2020-06-05
Su Floyd la sinistra Usa perde la testa. Adesso abbatterà le statue «sudiste»
John Lamparski/SOPA Images/LightRocket via Getty Images
Mentre tutti gli agenti coinvolti nella morte dell'afroamericano sono stati arrestati, i governatori democratici vogliono cancellare i simboli del generale Lee. Joe Biden farà passerella «funebre». Saccheggi, più di 10.000 fermi.Obamagate, per i dem si mette male. La Commissione per la Sicurezza interna del Senato convocherà gli ex funzionari implicati. Tra questi anche l'ex ambasciatore a Roma John Phillips, vicinissimo a Matteo Renzi. La politica americana continua a spaccarsi sul caso di George Floyd, l'afroamericano ucciso durante un controllo di polizia la scorsa settimana. Ieri, a Minneapolis, si è tenuta una prima commemorazione funebre in suo onore. Altre commemorazioni sono state fissate, nei prossimi giorni, a Raeford (in North Carolina) e a Houston (in Texas), dove - lunedì - è prevista la partecipazione del (probabile) candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden. La vicenda Floyd ha del resto fatto da tempo irruzione nella campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre. Sia l'ex vicepresidente che Donald Trump hanno riconosciuto la legittimità delle manifestazioni pacifiche. Su tutto il resto, i due tuttavia divergono. E Biden sta tenendo una posizione invero poco chiara. Da una parte, ha criticato i saccheggi e i vandalismi, ma - dall'altra - ha attaccato Trump per aver invocato la linea dura, ventilando l'ipotesi di ricorrere all'esercito. Il paradosso si spiega con il fatto che l'ex vicepresidente stia cercando di non scontentare tanto i moderati quanto la sinistra più radicale: un'esigenza che lo ha tuttavia condotto su una posizione di profondo strabismo politico. Tra l'altro, l'imbarazzo di Biden è dettato anche dal fatto che Minneapolis abbia sindaci democratici dal 1978: sindaci che sono responsabili delle nomine dei vertici di una polizia cittadina che ha alle spalle una storia trentennale di controversie e denunce. Polemiche sulla linea dura invocata da Trump sono arrivate anche dall'attuale capo del Pentagono, Mark Esper, che si è espresso contro l'ipotesi di ricorrere all'esercito per sedare i saccheggi. Ancora più duro si è rivelato l'ex segretario alla Difesa, James Mattis, che ha accusato il presidente di violare i diritti costituzionali dei cittadini americani, contestandogli la possibilità dell'uso delle forze militari. Tesi un po' azzardata, visto che la Casa Bianca è autorizzata a invocare l'Insurrection act: una legge federale del 1807, che consente al presidente - in caso di sedizione - di utilizzare l'esercito all'interno dei confini degli Stati Uniti. Una legge che, per inciso, è stata applicata due volte da George H. W. Bush, quattro volte da Lyndon Johnson, due volte da John Kennedy e una da Dwight Eisenhower. Senza poi dimenticare che, nel caso di Kennedy e Eisenhower, fu invocata contro il parere dei governatori locali interessati. Ragion per cui - contrariamente a quanto asserito da Mattis - il presidente non è obbligato ad attendere la richiesta dei governatori per inviare eventualmente truppe sul territorio. Tutto questo, mentre il ministro della Giustizia, William Barr, ha contemporaneamente condannato la brutalità di cui è rimasto vittima Floyd e la violenza dei saccheggi in corso. Ieri, l'Associated Press ha frattanto riportato che, in tutto il Paese, il numero degli arresti ha superato la soglia dei 10.000: Los Angeles risulta la città più colpita, seguita da New York, Dallas e Filadelfia. Molti dei fermati sono accusati di violazione del coprifuoco, ma si contano anche centinaia di arresti per saccheggio e furto con scasso. In tutto questo, la filiale sudcaliforniana dell'American civil liberties union ha intentato una causa a nome dell'organizzazione Black Lives Matter per il coprifuoco «draconiano», istituito nelle città di Los Angeles e San Bernadino. Ricordiamo, per inciso, che l'American civil liberties union intrattenga storici legami con il miliardario, George Soros, il quale - come ricordato due anni fa dal Los Angeles Times - le fornì 50 milioni di dollari nel 2014 per progetti sul sistema giudiziario penale. In tutto questo, non dimentichiamo neppure che, negli ultimi cinque giorni, svariate autorità locali abbiano parlato di «outsider» facinorosi nel mezzo delle manifestazioni: in tal senso, si sono per esempio espressi il procuratore generale del Minnesota, il democratico Keith Ellison, e il sindaco di Dallas, l'altrettanto democratico Eric Johnson. Al Congresso intanto è partito il dibattito per limitare le violenze della polizia. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il senatore repubblicano, Chuck Grassley, hanno sostenuto nelle scorse ore la necessità di intervenire sulla questione, mentre Biden ha invocato una legge che vieti il ricorso alla «stretta al collo»: la brutale pratica di cui è stato vittima Floyd. Come tuttavia notava ieri Politico, sono anni che riforme di questo tipo restano fondamentalmente bloccate al Campidoglio, per l'incapacità di trovare un accordo tra i partiti. Pare comunque che tornerà adesso in discussione alla Camera una proposta di legge, avanzata nel 2019 dal deputato democratico Hakeem Jeffries, che ha l'obiettivo di mettere fuori legge proprio la pratica della «stretta al collo». Nelle scorse ore, tutti gli agenti coinvolti nella morte di Floyd sono intanto stati arrestati e, nel frattempo, è ripreso il dibattito sulle statue confederate, con il governatore della Virginia, il democratico Ralph Northam, che ha dichiarato ieri di voler rimuovere il monumento dedicato al generale Lee nella città di Richmond. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/su-floyd-la-sinistra-usa-perde-la-testa-adesso-abbattera-le-statue-sudiste-2646153639.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="obamagate-per-i-dem-si-mette-male" data-post-id="2646153639" data-published-at="1591295825" data-use-pagination="False"> Obamagate, per i dem si mette male Le nubi di Obamagate rischiano di addensarsi su Roma. Il Senato americano si prepara ad accendere i riflettori su John Phillips: ambasciatore americano in Italia dal 2013 al 2017. La commissione per la Sicurezza interna ha concesso ieri al suo presidente, Ron Johnson, la facoltà di emettere ordini di comparizione per quei funzionari dell'amministrazione Obama che chiesero di svelare il nome di Mike Flynn nelle conversazioni intercettate, in cui era rimasto coinvolto. Nei giorni scorsi, Cnn aveva diffuso la lista dei soggetti interessati: una lista che include 35 nomi e -tra questi-quello di Phillips: figura all'epoca molto vicina a Matteo Renzi, tanto da dargli il proprio endorsement in occasione del referendum costituzionale del 2016. Tra i nomi spunta poi anche quello di Kelly Degnan, ex vice capo missione all'ambasciata di Roma. Ulteriori figure dell'era Obama messe sotto esame dalla commissione sono - tra gli altri - l'ex capo della Cia, John Brennan, l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice, l'ex Director of national intelligence, James Clapper, e l'ex direttore dell'Fbi, James Comey. Del resto, Phillips e la Degnan comparivano nell'elenco, pubblicato a maggio, dei funzionari che avevano chiesto il disvelamento del nome di Flynn: un fattore che, già all'epoca, aveva stabilito una controversa connessione tra il caso Russiagate e il nostro Paese. E adesso il fatto che entrambi i diplomatici potranno essere chiamati a deporre al Senato lascia aperta l'ipotesi che possa emergere un coinvolgimento di Roma nelle sempre più opache origini dell'inchiesta russa. Senza poi dimenticare che, sul disvelamento del nome di Flynn, sta intanto indagando anche il procuratore John Bash, per conto del Dipartimento di Giustizia. Nel frattempo, il lato repubblicano del Russiagate inizia ad avere i suoi problemi. Mercoledì, la commissione giudiziaria del Senato ha interrogato l'ex viceministro della Giustizia di Trump: quel Rod Rosenstein che, nel maggio 2017, aveva nominato Robert Mueller come procuratore speciale per il Russiagate. Ebbene, pur difendendo quella nomina, Rosenstein ha ammesso che nell'indagine dell'Fbi sulla Russia si sia verificata una cattiva gestione, aggiungendo che non avrebbe firmato una richiesta di rinnovo del mandato di sorveglianza per Carter Page (all'epoca consigliere di Trump), se avesse saputo delle irregolarità commesse dal Bureau nell'ottenere quel mandato: irregolarità appurate a dicembre dall'ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz. È emerso di recente tra l'altro che Rosenstein avesse conferito ampio potere a Mueller, includendo indagini approfondite sul comitato elettorale di Trump. Tutto questo, nonostante - per sua stessa ammissione- evidenze di collusione con i russi non ce ne fossero: evidenze che anche le alte sfere dell'amministrazione Obama negarono di possedere, nel corso di audizioni alla Camera tra il 2017 e il 2018. Vale forse la pena ricordare che Rosenstein iniziò la sua carriera come procuratore distrettuale del Maryland su nomina di George W. Bush. E legati all'ex presidente repubblicano sono anche molti degli alti funzionari di Obama coinvolti nel Russiagate: Bush jr ebbe Comey come viceministro della Giustizia, Clapper come sottosegretario alla Difesa e Mueller come direttore dell'Fbi. Senza infine dimenticare che, nel 2016, i Bush condividevano con Obama la medesima avversione per l'ascesa politica di Trump. Oltre che su Roma, Obamagate rischia insomma di abbattersi anche sul mondo repubblicano dei Never Trump.