2018-04-13
Su Alfie i medici sbagliano. La vita non è mai inutile quando un bambino è amato
La sentenza di morte dei medici di Londra è ingiusta: non c'è una diagnosi chiara e il piccino interagisce con i genitori. Ma eliminare chi sta male è un costo in meno.Non capisco assolutamente niente di medicina, non ho pareri sui vaccini (eseguo quel che dice la mia pediatra, per la quale chiedo la canonizzazione), non ho ansie di sorta, spedisco la mia prole a muoversi all'aperto - meglio se sotto la pioggia - come forma di terapia per qualsiasi malessere, dall'alluce valgo alla varicella, e ogni volta devo ripassare i foglietti dell'antipiretico perché non mi ricordo quale devo dare a quale figlio, a parte che chi si ricorda quanto pesano? (L'ultima volta che l'ho saputo era sulla bilancina della pediatra, adesso alcuni hanno il 44 di piede). Ho perciò adottato questa linea programmatica: scelgo un medico, uno solo, che mi sembri bravo e mi affido a lui, perché penso che la medicina sia una cosa molto seria, e che i medici fai da te siano pericolosi, o almeno ridicoli. Scusate la premessa, forse fuori luogo: era per dire che faccio fatica a credere che io, che noi profani, possiamo avere un'opinione minimamente sensata quando contestiamo dei medici. Eppure sto cominciando a pensare che sì, i medici possono sbagliare, e totalmente. Me ne sono convinta definitivamente quando ho letto la sentenza di morte del piccolo Alfie Evans, 2 anni, ricoverato per una malattia ancora non diagnosticata, e la cui vita è stata giudicata «inutile». Per questo a brevissimo, in un momento che il giudice ha vietato ai genitori di render noto pubblicamente, ad Alfie verrà staccato il respiratore. Allora, chiariamo: innanzitutto «vita inutile» è un ossimoro. Nessuna vita è inutile, o meglio, tutte lo sono. Perché una vita non è utile a niente, l'unica cosa che le dà valore è una relazione con un altro, e se è per questo la vita di Alfie è utilissima, è amato dai suoi giovanissimi genitori, è sostenuto da migliaia di persone nel mondo, anche il Papa segue la sua vicenda. Immagino che la vita di Alfie, dunque, sia probabilmente più utile di quella del giudice che ha deciso che deve morire.Ho sempre paura di finire nelle fila degli invasati, degli estremisti; so bene che nella medicina di oggi, super progredita, esiste sempre il rischio di accanimento terapeutico, cioè di portare troppo avanti le cure fino a farle diventare una sofferenza per il malato. So, come dicevo nella premessa, di non sapere nulla di medicina, ma in questo caso le cose sono davvero poco chiare, e nel dubbio, perché qui c'è più di qualche dubbio, è indispensabile che a questo bambino non venga staccato il respiratore: non c'è una diagnosi chiara, ancora; il bambino, anche se sedato, pesantemente continua a interagire con i genitori, e ci sono molti medici autorevolissimi che dicono che tenere attaccato il respiratore non è affatto accanimento terapeutico, ma semplicemente cura. Tra questi il professore di biochimica e biochimica clinica della Cattolica, Roberto Colombo, stimatissimo a livello mondiale. Tra questi i medici del Bambin Gesù, non proprio l'ultimo ospedale della terra, pronti ad accoglierlo. Perché Alfie non guarirà, quasi certamente, ma non per questo non ha diritto a essere accompagnato fino alla fine naturale della sua vita: la cura non finisce sempre con la guarigione, anzi non lo fa mai - siamo tutti malati di una malattia mortale, la vita - ma serve a farci vivere finché sarà possibile. Nei giorni scorsi i giornali hanno presentato pesanti dossier sull'ospedale nel quale il bambino è ricoverato, l'Alder Hey Hospital di Liverpool. Sebbene credo che l'errore umano sia inevitabile in tutti i campi, medicina compresa, in questo caso non si tratta solo di bambini uccisi per errore ma anche, leggo, di traffico di organi espiantati senza informarne i genitori dei piccoli pazienti morti. Leggo delle negligenze che ci sono state nel curare questo bambino, leggo delle mancanze anche solo nel semplice accudimento e nell'igiene (tubi per la respirazione ammuffiti perché sostituiti troppo di rado), leggo dei dubbi che altri medici sollevano sulla vicenda. Leggo di un ospedale che praticamente tiene in ostaggio un bambino sottraendolo ai suoi genitori, che anche se hanno trovato altre strutture pronte ad accoglierlo e possono pagare per il trasferimento, immagino grazie a una colletta, saranno costretti a guardare il loro bambino morire sotto i loro occhi senza poterlo portare via. Allora penso che questa è una battaglia che vale la pena di combattere.Perché qui in gioco c'è la libertà dei genitori, o comunque dei familiari di un malato: che paura l'idea che dal momento in cui ti ricoveri l'ospedale avrà l'ultima parola sul tuo best interest, come dice la sentenza, cioè sul tuo «miglior interesse a morire piuttosto che a vivere», sul tuo o su quello dei tuoi cari, prospettiva ancora più agghiacciante almeno per me. (Non per niente i genitori avevano chiesto asilo politico in Vaticano). Ma soprattutto in gioco c'è l'idea che si possa giudicare una vita, se sia degna o meno, se sia utile o meno, se si possa vivere o meno. La trovo una china pericolosissima, e chissà quante persone sono già morte per questa idea, perché la loro vita non è stata trovata «utile». Perché c'è un fatto: eliminare costa molto meno che mantenere in vita, e se c'è un vecchio per cui nessuno combatte, un bambino i cui genitori si lasciano sopraffare dalla quantità di energie – emotive, organizzative, economiche – necessarie alla lotta (avvocati, tribunali, sentenze), allora che succede?E questo, piano piano, potrebbe deformare lo sguardo, il sentire collettivo sulla vita: chi è paralizzato, su una sedia a rotelle, chi è disabile e via via diminuendo di gravità, alla fine anche chi è depresso, che ci sta a fare al mondo? E torniamo così alla premessa: sono ignorante in medicina, forse più che in tutto il resto dello scibile umano, ma di vita, di cuore materno, di carne della mia carne, no. Non sono ignorante. Sono certa che ogni vita valga, sono certa che quando un bambino è amato come Alfie la sua vita ha moltissimo senso, e vale la pena stare attaccato a un respiratore se è per sentire la voce del babbo, le carezze e i baci e le lacrime della mamma. Vale la pena stare in ospedale se serve a sentirsi circondato di un amore totale, quello di due ragazzi ventenni che stanno combattendo come leoni perché continui a vivere, con un eroismo negli occhi, una serietà e una forza, che il prossimo che parla male dei giovani di oggi lo picchio.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
Continua a leggereRiduci
Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
Continua a leggereRiduci
Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
Continua a leggereRiduci