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2020-06-03
Su Minneapolis Trump guarda a Richard Nixon
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Donald Trump (Ansa)
In un recente intervento a Filadelfia, Joe Biden (che ha quasi blindato matematicamente la nomination democratica) ha accusato Donald Trump di fomentare le divisioni razziali, oltre che di mancanza di leadership politica. «Il presidente Trump ha trasformato questo Paese in un campo di battaglia, devastato da vecchi risentimenti e nuove paure. Pensa che la divisione lo aiuti», ha detto Biden. "Il suo narcisismo è diventato più importante del benessere della nazione che guida". Il presidente, dal canto suo, ha ormai saldamente scelto la linea dura. Non soltanto ha invitato da giorni i governatori locali ad attivare la guardia nazionale, ma non ha neppure escluso di ricorrere all'invio dell'esercito. Del resto, è proprio la questione dell'esercito ad aver principalmente infiammato il dibattito elettorale. Biden ha non a caso accusato Trump di aver usato le forze armate per sgomberare pochi giorni fa l'area attorno alla Casa Bianca dai manifestanti. "Sta usando l'esercito americano contro il popolo americano", ha twittato martedì l'ex vicepresidente.
Il punto è che Biden si trova al momento in una posizione ambigua. Se a Filadelfia ha riconosciuto che si debba «distinguere tra legittima protesta pacifica e opportunistica distruzione violenta», dall'altra parte critica comunque la linea dura della Casa Bianca: tutto questo non fa che porre il candidato democratico in una contraddizione non indifferente. Se infatti ammette che - oltre alle proteste - si stanno verificando episodi di guerriglia illegittima, per quale ragione Trump non avrebbe il diritto di intervenire a salvaguardia dell'ordine pubblico? Il paradosso si spiega con l'eterogenea tipologia di elettorato a cui Biden sta cercando di appellarsi: da una parte, l'ex vicepresidente vorrebbe rassicurare le frange più moderate ma, dall'altra, teme di scontentare il bacino democratico più spostato a sinistra. Il risultato è una linea politica fondamentalmente strabica, che non è esattamente chiaro dove lo condurrà. Anche perché, a ben vedere, un ulteriore problema per Biden risiede nel fatto che Minneapolis - dove Floyd è stato ucciso durante un controllo di polizia - sia un città amministrata da sindaci democratici ininterrottamente dal 1978. Ricordiamo, a tal proposito, che il corpo di polizia di questa città abbia una storia trentennale di controversie e che, negli Stati Uniti, siano proprio i sindaci a nominare i vertici della polizia cittadina. Biden quindi deve fare anche i conti con l'inefficienza della classe dirigente, espressa dal suo partito a livello locale. Un problema che potrebbe rivelarglisi elettoralmente problematico soprattutto sul fronte delle minoranze etniche.
Trump, piaccia o meno, ha invece imboccato una linea più consequenziale. Durante un discorso tenuto lunedì alla Casa Bianca, il presidente ha nettamente distinto tra proteste legittime e facinorosi dediti a vandalismi e saccheggi. Ed è in tal senso che non ha escluso la possibilità di ricorrere alle forze armate. Un'ipotesi che, da più parti, è stata accolta con scetticismo e critica. Ma che, in realtà, rientra pienamente nei poteri presidenziali. Trump potrebbe infatti invocare l'Insurrection Act: una legge del 1807, che consente all'inquilino della Casa Bianca di schierare l'esercito all'interno degli Stati Uniti per domare sedizioni e sommosse. Si tratta di una norma che è stata talvolta usata nel corso della storia americana (l'ultima volta fu nel 1992) e che non ha necessariamente bisogno di una richiesta da parte dei governatori locali per essere applicata: Dwight Eisenhower (nel 1957) e John Kennedy (nel 1962) vi fecero per esempio ricorso contro la volontà dei governatori, nel pieno degli scontri sul segregazionismo. Non si capisce quindi per quale ragione, minacciare l'uso dell'esercito in caso di guerriglia e saccheggi, debba essere considerato da qualcuno un incitamento alla violenza.
Più in generale, è sempre più chiaro che il presidente stia seguendo una strategia elettorale ben precisa: una strategia, che si richiama esplicitamente a quella adottata con successo da Richard Nixon alle presidenziali del 1968 e del 1972. Non sarà un caso del resto che, negli ultimi giorni, Trump abbia spesso twittato classici slogan elettorali nixoniani come "law and order" e "silent majority". E, in tal senso, l'obiettivo dell'attuale presidente è esattamente questo: proporsi come il candidato baluardo dell'ordine, contro l'anarchia e l'estremismo politico della sinistra. Nel 1968, Nixon si presentò infatti efficacemente come colui che avrebbe frenato il caos delle proteste che, in quell'anno, stavano infiammando varie parti degli Stati Uniti (soprattutto a causa del Vietnam e dell'assassinio del reverendo Martin Luther King). Nel 1972, basò invece la propria strategia elettorale nell'additare i democratici come una forza estremista, visto che quell'anno avevano conferito la nomination al senatore George McGovern (uno dei candidati più a sinistra che la storia americana ricordi). In entrambi i casi, per Nixon fu un successo. E, oggi, Trump vuole imitarlo. Anche perché, al di là dei suddetti slogan e del pugno duro promesso nel domare i disordini, l'attuale presidente sta anche attaccando Biden come troppo vicino alla "sinistra radicale". Un tipo di accusa, quest'ultima, che Trump sta del resto muovendo da mesi all'intero Partito democratico.
E attenzione: perché il nixonismo di Trump non si ferma soltanto all'aspetto meramente "law and order". Per quanto accusato di razzismo dai suoi avversari, Nixon fu un presidente che si batté sotto svariati punti di vista contro la segregazione razziale (soprattutto nelle scuole). Ecco, nonostante si dica spesso superficialmente il contrario, Trump non ha alcuna intenzione di fomentare il razzismo verso gli afroamericani. Del resto, ha subito condannato l'uccisione di Floyd, dando inoltre ordine al Dipartimento di Giustizia e all'Fbi di fare chiarezza sull'accaduto. Senza poi trascurare che - come già ricordato - Trump non ha criticato le proteste ma i saccheggi e i vandalismi. Tra l'altro, se anche non si vuole credere alla buona fede del presidente, basterebbe ragionare in termini di mero calcolo elettorale. Trump sa bene che, per essere rieletto a novembre, non può fare affidamento esclusivamente sul voto dei bianchi. Per lui, incrementare il consenso tra le minoranze etniche è assolutamente fondamentale (soprattutto in aree come la Florida). È quindi esattamente in questo senso che, ormai da numerosi mesi, il comitato elettorale del presidente si è attivato per rafforzare il consenso tra afroamericani e ispanici (puntando soprattutto sul fronte del recente miglioramento delle loro condizioni socioeconomiche). La pretestuosità di chi accusa Trump di fomentare il razzismo è quindi smascherata dal fatto che, se così fosse, l'attuale inquilino della Casa Bianca danneggerebbe le proprie chances di riconferma a novembre. E di questo presidente si può dire tutto. Tranne che, come Nixon, non abbia fiuto elettorale.
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La morte di George Floyd sta ridisegnando le strategie elettorali dei due principali candidati alla Casa Bianca in vista delle elezioni di novembre. E, nel pieno dello scontro politico, si riaffaccia la figura di Richard Nixon.In un recente intervento a Filadelfia, Joe Biden (che ha quasi blindato matematicamente la nomination democratica) ha accusato Donald Trump di fomentare le divisioni razziali, oltre che di mancanza di leadership politica. «Il presidente Trump ha trasformato questo Paese in un campo di battaglia, devastato da vecchi risentimenti e nuove paure. Pensa che la divisione lo aiuti», ha detto Biden. "Il suo narcisismo è diventato più importante del benessere della nazione che guida". Il presidente, dal canto suo, ha ormai saldamente scelto la linea dura. Non soltanto ha invitato da giorni i governatori locali ad attivare la guardia nazionale, ma non ha neppure escluso di ricorrere all'invio dell'esercito. Del resto, è proprio la questione dell'esercito ad aver principalmente infiammato il dibattito elettorale. Biden ha non a caso accusato Trump di aver usato le forze armate per sgomberare pochi giorni fa l'area attorno alla Casa Bianca dai manifestanti. "Sta usando l'esercito americano contro il popolo americano", ha twittato martedì l'ex vicepresidente.Il punto è che Biden si trova al momento in una posizione ambigua. Se a Filadelfia ha riconosciuto che si debba «distinguere tra legittima protesta pacifica e opportunistica distruzione violenta», dall'altra parte critica comunque la linea dura della Casa Bianca: tutto questo non fa che porre il candidato democratico in una contraddizione non indifferente. Se infatti ammette che - oltre alle proteste - si stanno verificando episodi di guerriglia illegittima, per quale ragione Trump non avrebbe il diritto di intervenire a salvaguardia dell'ordine pubblico? Il paradosso si spiega con l'eterogenea tipologia di elettorato a cui Biden sta cercando di appellarsi: da una parte, l'ex vicepresidente vorrebbe rassicurare le frange più moderate ma, dall'altra, teme di scontentare il bacino democratico più spostato a sinistra. Il risultato è una linea politica fondamentalmente strabica, che non è esattamente chiaro dove lo condurrà. Anche perché, a ben vedere, un ulteriore problema per Biden risiede nel fatto che Minneapolis - dove Floyd è stato ucciso durante un controllo di polizia - sia un città amministrata da sindaci democratici ininterrottamente dal 1978. Ricordiamo, a tal proposito, che il corpo di polizia di questa città abbia una storia trentennale di controversie e che, negli Stati Uniti, siano proprio i sindaci a nominare i vertici della polizia cittadina. Biden quindi deve fare anche i conti con l'inefficienza della classe dirigente, espressa dal suo partito a livello locale. Un problema che potrebbe rivelarglisi elettoralmente problematico soprattutto sul fronte delle minoranze etniche.Trump, piaccia o meno, ha invece imboccato una linea più consequenziale. Durante un discorso tenuto lunedì alla Casa Bianca, il presidente ha nettamente distinto tra proteste legittime e facinorosi dediti a vandalismi e saccheggi. Ed è in tal senso che non ha escluso la possibilità di ricorrere alle forze armate. Un'ipotesi che, da più parti, è stata accolta con scetticismo e critica. Ma che, in realtà, rientra pienamente nei poteri presidenziali. Trump potrebbe infatti invocare l'Insurrection Act: una legge del 1807, che consente all'inquilino della Casa Bianca di schierare l'esercito all'interno degli Stati Uniti per domare sedizioni e sommosse. Si tratta di una norma che è stata talvolta usata nel corso della storia americana (l'ultima volta fu nel 1992) e che non ha necessariamente bisogno di una richiesta da parte dei governatori locali per essere applicata: Dwight Eisenhower (nel 1957) e John Kennedy (nel 1962) vi fecero per esempio ricorso contro la volontà dei governatori, nel pieno degli scontri sul segregazionismo. Non si capisce quindi per quale ragione, minacciare l'uso dell'esercito in caso di guerriglia e saccheggi, debba essere considerato da qualcuno un incitamento alla violenza.Più in generale, è sempre più chiaro che il presidente stia seguendo una strategia elettorale ben precisa: una strategia, che si richiama esplicitamente a quella adottata con successo da Richard Nixon alle presidenziali del 1968 e del 1972. Non sarà un caso del resto che, negli ultimi giorni, Trump abbia spesso twittato classici slogan elettorali nixoniani come "law and order" e "silent majority". E, in tal senso, l'obiettivo dell'attuale presidente è esattamente questo: proporsi come il candidato baluardo dell'ordine, contro l'anarchia e l'estremismo politico della sinistra. Nel 1968, Nixon si presentò infatti efficacemente come colui che avrebbe frenato il caos delle proteste che, in quell'anno, stavano infiammando varie parti degli Stati Uniti (soprattutto a causa del Vietnam e dell'assassinio del reverendo Martin Luther King). Nel 1972, basò invece la propria strategia elettorale nell'additare i democratici come una forza estremista, visto che quell'anno avevano conferito la nomination al senatore George McGovern (uno dei candidati più a sinistra che la storia americana ricordi). In entrambi i casi, per Nixon fu un successo. E, oggi, Trump vuole imitarlo. Anche perché, al di là dei suddetti slogan e del pugno duro promesso nel domare i disordini, l'attuale presidente sta anche attaccando Biden come troppo vicino alla "sinistra radicale". Un tipo di accusa, quest'ultima, che Trump sta del resto muovendo da mesi all'intero Partito democratico.E attenzione: perché il nixonismo di Trump non si ferma soltanto all'aspetto meramente "law and order". Per quanto accusato di razzismo dai suoi avversari, Nixon fu un presidente che si batté sotto svariati punti di vista contro la segregazione razziale (soprattutto nelle scuole). Ecco, nonostante si dica spesso superficialmente il contrario, Trump non ha alcuna intenzione di fomentare il razzismo verso gli afroamericani. Del resto, ha subito condannato l'uccisione di Floyd, dando inoltre ordine al Dipartimento di Giustizia e all'Fbi di fare chiarezza sull'accaduto. Senza poi trascurare che - come già ricordato - Trump non ha criticato le proteste ma i saccheggi e i vandalismi. Tra l'altro, se anche non si vuole credere alla buona fede del presidente, basterebbe ragionare in termini di mero calcolo elettorale. Trump sa bene che, per essere rieletto a novembre, non può fare affidamento esclusivamente sul voto dei bianchi. Per lui, incrementare il consenso tra le minoranze etniche è assolutamente fondamentale (soprattutto in aree come la Florida). È quindi esattamente in questo senso che, ormai da numerosi mesi, il comitato elettorale del presidente si è attivato per rafforzare il consenso tra afroamericani e ispanici (puntando soprattutto sul fronte del recente miglioramento delle loro condizioni socioeconomiche). La pretestuosità di chi accusa Trump di fomentare il razzismo è quindi smascherata dal fatto che, se così fosse, l'attuale inquilino della Casa Bianca danneggerebbe le proprie chances di riconferma a novembre. E di questo presidente si può dire tutto. Tranne che, come Nixon, non abbia fiuto elettorale.
Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
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Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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