
Dei 4 virus autorizzati dai pm di Perugia, 3 falliscono. Salvi i telefonini di altri indagati al centro di polemiche tra giudici.Dalle carte dell'inchiesta sul Csm arriva una buona notizia per chi ha paura di trovarsi nel cellulare un trojan, il software che trasforma il telefonino in una microspia a uso degli investigatori. Infatti la Procura di Perugia non aveva chiesto di infettare solo il cellulare del pm Luca Palamara, le cui chiacchiere hanno fatto deflagrare il caso, ma anche quelli dei suoi coindagati, gli avvocati faccendieri Piero Amara e Giuseppe Calafiore e il pm Giancarlo Longo. Ma il Gruppo investigazione criminalità organizzata (Gico) della Guardia di finanza è riuscito a penetrare solo nello smartphone di Palamara. Una percentuale di successo, almeno in questo caso, modesta, ossia del 25 per cento.Il 22 marzo scorso il gip di Perugia Lidia Brutti ha autorizzato con apposito decreto l'inoculazione dei quattro trojan e il 27 marzo i pm hanno ordinato al Gico di iniziare le operazioni. Dopo qualche settimana la polizia giudiziaria comunica con un'informativa agli inquirenti che «gli operatori tentavano l'inoculazione del citato software trojan attraverso l'invio di sms di preavviso di mal funzionamento della linea telefonica» nei confronti di Longo, Amara e Calafiore, ma «i predetti tentativi di inoculazione […] non sortivano alcun effetto al fine di procedere con la conseguente attività di intercettazione». In pratica il 10 aprile il Gico ha provato a inserire il trojan nel cellulare di Longo, il 12 e il 17 in quello di Amara e il 30 aprile in quello di Calafiore, ma senza riuscire a installarli. Contemporaneamente la Procura firma un decreto con cui autorizza il gestore telefonico a interrompere le chiamate in uscita sul cellulare di Palamara e gli investigatori gli fanno arrivare un messaggio di mal funzionamento della rete. A quanto ci risulta al magistrato è giunto un messaggio su Whatsapp: il pm lo ha aperto per cancellarlo, ma subito la comunicazione è scomparsa. Le attività vere e proprie sul telefonino sono iniziate il 3 maggio e le captazioni che ne sono seguite hanno portato allo sconquasso dei mesi scorsi. La notizia delle mancate intercettazioni nei confronti di Amara, Calafiore e Longo potrebbe far gridare al complotto tutti quelli che nei mesi scorsi hanno contestato la conduzione delle indagini, considerandole a senso unico. Dall'inizio indagati e difensori hanno giudicato discutibile il fatto che la Procura di Perugia abbia utilizzato come polizia giudiziaria il Gico di Roma, il reparto che, su incarico del procuratore Giuseppe Pignatone e dei suoi pm, aveva condotto le investigazioni su Amara e Calafiore, in cui era emersa la notizia di reato contro Palamara. Indagini contestate.A marzo il pm Stefano Fava, pure lui indagato a Perugia, aveva inviato una segnalazione al Csm sui suoi due superiori Pignatone e Paolo Ielo, i quali, a suo avviso, erano da considerare incompatibili con le inchieste su Amara e l'Eni a causa di alcuni vecchi incarichi di lavoro ricevuti dai fratelli di Pignatone e Ielo dallo stesso Amara e dalla compagnia petrolifera, di cui il faccendiere era influente legale esterno. Fava ha denunciato presunte anomalie nelle indagini svolte sul conto di Amara: anche se l'avvocato, nel febbraio del 2018, è stato arrestato, a giudizio del pm, avrebbe goduto di un trattamento troppo morbido rispetto alla gravità dei reati commessi dopo il fermo: «Lui mai ha collaborato realmente con noi, ha riferito solo circostanze di comodo che ci hanno permesso di arrestare quattro pensionati […])» ha dichiarato Fava davanti ai colleghi di Perugia.Le anomalie sull'utilizzo del trojan non sono finite. Nei giorni scorsi Vittorio Sgarbi ha presentato un'interrogazione alla Camera in cui sottolineava come siano sempre vietate le intercettazioni cosiddette «indirette» nei confronti dei parlamentari e ha sostenuto che le intercettazioni dei deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri non potessero essere considerate casuali. In effetti nell'atto di incolpazione del procuratore generale della Cassazione a proposito di uno degli incontri a cui Lotti e Ferri hanno preso parte si parla di «programmata riunione» e in altri passaggi si dice che fu «perfettamente programmata» e che «non fu casuale e neppure estemporanea». Anche la Procura di Perugia deve aver avuto dei dubbi sull'utilizzabilità di quelle registrazioni e dopo il primo incontro, il 10 maggio, ha inviato alla polizia giudiziaria una disposizione scritta con cui ordinava di non attivare il trojan in caso di partecipazione di parlamentari a riunioni concordate. Il 17 maggio il comandante del Gico di Roma Fabio Di Bella ha risposto con un'annotazione: «L'attività di ascolto dei colloqui in argomento a cui prendevano parte i predetti onorevoli avveniva in maniera casuale. Al riguardo si segnala come […] in data 8 maggio 2019 venisse registrata una conversazione telefonica […] intercorsa tra Palamara Luca e Ferri Cosimo inerente la programmazione dell'incontro registrato. In proposito la predetta conversazione telefonica era oggetto di ascolto e di trascrizione da parte di questa pg in data 9 maggio 2019 alle ore 11». È la stessa pg ad ammettere che se l'8 maggio avesse ascoltato in diretta e trascritto tempestivamente la telefonata tra Ferri e Palamara, l'incontro successivo non sarebbe stato ritenuto casuale. Peccato che la riunione in questione sia quella che ha portato alle dimissioni di 5 consiglieri del Csm e allo spostamento a sinistra del parlamentino dei giudici. Stesso problema per un incontro del 16 maggio tra Palamara e Lotti, annunciato dal pm indagato alla moglie. Gli appuntamenti di Palamara con i parlamentari registrati dal Gico sono stati quattro in tutto: il 9, il 16, il 21 e il 28 maggio. Tutti rigorosamente casuali secondo pg, pm e procuratore generale della Cassazione.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.