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2020-06-05
Su Floyd la sinistra Usa perde la testa. Adesso abbatterà le statue «sudiste»
John Lamparski/SOPA Images/LightRocket via Getty Images
La politica americana continua a spaccarsi sul caso di George Floyd, l'afroamericano ucciso durante un controllo di polizia la scorsa settimana. Ieri, a Minneapolis, si è tenuta una prima commemorazione funebre in suo onore. Altre commemorazioni sono state fissate, nei prossimi giorni, a Raeford (in North Carolina) e a Houston (in Texas), dove - lunedì - è prevista la partecipazione del (probabile) candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden. La vicenda Floyd ha del resto fatto da tempo irruzione nella campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre. Sia l'ex vicepresidente che Donald Trump hanno riconosciuto la legittimità delle manifestazioni pacifiche. Su tutto il resto, i due tuttavia divergono. E Biden sta tenendo una posizione invero poco chiara. Da una parte, ha criticato i saccheggi e i vandalismi, ma - dall'altra - ha attaccato Trump per aver invocato la linea dura, ventilando l'ipotesi di ricorrere all'esercito. Il paradosso si spiega con il fatto che l'ex vicepresidente stia cercando di non scontentare tanto i moderati quanto la sinistra più radicale: un'esigenza che lo ha tuttavia condotto su una posizione di profondo strabismo politico. Tra l'altro, l'imbarazzo di Biden è dettato anche dal fatto che Minneapolis abbia sindaci democratici dal 1978: sindaci che sono responsabili delle nomine dei vertici di una polizia cittadina che ha alle spalle una storia trentennale di controversie e denunce.
Polemiche sulla linea dura invocata da Trump sono arrivate anche dall'attuale capo del Pentagono, Mark Esper, che si è espresso contro l'ipotesi di ricorrere all'esercito per sedare i saccheggi. Ancora più duro si è rivelato l'ex segretario alla Difesa, James Mattis, che ha accusato il presidente di violare i diritti costituzionali dei cittadini americani, contestandogli la possibilità dell'uso delle forze militari. Tesi un po' azzardata, visto che la Casa Bianca è autorizzata a invocare l'Insurrection act: una legge federale del 1807, che consente al presidente - in caso di sedizione - di utilizzare l'esercito all'interno dei confini degli Stati Uniti. Una legge che, per inciso, è stata applicata due volte da George H. W. Bush, quattro volte da Lyndon Johnson, due volte da John Kennedy e una da Dwight Eisenhower. Senza poi dimenticare che, nel caso di Kennedy e Eisenhower, fu invocata contro il parere dei governatori locali interessati. Ragion per cui - contrariamente a quanto asserito da Mattis - il presidente non è obbligato ad attendere la richiesta dei governatori per inviare eventualmente truppe sul territorio. Tutto questo, mentre il ministro della Giustizia, William Barr, ha contemporaneamente condannato la brutalità di cui è rimasto vittima Floyd e la violenza dei saccheggi in corso.
Ieri, l'Associated Press ha frattanto riportato che, in tutto il Paese, il numero degli arresti ha superato la soglia dei 10.000: Los Angeles risulta la città più colpita, seguita da New York, Dallas e Filadelfia. Molti dei fermati sono accusati di violazione del coprifuoco, ma si contano anche centinaia di arresti per saccheggio e furto con scasso. In tutto questo, la filiale sudcaliforniana dell'American civil liberties union ha intentato una causa a nome dell'organizzazione Black Lives Matter per il coprifuoco «draconiano», istituito nelle città di Los Angeles e San Bernadino. Ricordiamo, per inciso, che l'American civil liberties union intrattenga storici legami con il miliardario, George Soros, il quale - come ricordato due anni fa dal Los Angeles Times - le fornì 50 milioni di dollari nel 2014 per progetti sul sistema giudiziario penale. In tutto questo, non dimentichiamo neppure che, negli ultimi cinque giorni, svariate autorità locali abbiano parlato di «outsider» facinorosi nel mezzo delle manifestazioni: in tal senso, si sono per esempio espressi il procuratore generale del Minnesota, il democratico Keith Ellison, e il sindaco di Dallas, l'altrettanto democratico Eric Johnson.
Al Congresso intanto è partito il dibattito per limitare le violenze della polizia. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il senatore repubblicano, Chuck Grassley, hanno sostenuto nelle scorse ore la necessità di intervenire sulla questione, mentre Biden ha invocato una legge che vieti il ricorso alla «stretta al collo»: la brutale pratica di cui è stato vittima Floyd. Come tuttavia notava ieri Politico, sono anni che riforme di questo tipo restano fondamentalmente bloccate al Campidoglio, per l'incapacità di trovare un accordo tra i partiti. Pare comunque che tornerà adesso in discussione alla Camera una proposta di legge, avanzata nel 2019 dal deputato democratico Hakeem Jeffries, che ha l'obiettivo di mettere fuori legge proprio la pratica della «stretta al collo». Nelle scorse ore, tutti gli agenti coinvolti nella morte di Floyd sono intanto stati arrestati e, nel frattempo, è ripreso il dibattito sulle statue confederate, con il governatore della Virginia, il democratico Ralph Northam, che ha dichiarato ieri di voler rimuovere il monumento dedicato al generale Lee nella città di Richmond.
Obamagate, per i dem si mette male
Le nubi di Obamagate rischiano di addensarsi su Roma. Il Senato americano si prepara ad accendere i riflettori su John Phillips: ambasciatore americano in Italia dal 2013 al 2017. La commissione per la Sicurezza interna ha concesso ieri al suo presidente, Ron Johnson, la facoltà di emettere ordini di comparizione per quei funzionari dell'amministrazione Obama che chiesero di svelare il nome di Mike Flynn nelle conversazioni intercettate, in cui era rimasto coinvolto. Nei giorni scorsi, Cnn aveva diffuso la lista dei soggetti interessati: una lista che include 35 nomi e -tra questi-quello di Phillips: figura all'epoca molto vicina a Matteo Renzi, tanto da dargli il proprio endorsement in occasione del referendum costituzionale del 2016. Tra i nomi spunta poi anche quello di Kelly Degnan, ex vice capo missione all'ambasciata di Roma. Ulteriori figure dell'era Obama messe sotto esame dalla commissione sono - tra gli altri - l'ex capo della Cia, John Brennan, l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice, l'ex Director of national intelligence, James Clapper, e l'ex direttore dell'Fbi, James Comey. Del resto, Phillips e la Degnan comparivano nell'elenco, pubblicato a maggio, dei funzionari che avevano chiesto il disvelamento del nome di Flynn: un fattore che, già all'epoca, aveva stabilito una controversa connessione tra il caso Russiagate e il nostro Paese. E adesso il fatto che entrambi i diplomatici potranno essere chiamati a deporre al Senato lascia aperta l'ipotesi che possa emergere un coinvolgimento di Roma nelle sempre più opache origini dell'inchiesta russa. Senza poi dimenticare che, sul disvelamento del nome di Flynn, sta intanto indagando anche il procuratore John Bash, per conto del Dipartimento di Giustizia.
Nel frattempo, il lato repubblicano del Russiagate inizia ad avere i suoi problemi. Mercoledì, la commissione giudiziaria del Senato ha interrogato l'ex viceministro della Giustizia di Trump: quel Rod Rosenstein che, nel maggio 2017, aveva nominato Robert Mueller come procuratore speciale per il Russiagate. Ebbene, pur difendendo quella nomina, Rosenstein ha ammesso che nell'indagine dell'Fbi sulla Russia si sia verificata una cattiva gestione, aggiungendo che non avrebbe firmato una richiesta di rinnovo del mandato di sorveglianza per Carter Page (all'epoca consigliere di Trump), se avesse saputo delle irregolarità commesse dal Bureau nell'ottenere quel mandato: irregolarità appurate a dicembre dall'ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz. È emerso di recente tra l'altro che Rosenstein avesse conferito ampio potere a Mueller, includendo indagini approfondite sul comitato elettorale di Trump. Tutto questo, nonostante - per sua stessa ammissione- evidenze di collusione con i russi non ce ne fossero: evidenze che anche le alte sfere dell'amministrazione Obama negarono di possedere, nel corso di audizioni alla Camera tra il 2017 e il 2018. Vale forse la pena ricordare che Rosenstein iniziò la sua carriera come procuratore distrettuale del Maryland su nomina di George W. Bush. E legati all'ex presidente repubblicano sono anche molti degli alti funzionari di Obama coinvolti nel Russiagate: Bush jr ebbe Comey come viceministro della Giustizia, Clapper come sottosegretario alla Difesa e Mueller come direttore dell'Fbi. Senza infine dimenticare che, nel 2016, i Bush condividevano con Obama la medesima avversione per l'ascesa politica di Trump. Oltre che su Roma, Obamagate rischia insomma di abbattersi anche sul mondo repubblicano dei Never Trump.
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Mentre tutti gli agenti coinvolti nella morte dell'afroamericano sono stati arrestati, i governatori democratici vogliono cancellare i simboli del generale Lee. Joe Biden farà passerella «funebre». Saccheggi, più di 10.000 fermi.Obamagate, per i dem si mette male. La Commissione per la Sicurezza interna del Senato convocherà gli ex funzionari implicati. Tra questi anche l'ex ambasciatore a Roma John Phillips, vicinissimo a Matteo Renzi. La politica americana continua a spaccarsi sul caso di George Floyd, l'afroamericano ucciso durante un controllo di polizia la scorsa settimana. Ieri, a Minneapolis, si è tenuta una prima commemorazione funebre in suo onore. Altre commemorazioni sono state fissate, nei prossimi giorni, a Raeford (in North Carolina) e a Houston (in Texas), dove - lunedì - è prevista la partecipazione del (probabile) candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden. La vicenda Floyd ha del resto fatto da tempo irruzione nella campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre. Sia l'ex vicepresidente che Donald Trump hanno riconosciuto la legittimità delle manifestazioni pacifiche. Su tutto il resto, i due tuttavia divergono. E Biden sta tenendo una posizione invero poco chiara. Da una parte, ha criticato i saccheggi e i vandalismi, ma - dall'altra - ha attaccato Trump per aver invocato la linea dura, ventilando l'ipotesi di ricorrere all'esercito. Il paradosso si spiega con il fatto che l'ex vicepresidente stia cercando di non scontentare tanto i moderati quanto la sinistra più radicale: un'esigenza che lo ha tuttavia condotto su una posizione di profondo strabismo politico. Tra l'altro, l'imbarazzo di Biden è dettato anche dal fatto che Minneapolis abbia sindaci democratici dal 1978: sindaci che sono responsabili delle nomine dei vertici di una polizia cittadina che ha alle spalle una storia trentennale di controversie e denunce. Polemiche sulla linea dura invocata da Trump sono arrivate anche dall'attuale capo del Pentagono, Mark Esper, che si è espresso contro l'ipotesi di ricorrere all'esercito per sedare i saccheggi. Ancora più duro si è rivelato l'ex segretario alla Difesa, James Mattis, che ha accusato il presidente di violare i diritti costituzionali dei cittadini americani, contestandogli la possibilità dell'uso delle forze militari. Tesi un po' azzardata, visto che la Casa Bianca è autorizzata a invocare l'Insurrection act: una legge federale del 1807, che consente al presidente - in caso di sedizione - di utilizzare l'esercito all'interno dei confini degli Stati Uniti. Una legge che, per inciso, è stata applicata due volte da George H. W. Bush, quattro volte da Lyndon Johnson, due volte da John Kennedy e una da Dwight Eisenhower. Senza poi dimenticare che, nel caso di Kennedy e Eisenhower, fu invocata contro il parere dei governatori locali interessati. Ragion per cui - contrariamente a quanto asserito da Mattis - il presidente non è obbligato ad attendere la richiesta dei governatori per inviare eventualmente truppe sul territorio. Tutto questo, mentre il ministro della Giustizia, William Barr, ha contemporaneamente condannato la brutalità di cui è rimasto vittima Floyd e la violenza dei saccheggi in corso. Ieri, l'Associated Press ha frattanto riportato che, in tutto il Paese, il numero degli arresti ha superato la soglia dei 10.000: Los Angeles risulta la città più colpita, seguita da New York, Dallas e Filadelfia. Molti dei fermati sono accusati di violazione del coprifuoco, ma si contano anche centinaia di arresti per saccheggio e furto con scasso. In tutto questo, la filiale sudcaliforniana dell'American civil liberties union ha intentato una causa a nome dell'organizzazione Black Lives Matter per il coprifuoco «draconiano», istituito nelle città di Los Angeles e San Bernadino. Ricordiamo, per inciso, che l'American civil liberties union intrattenga storici legami con il miliardario, George Soros, il quale - come ricordato due anni fa dal Los Angeles Times - le fornì 50 milioni di dollari nel 2014 per progetti sul sistema giudiziario penale. In tutto questo, non dimentichiamo neppure che, negli ultimi cinque giorni, svariate autorità locali abbiano parlato di «outsider» facinorosi nel mezzo delle manifestazioni: in tal senso, si sono per esempio espressi il procuratore generale del Minnesota, il democratico Keith Ellison, e il sindaco di Dallas, l'altrettanto democratico Eric Johnson. Al Congresso intanto è partito il dibattito per limitare le violenze della polizia. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il senatore repubblicano, Chuck Grassley, hanno sostenuto nelle scorse ore la necessità di intervenire sulla questione, mentre Biden ha invocato una legge che vieti il ricorso alla «stretta al collo»: la brutale pratica di cui è stato vittima Floyd. Come tuttavia notava ieri Politico, sono anni che riforme di questo tipo restano fondamentalmente bloccate al Campidoglio, per l'incapacità di trovare un accordo tra i partiti. Pare comunque che tornerà adesso in discussione alla Camera una proposta di legge, avanzata nel 2019 dal deputato democratico Hakeem Jeffries, che ha l'obiettivo di mettere fuori legge proprio la pratica della «stretta al collo». Nelle scorse ore, tutti gli agenti coinvolti nella morte di Floyd sono intanto stati arrestati e, nel frattempo, è ripreso il dibattito sulle statue confederate, con il governatore della Virginia, il democratico Ralph Northam, che ha dichiarato ieri di voler rimuovere il monumento dedicato al generale Lee nella città di Richmond. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/su-floyd-la-sinistra-usa-perde-la-testa-adesso-abbattera-le-statue-sudiste-2646153639.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="obamagate-per-i-dem-si-mette-male" data-post-id="2646153639" data-published-at="1591295825" data-use-pagination="False"> Obamagate, per i dem si mette male Le nubi di Obamagate rischiano di addensarsi su Roma. Il Senato americano si prepara ad accendere i riflettori su John Phillips: ambasciatore americano in Italia dal 2013 al 2017. La commissione per la Sicurezza interna ha concesso ieri al suo presidente, Ron Johnson, la facoltà di emettere ordini di comparizione per quei funzionari dell'amministrazione Obama che chiesero di svelare il nome di Mike Flynn nelle conversazioni intercettate, in cui era rimasto coinvolto. Nei giorni scorsi, Cnn aveva diffuso la lista dei soggetti interessati: una lista che include 35 nomi e -tra questi-quello di Phillips: figura all'epoca molto vicina a Matteo Renzi, tanto da dargli il proprio endorsement in occasione del referendum costituzionale del 2016. Tra i nomi spunta poi anche quello di Kelly Degnan, ex vice capo missione all'ambasciata di Roma. Ulteriori figure dell'era Obama messe sotto esame dalla commissione sono - tra gli altri - l'ex capo della Cia, John Brennan, l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice, l'ex Director of national intelligence, James Clapper, e l'ex direttore dell'Fbi, James Comey. Del resto, Phillips e la Degnan comparivano nell'elenco, pubblicato a maggio, dei funzionari che avevano chiesto il disvelamento del nome di Flynn: un fattore che, già all'epoca, aveva stabilito una controversa connessione tra il caso Russiagate e il nostro Paese. E adesso il fatto che entrambi i diplomatici potranno essere chiamati a deporre al Senato lascia aperta l'ipotesi che possa emergere un coinvolgimento di Roma nelle sempre più opache origini dell'inchiesta russa. Senza poi dimenticare che, sul disvelamento del nome di Flynn, sta intanto indagando anche il procuratore John Bash, per conto del Dipartimento di Giustizia. Nel frattempo, il lato repubblicano del Russiagate inizia ad avere i suoi problemi. Mercoledì, la commissione giudiziaria del Senato ha interrogato l'ex viceministro della Giustizia di Trump: quel Rod Rosenstein che, nel maggio 2017, aveva nominato Robert Mueller come procuratore speciale per il Russiagate. Ebbene, pur difendendo quella nomina, Rosenstein ha ammesso che nell'indagine dell'Fbi sulla Russia si sia verificata una cattiva gestione, aggiungendo che non avrebbe firmato una richiesta di rinnovo del mandato di sorveglianza per Carter Page (all'epoca consigliere di Trump), se avesse saputo delle irregolarità commesse dal Bureau nell'ottenere quel mandato: irregolarità appurate a dicembre dall'ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz. È emerso di recente tra l'altro che Rosenstein avesse conferito ampio potere a Mueller, includendo indagini approfondite sul comitato elettorale di Trump. Tutto questo, nonostante - per sua stessa ammissione- evidenze di collusione con i russi non ce ne fossero: evidenze che anche le alte sfere dell'amministrazione Obama negarono di possedere, nel corso di audizioni alla Camera tra il 2017 e il 2018. Vale forse la pena ricordare che Rosenstein iniziò la sua carriera come procuratore distrettuale del Maryland su nomina di George W. Bush. E legati all'ex presidente repubblicano sono anche molti degli alti funzionari di Obama coinvolti nel Russiagate: Bush jr ebbe Comey come viceministro della Giustizia, Clapper come sottosegretario alla Difesa e Mueller come direttore dell'Fbi. Senza infine dimenticare che, nel 2016, i Bush condividevano con Obama la medesima avversione per l'ascesa politica di Trump. Oltre che su Roma, Obamagate rischia insomma di abbattersi anche sul mondo repubblicano dei Never Trump.
(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare di Fratelli d'Italia durante un'intervista a margine dell’evento «Con coraggio e libertà», dedicato alla figura del giornalista e reporter di guerra Almerigo Grilz.