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2020-06-03
Su Minneapolis Trump guarda a Richard Nixon
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Donald Trump (Ansa)
In un recente intervento a Filadelfia, Joe Biden (che ha quasi blindato matematicamente la nomination democratica) ha accusato Donald Trump di fomentare le divisioni razziali, oltre che di mancanza di leadership politica. «Il presidente Trump ha trasformato questo Paese in un campo di battaglia, devastato da vecchi risentimenti e nuove paure. Pensa che la divisione lo aiuti», ha detto Biden. "Il suo narcisismo è diventato più importante del benessere della nazione che guida". Il presidente, dal canto suo, ha ormai saldamente scelto la linea dura. Non soltanto ha invitato da giorni i governatori locali ad attivare la guardia nazionale, ma non ha neppure escluso di ricorrere all'invio dell'esercito. Del resto, è proprio la questione dell'esercito ad aver principalmente infiammato il dibattito elettorale. Biden ha non a caso accusato Trump di aver usato le forze armate per sgomberare pochi giorni fa l'area attorno alla Casa Bianca dai manifestanti. "Sta usando l'esercito americano contro il popolo americano", ha twittato martedì l'ex vicepresidente.
Il punto è che Biden si trova al momento in una posizione ambigua. Se a Filadelfia ha riconosciuto che si debba «distinguere tra legittima protesta pacifica e opportunistica distruzione violenta», dall'altra parte critica comunque la linea dura della Casa Bianca: tutto questo non fa che porre il candidato democratico in una contraddizione non indifferente. Se infatti ammette che - oltre alle proteste - si stanno verificando episodi di guerriglia illegittima, per quale ragione Trump non avrebbe il diritto di intervenire a salvaguardia dell'ordine pubblico? Il paradosso si spiega con l'eterogenea tipologia di elettorato a cui Biden sta cercando di appellarsi: da una parte, l'ex vicepresidente vorrebbe rassicurare le frange più moderate ma, dall'altra, teme di scontentare il bacino democratico più spostato a sinistra. Il risultato è una linea politica fondamentalmente strabica, che non è esattamente chiaro dove lo condurrà. Anche perché, a ben vedere, un ulteriore problema per Biden risiede nel fatto che Minneapolis - dove Floyd è stato ucciso durante un controllo di polizia - sia un città amministrata da sindaci democratici ininterrottamente dal 1978. Ricordiamo, a tal proposito, che il corpo di polizia di questa città abbia una storia trentennale di controversie e che, negli Stati Uniti, siano proprio i sindaci a nominare i vertici della polizia cittadina. Biden quindi deve fare anche i conti con l'inefficienza della classe dirigente, espressa dal suo partito a livello locale. Un problema che potrebbe rivelarglisi elettoralmente problematico soprattutto sul fronte delle minoranze etniche.
Trump, piaccia o meno, ha invece imboccato una linea più consequenziale. Durante un discorso tenuto lunedì alla Casa Bianca, il presidente ha nettamente distinto tra proteste legittime e facinorosi dediti a vandalismi e saccheggi. Ed è in tal senso che non ha escluso la possibilità di ricorrere alle forze armate. Un'ipotesi che, da più parti, è stata accolta con scetticismo e critica. Ma che, in realtà, rientra pienamente nei poteri presidenziali. Trump potrebbe infatti invocare l'Insurrection Act: una legge del 1807, che consente all'inquilino della Casa Bianca di schierare l'esercito all'interno degli Stati Uniti per domare sedizioni e sommosse. Si tratta di una norma che è stata talvolta usata nel corso della storia americana (l'ultima volta fu nel 1992) e che non ha necessariamente bisogno di una richiesta da parte dei governatori locali per essere applicata: Dwight Eisenhower (nel 1957) e John Kennedy (nel 1962) vi fecero per esempio ricorso contro la volontà dei governatori, nel pieno degli scontri sul segregazionismo. Non si capisce quindi per quale ragione, minacciare l'uso dell'esercito in caso di guerriglia e saccheggi, debba essere considerato da qualcuno un incitamento alla violenza.
Più in generale, è sempre più chiaro che il presidente stia seguendo una strategia elettorale ben precisa: una strategia, che si richiama esplicitamente a quella adottata con successo da Richard Nixon alle presidenziali del 1968 e del 1972. Non sarà un caso del resto che, negli ultimi giorni, Trump abbia spesso twittato classici slogan elettorali nixoniani come "law and order" e "silent majority". E, in tal senso, l'obiettivo dell'attuale presidente è esattamente questo: proporsi come il candidato baluardo dell'ordine, contro l'anarchia e l'estremismo politico della sinistra. Nel 1968, Nixon si presentò infatti efficacemente come colui che avrebbe frenato il caos delle proteste che, in quell'anno, stavano infiammando varie parti degli Stati Uniti (soprattutto a causa del Vietnam e dell'assassinio del reverendo Martin Luther King). Nel 1972, basò invece la propria strategia elettorale nell'additare i democratici come una forza estremista, visto che quell'anno avevano conferito la nomination al senatore George McGovern (uno dei candidati più a sinistra che la storia americana ricordi). In entrambi i casi, per Nixon fu un successo. E, oggi, Trump vuole imitarlo. Anche perché, al di là dei suddetti slogan e del pugno duro promesso nel domare i disordini, l'attuale presidente sta anche attaccando Biden come troppo vicino alla "sinistra radicale". Un tipo di accusa, quest'ultima, che Trump sta del resto muovendo da mesi all'intero Partito democratico.
E attenzione: perché il nixonismo di Trump non si ferma soltanto all'aspetto meramente "law and order". Per quanto accusato di razzismo dai suoi avversari, Nixon fu un presidente che si batté sotto svariati punti di vista contro la segregazione razziale (soprattutto nelle scuole). Ecco, nonostante si dica spesso superficialmente il contrario, Trump non ha alcuna intenzione di fomentare il razzismo verso gli afroamericani. Del resto, ha subito condannato l'uccisione di Floyd, dando inoltre ordine al Dipartimento di Giustizia e all'Fbi di fare chiarezza sull'accaduto. Senza poi trascurare che - come già ricordato - Trump non ha criticato le proteste ma i saccheggi e i vandalismi. Tra l'altro, se anche non si vuole credere alla buona fede del presidente, basterebbe ragionare in termini di mero calcolo elettorale. Trump sa bene che, per essere rieletto a novembre, non può fare affidamento esclusivamente sul voto dei bianchi. Per lui, incrementare il consenso tra le minoranze etniche è assolutamente fondamentale (soprattutto in aree come la Florida). È quindi esattamente in questo senso che, ormai da numerosi mesi, il comitato elettorale del presidente si è attivato per rafforzare il consenso tra afroamericani e ispanici (puntando soprattutto sul fronte del recente miglioramento delle loro condizioni socioeconomiche). La pretestuosità di chi accusa Trump di fomentare il razzismo è quindi smascherata dal fatto che, se così fosse, l'attuale inquilino della Casa Bianca danneggerebbe le proprie chances di riconferma a novembre. E di questo presidente si può dire tutto. Tranne che, come Nixon, non abbia fiuto elettorale.
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La morte di George Floyd sta ridisegnando le strategie elettorali dei due principali candidati alla Casa Bianca in vista delle elezioni di novembre. E, nel pieno dello scontro politico, si riaffaccia la figura di Richard Nixon.In un recente intervento a Filadelfia, Joe Biden (che ha quasi blindato matematicamente la nomination democratica) ha accusato Donald Trump di fomentare le divisioni razziali, oltre che di mancanza di leadership politica. «Il presidente Trump ha trasformato questo Paese in un campo di battaglia, devastato da vecchi risentimenti e nuove paure. Pensa che la divisione lo aiuti», ha detto Biden. "Il suo narcisismo è diventato più importante del benessere della nazione che guida". Il presidente, dal canto suo, ha ormai saldamente scelto la linea dura. Non soltanto ha invitato da giorni i governatori locali ad attivare la guardia nazionale, ma non ha neppure escluso di ricorrere all'invio dell'esercito. Del resto, è proprio la questione dell'esercito ad aver principalmente infiammato il dibattito elettorale. Biden ha non a caso accusato Trump di aver usato le forze armate per sgomberare pochi giorni fa l'area attorno alla Casa Bianca dai manifestanti. "Sta usando l'esercito americano contro il popolo americano", ha twittato martedì l'ex vicepresidente.Il punto è che Biden si trova al momento in una posizione ambigua. Se a Filadelfia ha riconosciuto che si debba «distinguere tra legittima protesta pacifica e opportunistica distruzione violenta», dall'altra parte critica comunque la linea dura della Casa Bianca: tutto questo non fa che porre il candidato democratico in una contraddizione non indifferente. Se infatti ammette che - oltre alle proteste - si stanno verificando episodi di guerriglia illegittima, per quale ragione Trump non avrebbe il diritto di intervenire a salvaguardia dell'ordine pubblico? Il paradosso si spiega con l'eterogenea tipologia di elettorato a cui Biden sta cercando di appellarsi: da una parte, l'ex vicepresidente vorrebbe rassicurare le frange più moderate ma, dall'altra, teme di scontentare il bacino democratico più spostato a sinistra. Il risultato è una linea politica fondamentalmente strabica, che non è esattamente chiaro dove lo condurrà. Anche perché, a ben vedere, un ulteriore problema per Biden risiede nel fatto che Minneapolis - dove Floyd è stato ucciso durante un controllo di polizia - sia un città amministrata da sindaci democratici ininterrottamente dal 1978. Ricordiamo, a tal proposito, che il corpo di polizia di questa città abbia una storia trentennale di controversie e che, negli Stati Uniti, siano proprio i sindaci a nominare i vertici della polizia cittadina. Biden quindi deve fare anche i conti con l'inefficienza della classe dirigente, espressa dal suo partito a livello locale. Un problema che potrebbe rivelarglisi elettoralmente problematico soprattutto sul fronte delle minoranze etniche.Trump, piaccia o meno, ha invece imboccato una linea più consequenziale. Durante un discorso tenuto lunedì alla Casa Bianca, il presidente ha nettamente distinto tra proteste legittime e facinorosi dediti a vandalismi e saccheggi. Ed è in tal senso che non ha escluso la possibilità di ricorrere alle forze armate. Un'ipotesi che, da più parti, è stata accolta con scetticismo e critica. Ma che, in realtà, rientra pienamente nei poteri presidenziali. Trump potrebbe infatti invocare l'Insurrection Act: una legge del 1807, che consente all'inquilino della Casa Bianca di schierare l'esercito all'interno degli Stati Uniti per domare sedizioni e sommosse. Si tratta di una norma che è stata talvolta usata nel corso della storia americana (l'ultima volta fu nel 1992) e che non ha necessariamente bisogno di una richiesta da parte dei governatori locali per essere applicata: Dwight Eisenhower (nel 1957) e John Kennedy (nel 1962) vi fecero per esempio ricorso contro la volontà dei governatori, nel pieno degli scontri sul segregazionismo. Non si capisce quindi per quale ragione, minacciare l'uso dell'esercito in caso di guerriglia e saccheggi, debba essere considerato da qualcuno un incitamento alla violenza.Più in generale, è sempre più chiaro che il presidente stia seguendo una strategia elettorale ben precisa: una strategia, che si richiama esplicitamente a quella adottata con successo da Richard Nixon alle presidenziali del 1968 e del 1972. Non sarà un caso del resto che, negli ultimi giorni, Trump abbia spesso twittato classici slogan elettorali nixoniani come "law and order" e "silent majority". E, in tal senso, l'obiettivo dell'attuale presidente è esattamente questo: proporsi come il candidato baluardo dell'ordine, contro l'anarchia e l'estremismo politico della sinistra. Nel 1968, Nixon si presentò infatti efficacemente come colui che avrebbe frenato il caos delle proteste che, in quell'anno, stavano infiammando varie parti degli Stati Uniti (soprattutto a causa del Vietnam e dell'assassinio del reverendo Martin Luther King). Nel 1972, basò invece la propria strategia elettorale nell'additare i democratici come una forza estremista, visto che quell'anno avevano conferito la nomination al senatore George McGovern (uno dei candidati più a sinistra che la storia americana ricordi). In entrambi i casi, per Nixon fu un successo. E, oggi, Trump vuole imitarlo. Anche perché, al di là dei suddetti slogan e del pugno duro promesso nel domare i disordini, l'attuale presidente sta anche attaccando Biden come troppo vicino alla "sinistra radicale". Un tipo di accusa, quest'ultima, che Trump sta del resto muovendo da mesi all'intero Partito democratico.E attenzione: perché il nixonismo di Trump non si ferma soltanto all'aspetto meramente "law and order". Per quanto accusato di razzismo dai suoi avversari, Nixon fu un presidente che si batté sotto svariati punti di vista contro la segregazione razziale (soprattutto nelle scuole). Ecco, nonostante si dica spesso superficialmente il contrario, Trump non ha alcuna intenzione di fomentare il razzismo verso gli afroamericani. Del resto, ha subito condannato l'uccisione di Floyd, dando inoltre ordine al Dipartimento di Giustizia e all'Fbi di fare chiarezza sull'accaduto. Senza poi trascurare che - come già ricordato - Trump non ha criticato le proteste ma i saccheggi e i vandalismi. Tra l'altro, se anche non si vuole credere alla buona fede del presidente, basterebbe ragionare in termini di mero calcolo elettorale. Trump sa bene che, per essere rieletto a novembre, non può fare affidamento esclusivamente sul voto dei bianchi. Per lui, incrementare il consenso tra le minoranze etniche è assolutamente fondamentale (soprattutto in aree come la Florida). È quindi esattamente in questo senso che, ormai da numerosi mesi, il comitato elettorale del presidente si è attivato per rafforzare il consenso tra afroamericani e ispanici (puntando soprattutto sul fronte del recente miglioramento delle loro condizioni socioeconomiche). La pretestuosità di chi accusa Trump di fomentare il razzismo è quindi smascherata dal fatto che, se così fosse, l'attuale inquilino della Casa Bianca danneggerebbe le proprie chances di riconferma a novembre. E di questo presidente si può dire tutto. Tranne che, come Nixon, non abbia fiuto elettorale.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
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