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2019-11-15
Subito stato di emergenza e indennizzi per i danni. Ma Venezia ora ha paura
Getty Images
Venezia prova a rialzarsi, con fatica, una fatica immane. Il maltempo che ha dato qualche ora di tregua, ieri sera torna a diventare un incubo, quando vengono diffuse le previsioni per la notte e la giornata di oggi: acqua alta, con una punta massima di 145/150 cm. Il picco raggiunto alle 22.50 di martedì sera, 187 centimetri di marea, la seconda misura nella storia, dopo i 194 centimetri del 1966, ha provocato un morto e danni incalcolabili. Non sarà raggiunto di nuovo, ma gli argini sono stati indeboliti dall'ondata di martedì scorso. La paura è tanta, le scuole di ogni ordine e grado del centro storico, delle isole, del Lido e di Pellestrina resteranno chiuse anche oggi, mentre le farmacie garantiranno i servizi minimi di assistenza, nonostante i gravissimi danni subiti. È un bollettino di guerra. L'unica vittima collegabile direttamente all'alluvione è un anziano di 78 anni rimasto fulminato mentre cercava di far ripartire le elettropompe nella casa sommersa, a Pellestrina. L'altro morto è un uomo probabilmente colpito da un malore. L'unità di crisi per avversità atmosferiche si riunisce a Treviso, convocata dalla Regione Veneto: Città metropolitana di Venezia, province, vigili del fuoco, protezione civile e concessionarie di servizi pubblici si preparano ad affrontare una nuova perturbazione, che si dovrebbe intensificare nelle prime ore di questa mattina e protrarsi per tutta la giornata.
Alle 18 a Roma inizia il Consiglio dei ministri con all'ordine del giorno la dichiarazione dello stato di emergenza per le aree del Veneto, a partire da Venezia, e della provincia di Alessandria, colpite dal maltempo. Si conclude in meno di un'ora, con lo stanziamento di 20 milioni di euro per i primi interventi. Il premier, Giuseppe Conte, arrivato martedì sera, prima di far ritorno a Roma per il Cdm , trascorre l'intera giornata a Venezia, incontrando commercianti, cittadini, imprenditori e istituzioni. «Per Venezia», dice in mattinata, «c'è un impegno a 360 gradi, c'è una situazione drammatica in una città unica, ci dobbiamo essere. Siamo vicini ai veneziani, e speriamo di prevenire queste situazioni drammatiche, perché non si ripetano più». Conte, al termine di una riunione in Prefettura con il ministro dei Trasporti Paola De Micheli, il governatore Luca Zaia e il sindaco Luigi Brugnaro, annuncia per il 26 novembre la riunione del Comitatone interministeriale per la salvaguardia di Venezia. «Con il Cdm», spiega il premier, «adottiamo il decreto che dichiara lo stato di emergenza per Venezia. Questo ci consentirà di varare già la prima dotazioni finanziarie per quanto riguarda le spese di primo soccorso volte a ripristinare le funzionalità dei servizi».
Il presidente del Consiglio spiega anche quali saranno i primi passi per quel che riguarda gli aiuti economici: «Ci saranno due fasi», dice Conte, «la prima ci consentirà di indennizzare i privati e gli esercenti commerciali sino ad un limite per i primi di 5mila euro e per i secondi di 20mila euro. I soldi potranno arrivare subito e ovviamente saranno utilizzati per ristorare i danni. Poi per chi ha subito danni più consistenti», aggiunge, «li quantificheremo con più calma e dietro istruttoria tecnica potranno essere liquidati». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, telefona al sindaco Brugnaro, per manifestare la sua solidarietà e chiede informazioni.
La Giunta comunale di Venezia si riunisce nel pomeriggio, e adotta un provvedimento, su indicazione del sindaco Brugnaro e predisposto dall'Assessore al Bilancio e tributi Michele Zuin, che dispone il posticipo di un mese dell'imminente scadenza della quarta rata della Tari, prevista per il 16 novembre, per tutti i cittadini e le imprese dell'intero Comune. La nuova scadenza sarà fissata per il 16 dicembre. Alcuni istituti bancari, Intesa, Crédit Agricole FriulAdria, Banco Bpm, Bnl Gruppo Bnp Paribas, annunciano di essere pronti ad accogliere le richieste di sospensione del pagamento delle rate dei mutui per chi è stato danneggiato dall'alluvione.
A Venezia arriva anche il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Accompagnato dal governatore Zaia e dal sindaco Brugnaro, Berlusconi attraversa Piazza San Marco, completamente allagata, munito di stivaloni di gomma.
Berlusconi lancia una proposta per raccogliere i fondi necessari a riparare i danni subiti da Venezia: «Noi», dice il Cav, «vogliamo interessare tutte le entità che possono intervenire. Venezia è una delle capitali del mondo, uno dei pilastri della storia dell'Occidente e quindi credo che tutti abbiano l'interesse ma anche la voglia di fare ciò che è necessario per conservarla e per preservarla al meglio. Io penso», aggiunge Berlusconi, «che se ci fosse una spesa di 200 milioni, tre quarti di questa potrebbe essere sostenuta dai singoli Stati, che poi si guarderebbero uno con l'altro per non fare brutta figura, e un quarto circa da privati. Il grosso della spesa, però, credo debba essere versato dai più grandi Stati del mondo».
Il supercommissario per il gigante che dorme
La prima mossa del governo dopo l'alluvione è piazzare un commissario per il Mose. Anzi, un supercommissario visto che il Consorzio Venezia nuova, l'ente incaricato dal governo di realizzare l'opera, è già commissariato dal 2014 dopo l'ondata di arresti per l'enorme giro di mazzette sui lavori. Fu l'allora premier Matteo Renzi a sollecitare Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, a nominare i commissari. Oggi Palazzo Chigi ritiene doveroso commissariare i commissari per mostrare ai veneziani e al resto d'Italia lo scatto d'orgoglio dopo il disastro e i ritardi.
Il supercommissario è una donna, Elisabetta Spitz. Una top manager di Stato abituata sia a maneggiare grandi lavori sia a sbrogliare matasse intricate. Spitz, architetto, moglie separata dell'ex segretario Udc Marco Follini, ha diretto l'Agenzia del demanio per 8 anni, dal 2000 al 2008: gli immobili pubblici erano il suo pane quotidiano. L'aveva scelta Vincenzo Visco, allora ministro «Dracula» delle Finanze, che nel 1999 l'aveva anche inserita nel comitato di 7 esperti incaricato di elaborare una riforma del ministero. Chiusa l'esperienza al Demanio, Spitz ha continuato a occuparsi dello sterminato patrimonio immobiliare italiano come capo di Invimit, la società a capitale pubblico che deve vendere una parte degli edifici dello Stato. Fino all'altro giorno era commissaria straordinaria di Sorgente sgr, la società del gruppo Sorgente dell'immobiliarista Valter Mainetti (gestione di fondi immobiliari per un valore di 2,5 miliardi di euro) in lite con Enasarco, l'ente di previdenza e assistenza degli agenti di commercio.
Spitz ha già lavorato in laguna. Dal 1992 al 1999 ha presieduto il consorzio di progettazione per la salvaguardia delle aree abitate di Venezia e nel periodo 2009-2010 è stata consulente dell'Autorità portuale per formulare il piano di gestione del porto. Ora torna per la terza volta per il compito più difficile: completare nei tempi previsti (31 dicembre 2021) il sistema di 78 dighe mobili che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta. E l'avrebbe salvata anche l'altro giorno, se solo i lavori di costruzione fossero stati terminati entro il 2016 come prevedeva il progetto originale.
Le paratoie sono tutte incernierate sui fondali delle tre bocche di porto che mettono in comunicazione il mare Adriatico e la laguna veneziana. Sono enormi cassoni vuoti che nella normalità giacciono sul fondo, ma quando la marea supera i 110 centimetri vengono svuotati dall'acqua con potenti flussi di aria compressa e così alleggeriti si posizionano in verticale erigendo una barriera. Cessato l'allarme, ritornano a fondo. La posa delle dighe è stata completata a gennaio. Ora sono in corso i test di sollevamento per tarare le parti meccaniche e verificare il funzionamento dei meccanismi elettronici di regolazione.
Il problema è che per sollevare le dighe ci vogliono dalle 4 alle 5 ore e in questo frangente le paratoie lavorano nel mare agitato e con venti fortissimi: l'altro giorno le raffiche hanno raggiunto i 126 chilometri orari. Le onde sbattono con violenza contro i cassoni, tendono ad abbassarli e il rischio è che, senza un sistema di correzione, li scavalchino creando ancora più danno. Ma non c'è soltanto una questione ingegneristica. Serve un coordinamento tra gli enti coinvolti (Comune, Regione, Provveditorato alle acque, Capitaneria di porto, prefettura) per fare funzionare il Mose. E infine occorrono braccia: ora il numero di addetti disponibili è quello reclutato per i test, sufficiente a far funzionare soltanto una delle 4 schiere in cui sono articolate le dighe mobili. Gli altri tecnici vanno trovati, assunti e preparati per le manovre.
Oggi dunque il Mose è un gigante che dorme in fondo al mare. E che resterà in letargo per altri due anni. Soltanto la Protezione civile o il prefetto (cioè il governo) avrebbero potuto ordinare di alzare l'unica schiera di cassoni al momento azionabile. Ma, secondo uno dei commissari in carica, l'ingegner Francesco Ossola, un'azione parziale avrebbe fatto peggio. «La chiusura di una sola bocca di porto, quella di Chioggia o del Lido», ha spiegato, «avrebbe “insaccato" l'acqua creando danni maggiori. E le simulazioni del passato parlano di un effetto molto limitato, soltanto 10 o 20 centimetri». Altra cosa sarebbe stato potere azionare tutte le paratoie: «Il sistema risponde bene ai test, il Mose funzionerà, ne sono convinto, altrimenti non sarei qui», ha garantito Ossola.
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Per oggi si prevede acqua alta fino a 150 centimetri. Il problema è come reagiranno gli argini già indeboliti. Stanziati 20 milioni per i primi interventi.Il supercommissario per il gigante che dorme. Nominata la Spitz, manager che ha già lavorato in laguna. Perché il letargo del Mose non superi i due anni.Lo speciale comprende due articoli. Venezia prova a rialzarsi, con fatica, una fatica immane. Il maltempo che ha dato qualche ora di tregua, ieri sera torna a diventare un incubo, quando vengono diffuse le previsioni per la notte e la giornata di oggi: acqua alta, con una punta massima di 145/150 cm. Il picco raggiunto alle 22.50 di martedì sera, 187 centimetri di marea, la seconda misura nella storia, dopo i 194 centimetri del 1966, ha provocato un morto e danni incalcolabili. Non sarà raggiunto di nuovo, ma gli argini sono stati indeboliti dall'ondata di martedì scorso. La paura è tanta, le scuole di ogni ordine e grado del centro storico, delle isole, del Lido e di Pellestrina resteranno chiuse anche oggi, mentre le farmacie garantiranno i servizi minimi di assistenza, nonostante i gravissimi danni subiti. È un bollettino di guerra. L'unica vittima collegabile direttamente all'alluvione è un anziano di 78 anni rimasto fulminato mentre cercava di far ripartire le elettropompe nella casa sommersa, a Pellestrina. L'altro morto è un uomo probabilmente colpito da un malore. L'unità di crisi per avversità atmosferiche si riunisce a Treviso, convocata dalla Regione Veneto: Città metropolitana di Venezia, province, vigili del fuoco, protezione civile e concessionarie di servizi pubblici si preparano ad affrontare una nuova perturbazione, che si dovrebbe intensificare nelle prime ore di questa mattina e protrarsi per tutta la giornata. Alle 18 a Roma inizia il Consiglio dei ministri con all'ordine del giorno la dichiarazione dello stato di emergenza per le aree del Veneto, a partire da Venezia, e della provincia di Alessandria, colpite dal maltempo. Si conclude in meno di un'ora, con lo stanziamento di 20 milioni di euro per i primi interventi. Il premier, Giuseppe Conte, arrivato martedì sera, prima di far ritorno a Roma per il Cdm , trascorre l'intera giornata a Venezia, incontrando commercianti, cittadini, imprenditori e istituzioni. «Per Venezia», dice in mattinata, «c'è un impegno a 360 gradi, c'è una situazione drammatica in una città unica, ci dobbiamo essere. Siamo vicini ai veneziani, e speriamo di prevenire queste situazioni drammatiche, perché non si ripetano più». Conte, al termine di una riunione in Prefettura con il ministro dei Trasporti Paola De Micheli, il governatore Luca Zaia e il sindaco Luigi Brugnaro, annuncia per il 26 novembre la riunione del Comitatone interministeriale per la salvaguardia di Venezia. «Con il Cdm», spiega il premier, «adottiamo il decreto che dichiara lo stato di emergenza per Venezia. Questo ci consentirà di varare già la prima dotazioni finanziarie per quanto riguarda le spese di primo soccorso volte a ripristinare le funzionalità dei servizi». Il presidente del Consiglio spiega anche quali saranno i primi passi per quel che riguarda gli aiuti economici: «Ci saranno due fasi», dice Conte, «la prima ci consentirà di indennizzare i privati e gli esercenti commerciali sino ad un limite per i primi di 5mila euro e per i secondi di 20mila euro. I soldi potranno arrivare subito e ovviamente saranno utilizzati per ristorare i danni. Poi per chi ha subito danni più consistenti», aggiunge, «li quantificheremo con più calma e dietro istruttoria tecnica potranno essere liquidati». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, telefona al sindaco Brugnaro, per manifestare la sua solidarietà e chiede informazioni. La Giunta comunale di Venezia si riunisce nel pomeriggio, e adotta un provvedimento, su indicazione del sindaco Brugnaro e predisposto dall'Assessore al Bilancio e tributi Michele Zuin, che dispone il posticipo di un mese dell'imminente scadenza della quarta rata della Tari, prevista per il 16 novembre, per tutti i cittadini e le imprese dell'intero Comune. La nuova scadenza sarà fissata per il 16 dicembre. Alcuni istituti bancari, Intesa, Crédit Agricole FriulAdria, Banco Bpm, Bnl Gruppo Bnp Paribas, annunciano di essere pronti ad accogliere le richieste di sospensione del pagamento delle rate dei mutui per chi è stato danneggiato dall'alluvione. A Venezia arriva anche il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Accompagnato dal governatore Zaia e dal sindaco Brugnaro, Berlusconi attraversa Piazza San Marco, completamente allagata, munito di stivaloni di gomma. Berlusconi lancia una proposta per raccogliere i fondi necessari a riparare i danni subiti da Venezia: «Noi», dice il Cav, «vogliamo interessare tutte le entità che possono intervenire. Venezia è una delle capitali del mondo, uno dei pilastri della storia dell'Occidente e quindi credo che tutti abbiano l'interesse ma anche la voglia di fare ciò che è necessario per conservarla e per preservarla al meglio. Io penso», aggiunge Berlusconi, «che se ci fosse una spesa di 200 milioni, tre quarti di questa potrebbe essere sostenuta dai singoli Stati, che poi si guarderebbero uno con l'altro per non fare brutta figura, e un quarto circa da privati. Il grosso della spesa, però, credo debba essere versato dai più grandi Stati del mondo».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/subito-stato-di-emergenza-e-indennizzi-per-i-danni-ma-venezia-ora-ha-paura-2641343359.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-supercommissario-per-il-gigante-che-dorme" data-post-id="2641343359" data-published-at="1765537071" data-use-pagination="False"> Il supercommissario per il gigante che dorme La prima mossa del governo dopo l'alluvione è piazzare un commissario per il Mose. Anzi, un supercommissario visto che il Consorzio Venezia nuova, l'ente incaricato dal governo di realizzare l'opera, è già commissariato dal 2014 dopo l'ondata di arresti per l'enorme giro di mazzette sui lavori. Fu l'allora premier Matteo Renzi a sollecitare Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, a nominare i commissari. Oggi Palazzo Chigi ritiene doveroso commissariare i commissari per mostrare ai veneziani e al resto d'Italia lo scatto d'orgoglio dopo il disastro e i ritardi. Il supercommissario è una donna, Elisabetta Spitz. Una top manager di Stato abituata sia a maneggiare grandi lavori sia a sbrogliare matasse intricate. Spitz, architetto, moglie separata dell'ex segretario Udc Marco Follini, ha diretto l'Agenzia del demanio per 8 anni, dal 2000 al 2008: gli immobili pubblici erano il suo pane quotidiano. L'aveva scelta Vincenzo Visco, allora ministro «Dracula» delle Finanze, che nel 1999 l'aveva anche inserita nel comitato di 7 esperti incaricato di elaborare una riforma del ministero. Chiusa l'esperienza al Demanio, Spitz ha continuato a occuparsi dello sterminato patrimonio immobiliare italiano come capo di Invimit, la società a capitale pubblico che deve vendere una parte degli edifici dello Stato. Fino all'altro giorno era commissaria straordinaria di Sorgente sgr, la società del gruppo Sorgente dell'immobiliarista Valter Mainetti (gestione di fondi immobiliari per un valore di 2,5 miliardi di euro) in lite con Enasarco, l'ente di previdenza e assistenza degli agenti di commercio. Spitz ha già lavorato in laguna. Dal 1992 al 1999 ha presieduto il consorzio di progettazione per la salvaguardia delle aree abitate di Venezia e nel periodo 2009-2010 è stata consulente dell'Autorità portuale per formulare il piano di gestione del porto. Ora torna per la terza volta per il compito più difficile: completare nei tempi previsti (31 dicembre 2021) il sistema di 78 dighe mobili che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta. E l'avrebbe salvata anche l'altro giorno, se solo i lavori di costruzione fossero stati terminati entro il 2016 come prevedeva il progetto originale. Le paratoie sono tutte incernierate sui fondali delle tre bocche di porto che mettono in comunicazione il mare Adriatico e la laguna veneziana. Sono enormi cassoni vuoti che nella normalità giacciono sul fondo, ma quando la marea supera i 110 centimetri vengono svuotati dall'acqua con potenti flussi di aria compressa e così alleggeriti si posizionano in verticale erigendo una barriera. Cessato l'allarme, ritornano a fondo. La posa delle dighe è stata completata a gennaio. Ora sono in corso i test di sollevamento per tarare le parti meccaniche e verificare il funzionamento dei meccanismi elettronici di regolazione. Il problema è che per sollevare le dighe ci vogliono dalle 4 alle 5 ore e in questo frangente le paratoie lavorano nel mare agitato e con venti fortissimi: l'altro giorno le raffiche hanno raggiunto i 126 chilometri orari. Le onde sbattono con violenza contro i cassoni, tendono ad abbassarli e il rischio è che, senza un sistema di correzione, li scavalchino creando ancora più danno. Ma non c'è soltanto una questione ingegneristica. Serve un coordinamento tra gli enti coinvolti (Comune, Regione, Provveditorato alle acque, Capitaneria di porto, prefettura) per fare funzionare il Mose. E infine occorrono braccia: ora il numero di addetti disponibili è quello reclutato per i test, sufficiente a far funzionare soltanto una delle 4 schiere in cui sono articolate le dighe mobili. Gli altri tecnici vanno trovati, assunti e preparati per le manovre. Oggi dunque il Mose è un gigante che dorme in fondo al mare. E che resterà in letargo per altri due anni. Soltanto la Protezione civile o il prefetto (cioè il governo) avrebbero potuto ordinare di alzare l'unica schiera di cassoni al momento azionabile. Ma, secondo uno dei commissari in carica, l'ingegner Francesco Ossola, un'azione parziale avrebbe fatto peggio. «La chiusura di una sola bocca di porto, quella di Chioggia o del Lido», ha spiegato, «avrebbe “insaccato" l'acqua creando danni maggiori. E le simulazioni del passato parlano di un effetto molto limitato, soltanto 10 o 20 centimetri». Altra cosa sarebbe stato potere azionare tutte le paratoie: «Il sistema risponde bene ai test, il Mose funzionerà, ne sono convinto, altrimenti non sarei qui», ha garantito Ossola.
Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
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Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
«Al momento, ci sono tre documenti: i 20 punti fondamentali, le garanzie di sicurezza e il documento sull’economia e la ricostruzione», ha proseguito il funzionario. Sempre ieri, Volodymyr Zelensky ha avuto un colloquio, da lui stesso definito «costruttivo e approfondito», sulle garanzie di sicurezza con alcuni alti funzionari americani: il segretario di Stato, Marco Rubio, il capo del Pentagono, Pete Hegseth, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff.
Nel frattempo, le relazioni transatlantiche si stanno facendo sempre più tese. Mercoledì sera, Donald Trump ha commentato aspramente la telefonata che, alcune ore prima, aveva avuto con Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron.
«Abbiamo parlato con i leader di Francia, Germania e Regno Unito, tutti ottimi leader, miei cari amici. E abbiamo discusso dell’Ucraina con parole piuttosto forti. E vedremo cosa succede. Voglio dire, stiamo aspettando di sentire le risposte», ha dichiarato il presidente americano, che ha anche rivelato di essere stato invitato a un incontro in Europa, dedicato alla questione delle garanzie di sicurezza. «Prima di andare a un incontro, vogliamo sapere alcune cose», ha affermato, per poi aggiungere: «Vorrebbero che andassimo a un incontro nel fine settimana in Europa, e prenderemo una decisione, a seconda di cosa ci diranno. Non vogliamo perdere tempo». In tal senso, la Casa Bianca ha fatto sapere che Trump non ha ancora deciso se mandare o meno un rappresentante al vertice di Parigi in programma sabato.
È in questo quadro che, ieri, Merz ha chiesto agli Stati Uniti di partecipare a un meeting che dovrebbe tenersi all’inizio della prossima settimana a Berlino. Il cancelliere tedesco ha inoltre sottolineato che il principale nodo sul tavolo risiede in «quali concessioni territoriali l’Ucraina è disposta a fare». Lunedì scorso, Zelensky aveva escluso delle cessioni di territorio, ribadendo una linea in netto contrasto con quella della Casa Bianca che, ormai da tempo, sta cercando di convincere il presidente ucraino a rinunciare al Donbass. A tal proposito, ieri Zelensky ha confermato che le questioni territoriali (soprattutto quelle del Donetsk e di Zaporizhia) sono ancora «in discussione» e che, secondo lui, dovrebbero essere decise tramite «elezioni o referendum. Deve esserci una posizione del popolo ucraino». Ha inoltre aggiunto che gli Usa vorrebbero creare una «zona economica libera» nell’area di Donbass che Kiev, stando ai desiderata della Casa Bianca, dovrebbe eventualmente abbandonare. Infine, secondo il leader ucraino, Washington ritiene che un cessate il fuoco totale sia possibile solo a seguito della firma di un accordo quadro. Ricordiamo che, negli scorsi giorni, Trump si era detto «deluso» da Zelensky, accusando inoltre i leader europei di debolezza. A complicare ulteriormente le relazioni transatlantiche ci si è poi messo Macron che, la scorsa settimana, si è recato in Cina, tentando maldestramente di avviare un processo di pace alternativo a quello condotto da Washington.
Mosca, dal canto suo, ha invece espresso sintonia con la Casa Bianca. «Di recente, quando il rappresentante speciale del presidente Trump, Stephen Witkoff, è stato qui, dopo il suo incontro con Vladimir Putin, entrambe le parti, russa e americana, hanno confermato le intese reciproche raggiunte in Alaska», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «L’essenza di queste intese è che l’Ucraina deve tornare ai fondamenti non allineati, neutrali e non nucleari del suo Stato», ha aggiunto. «Dobbiamo dare il giusto riconoscimento al leader americano: dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, ha affrontato seriamente la questione. A nostro avviso, si sta impegnando sinceramente per contribuire a risolvere il conflitto attraverso mezzi politici e diplomatici», ha proseguito. Non solo. Sempre ieri, Mosca ha mostrato apprezzamento verso l’eventualità, rivelata dal Wall Street Journal, che, nel quadro di un potenziale accordo di pace, Washington possa effettuare investimenti in energia russa. «Siamo interessati a un afflusso di investimenti esteri», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Ciò detto, ieri la Casa Bianca ha detto che il presidente americano è «estremamente frustrato» tanto da Kiev quanto da Mosca.
Trump punta a chiudere la crisi ucraina per sganciare Mosca da Pechino, facendo leva su economia e commercio. Vladimir Putin, dal canto suo, ha bisogno della Casa Bianca per cercare di riacquisire influenza in Medio Oriente: lo zar vuole infatti recuperare terreno in Siria e ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Washington e Teheran sul nucleare. Ebbene, davanti ai significativi interessi che stanno alla base del riavvicinamento tra Usa e Russia, gli europei fanno fatica a ritagliarsi un ruolo diplomatico, oltreché geopolitico, di peso.
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