantimento di obiettivi e traguardi del Pnrr spalmati nei sei semestri dal 2024 al 2026 e, soprattutto, ad un eccezionale sovraccarico di misure sul semestre finale del 2026. Siamo passati da 120 a 173 misure e il pagamento di quella rata è passato dai 21 del vecchio piano ai 33 del nuovo. In altre parole, dei 106 miliardi residui (al lordo del prefinanziamento) che dovremmo incassare nei prossimi anni, quasi un terzo è concentrato sull’ultima rata.Fitto aveva, in teoria, due alternative: o rinunciare a parte dei fondi, soprattutto la parte dei prestiti che vale ben 20 miliardi su 33 dell’ultima rata, come hanno suggerito Tito Boeri e Roberto Perotti nel loro ultimo libro; oppure provare a farcela, spostando il più possibile in avanti la scadenza per il conseguimento degli obiettivi/traguardi e modificando le modalità di attuazione. Con il risultato che quello che fino a ieri era già una salita ripida, con il nuovo piano diventa un’arrampicata su un costone roccioso, dove la gran parte dei soldi si trovano solo in cima (la nona e la decima rata salgono a 46,9 miliardi da 35,7). Dopo la relativa pausa con la quinta rata da chiedere entro il 31 dicembre, dimagrita da 20,7 a 12,1 miliardi e da 69 a 52 obiettivi, poi partirà una sfida di cui solo a giugno 2026 conosceremo l’esito. Con l’essenziale precisazione che i 387 obiettivi/traguardi dalla sesta alla decima rata riguardano cose tangibili: posti negli asili, chilometri di rete ferroviaria, residenze per studenti universitari, eccetera, non burocrazia e carte, come accaduto finora. In controluce, è possibile vedere la scommessa politica che nel 2026 le valutazioni discrezionali della nuova Commissione (potenzialmente «partecipata» da questo governo e magari con il gruppo Ecr nella maggioranza europarlamentare che la farà partire) siano più favorevoli per noi. Da sempre, certe decisioni sono pura politica, la tecnica segue. Resta e aumenta il dubbio che abbiamo sollevato all’inizio, ormai più di tre anni fa: premesso che questo Paese aveva disperato bisogno di investimenti pubblici possibilmente ad alto effetto moltiplicatore sul Pil, siamo certi che eseguirli sotto la condizione di soddisfare obiettivi e traguardi negoziati solo formalmente con la Commissione (ma di fatto imposti) produca un beneficio netto per il nostro Paese, rispetto all’alternativa di un Piano indirizzato verso priorità scelte solo da noi, libero da condizioni esterne? Per non parlare degli effetti negativi di tali spese sul fronte del Patto di Stabilità, perché saremo costretti a tirare la cinghia su altre voci.Ammesso e non concesso che stiamo facendo la cosa giusta, sbagliare il «come» e il «quando» rischia di vanificare tutto.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





