
«Il nucleare di quarta generazione, pulito, sicuro e sostenibile, è il futuro. Lo sarà nei prossimi dieci anni in gran parte dell’Europa, negli Stati Uniti, in Canada. Da noi ci vorrà di più, ma quando tutti vedranno i vantaggi che derivano da questa tecnologia arriverà anche qui».
Stefano Buono è sicuro della sua previsione e quando si tratta di futuro, lui sa di che cosa si parla. Fisico nucleare, già stretto collaboratore di Carlo Rubbia fin dai tempi del Cern, nel 2002 ha lasciato il centro di ricerca europeo per creare una sua società, l’Advanced Accelerator Applications e dare corpo concreto alle sue idee di ricerca e a quelle degli altri scienziati che lo hanno seguito. E così è stato. In pochi anni la AAA ha brevettato diversi prodotti diagnostici e farmaceutici in campi che spaziano dall’oncologia, alla cardiologia e alla neurologia, allargando i confini della medicina nucleare teragnostica, ossia di quella branca innovativa che ha unito l’approccio diagnostico a quello terapeutico.
I suoi farmaci, per esempio, non servono solo a diagnosticare alcuni tumori, ma anche a tenerne sotto controllo la loro evoluzione e nel caso a trattare quelli non operabili. Il biotech però, non è l’unico interesse di Buono, dopo aver quotato AAA al Nasdaq nel 2015 (Ipo da 150 milioni di dollari), nel 2018 l’ha venduta a Novartis per 3,9 miliardi di dollari e circa tre anni immediatamente dopo ha dato vita a una nuova start up, la Newcleo con l’obiettivo di realizzare proprio quel nuovo nucleare pulito, sicuro e sostenibile.
Quanto tempo ci vorrà?
«Tra sette anni dovremmo essere in grado di avviare la produzione in serie, ma già prima partiremo in Inghilterra e Francia. Del resto su questo progetto, in qualche modo, ci sto lavorando dal 1995, quando insieme ad altri scienziati europei cominciai a confrontarmi con alcuni colleghi russi sull’utilizzo del piombo liquido come refrigerante all’interno dei reattori nucleari, una soluzione che era stata testata proprio dai russi nei loro sommergibili atomici. Da lì è iniziata un percorso di ricerca, durato un ventennio. Il governo italiano aveva stanziato anche 30 miliardi di lire affidando al mio gruppo di lavoro e ad Ansaldo un primo progetto di design, che abbiamo realizzato in tre anni, poi con l’Enea avremmo dovuto realizzare anche il primo prototipo da costruire alla Casaccia, ma nel 2002 l’idea è stata abbandonata. E’ stato allora che ho deciso di proseguire privatamente, nella convinzione che ormai l’industria fosse pronta per questo salto in avanti. E fortunatamente non ero il solo a crederlo».
Chi altri?
«Per esempio il capo progetto di allora dell’Ansaldo, Luciano Cinotti, che ha continuato a lavorarci anche da coordinatore mondiale del gruppo Generation four dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) per poi entrare, insieme a un gruppo di altri ex Ansaldo, in una società americana chiamata Hydromine e cominciare a brevettare le soluzioni e realizzare il design di una nuova macchina a piombo liquido e proprio qui ci siamo incontrati di nuovo. La prima operazione di newcleo è stata proprio l’acquisto di questa società americana, con i suoi 12 brevetti e con i venti anni di ricerca che c’erano alle spalle. Io e gli altri cofondatori abbiamo messo i primi 100 milioni di euro e il 1 settembre 2021 ne abbiamo raccolti altri 100 da gruppi d’investimento come Exor Seeds, Liftt, il Club degli investitori, fondi di venture capital internazionali e personalità della finanza italiana e internazionale come la famiglia Drago (De Agostini), Claudio Costamagna, Victor Massiah, la famiglia Rovati, Davide e Vittorio Malacalza, Novacapital di Paolo Meloni e la famiglia svedese Lundin. In tutto abbiamo circa 170 soci, nessuno dei quali ha più del 10% del capitale e tra un mese concluderemo il secondo round di fund raising ma già nelle prime settimane abbiamo raccolto circa 250 dei 300 milioni di euro che ci siamo prefissi».
In sette mesi avete raccolto 400 milioni di capitale, ma ora qual è la vostra strategia industriale?
«Costruiremo in Italia un prototipo non nucleare per testare la macchina mentre i primi reattori sperimentali saranno costruiti in Inghilterra e Francia e già questi produrranno energia per il mercato. L’obiettivo, però, è di avviare in sette anni la produzione industriale dei nuovi reattori. Saranno di due tipi. Uno piccolo (3 metri per 5) da 30 MW, pensato soprattutto per le grandi navi portacontainer o da crociera o per esempio in un impianto di cogenerazione e un altro, modulare ma sempre di dimensioni ridotte, un cilindro di sei metri di base e sei di altezza, che produrrà 200 MW, che potrà funzionare da solo, o anche in linea con altri reattori, a seconda dell’esigenza di produzione d’energia».
Quali sono i vantaggi di questi reattori?
«Cominciamo da quello base: emissioni zero di Co2, come tutta l’energia nucleare, ma qui andiamo oltre. Per alimentare i reattori a piombo liquido si usa il mox (Mixed oxide fuel) una miscela di ossido di uranio naturale ed ossido di plutonio che si ricava dalle scorie prodotte dalle centrali tradizionali, quelle che così difficili da stoccare, anche perché perdono la loro radioattività solo dopo centinaia di migliaia di anni. Nel mondo se ne sono accumulate una quantità enorme e noi le possiamo smaltire bruciandole per produrre energia. I residui di questa produzione, cioè i frammenti di fissione, sono molto meno ingombranti e soprattutto perdono ogni radioattività in 2-300 anni, quindi, non c’è più bisogno di stoccarli nella profondità del suolo, bastano piccoli depositi. Magari potessimo smaltire così le scorie di carbone e petrolio, quelle ce le respiriamo e non parlo solo della Co2, ma anche della fuliggine, quelle particelle incombuste che finiscono nell’aria».
Perché le dimensioni ridotte sarebbero un vantaggio?
«Oggi i componenti di una centrale sono talmente grandi da dover essere costruiti direttamente nel sito di destinazione. I nostri, invece, sono trasportabili e i moduli si possono mettere in linea per aumentare la produzione di MW. I costi dei due sistemi, come può capire, non sono paragonabili. I nostri sono decisamente inferiori, come del resto anche i tempi di realizzazione».
La chiave del successo, insomma, sarebbero solo i costi più bassi e la trasportabilità?
«No, anche l’efficienza e la sicurezza. Il piombo liquido rispetto all’acqua pressurizzata mantiene gli elettroni molto più veloci rompendo con più facilità il plutonio e gli altri combustibili e liberando l’energia. Alla fine restano solo quei frammenti di fissione che, come detto, sono decisamente meno pericolosi dei rifiuti nucleari. Questo, però, non è il solo aspetto che rende più sicuro il nucleare di quarta generazione. Con il piombo liquido incidenti come quello di Three Mile Island o di Chernobyl sarebbero impossibili, anche di fronte di una serie di errori umani il reattore si spegnerebbe senza problemi. A differenza di un reattore raffreddato ad acqua, visti i limiti altissimi di temperatura del metallo liquido, uno spegnimento improvviso dell’impianto non porterebbe mai il nucleo al punto critico».
Dall’86 il nucleare è bandito dall’Italia. E’ bastata una timida apertura del ministro Cingolani a quello di quarta generazione per far scatenare le polemiche. Lei pensa davvero che ci sia spazio in Italia per questi impianti?
«Noi li stiamo realizzando per i Paesi che già usano il nucleare, ma sono sicuro che quando la produzione sarà partita e sarà chiaro che quell’energia è la più sicura di tutte, la più sostenibile e la meno cara, anche qui da noi ci sarà un generale ripensamento. Le faccio l’esempio di una nave, che ora brucia tonnellate di combustibile fossile, con un reattore come il nostro, da 30 MW, un armatore spenderà 100-150 milioni per l’impianto e poi più niente per i successivi 15 anni, il tempo di durata della macchina stessa. Il combustibile sarà all’interno e per l’intera vita del reattore non dovrà essere sostituito. Nessuna spesa aggiuntiva, nessun problema di rifornimento, nessun rischio di fuoriuscita di radiazioni per un arresto dell’impianto, nessuna emissione nociva, come si fa a non vedere i vantaggi di questa tecnologia? Mi creda, lo capiranno anche in Italia».
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L'analisi sul governo
È corso un brivido prima sulla schiena di molti ministri, ieri pomeriggio quando alle 17,27 la portavoce del presidente del Consiglio Mario Draghi ha inviato nella chat dei giornalisti che seguono Palazzo Chigi tre righe improvvise: «Consiglio dei ministri convocato alle ore 18.00. All’odg Comunicazioni del Presidente». Perfino le maiuscole messe un po’ a capocchia hanno contribuito all’agitazione: nessuno dei convocati ne sapeva nulla, e c’è stato anche chi ha temuto un fulmine a ciel quasi sereno: le dimissioni del presidente del Consiglio.
O ancora peggio in questi tempi di guerra. Il mistero si è chiarito nel giro di una mezzoretta: Draghi per la prima volta dopo molto tempo ha voluto battere un colpo da Draghi. Davanti ai ministri è apparso un premier irritato e anche un po’ stufo delle liturgie e dei freni messigli da una strana e litigiosa maggioranza. Così Draghi ha voluto fare vedere a tutti che quando vuole sa battere i pugni. Non sulla guerra, non sul gas e sul petrolio, ma a sorpresa su un argomento che non sembrava in questo momento proprio in cima all’agenda politica: il ddl concorrenza che starebbe andando un po’ troppo per le lunghe per via della norma sui balneari che non passa in Senato con il centrodestra che frena la liberalizzazione delle spiagge.
Può fare simpatia ed essere anche popolare il Draghi che batte i pugni, e può trovare non pochi sostenitori anche sul punto delle concessioni sulle spiagge. Certo, avere fatto correre un brivido non solo ai ministri (che nulla sapevano prima che iniziasse il consiglio), ma pure ai mercati per una vicenda che onestamente sembra minore rende un po’ più difficile capire questa enfasi. Può essere che i partiti stiano stufando chi li deve tenere insieme. Ma che il suo compito non potesse essere una passeggiata doveva essere noto a Draghi le due volte (un anno fa e pochi mesi fa) in cui ha accettato l’incarico datogli da Sergio Mattarella. Ed è anche giusto in un paese normale che sia faticoso tenere insieme una maggioranza politica innaturale, che rappresenta due Italie diverse e spesso contrapposte negli interessi e nelle idee.
L’anomalia in un sistema democratico è un governo di questo tipo, non che fatichino a stare insieme Lega e Pd, Forza Italia e Cinque stelle: questo è naturale che accada. Se Draghi quella fatica voleva risparmiarsi doveva porsi il problema nel giorno stesso in cui ha fatto la lista dei ministri, scegliendo uomini e donne che voleva lui senza passare attraverso i vertici dei partiti. Ora diventa una fatica in più per il presidente del Consiglio: se i ministri di Forza Italia - per fare un esempio - dicono ok, questo non comporta affatto che i gruppi parlamentari seguano l’accordo, anzi. Quindi per portare a casa i provvedimenti tocca fare due giri: quello inutile in consiglio dei ministri, e poi i lunghi incontri con i leader di partito a cui Draghi non si sottrae, vivendoli però con lo stesso piacere di uno a cui si chiede di passare a gambe nude in mezzo a un sottobosco di ortiche. Ieri sera c’è stata la dimostrazione plastica di questa situazione: Draghi ha fatto minacciare la fiducia sul ddl concorrenza, che in effetti risale al dicembre scorso ed è ancora in prima lettura in commissione, sostenendo che l’approvazione è necessaria per ottenere i miliardi del PNRR e che questa era la missione primaria del suo esecutivo.
Gli hanno risposto con una cortese pernacchia i capigruppo di Forza Italia e Lega in Senato che in un comunicato hanno rivendicato la loro difesa dei balneari, aggiungendo ipocriti e pungenti allo stesso tempo: «Siamo ottimisti che si possa trovare un accordo positivo su un tema che, peraltro, non rientra negli accordi economici del PNRR». Il centrodestra vuole lo stralcio della norma, il governo non lo concederà e metterà la fiducia sul testo come è oggi convinto delle sue ragioni, che sono identiche a quelle della procedura di infrazione europea verso l’Italia e quelle con cui il Consiglio di Stato italiano ha bocciato ipotesi alternative. Chi vincerà il braccio di ferro? Se devo scommettere un euro in questo momento lo punto su Draghi, perché dallo sfogo di ieri non tornerà indietro e in questo momento una crisi politica danneggerebbe di più chi la va a provocare. Le spiagge interesseranno di sicuro i 100 mila che vi lavorano, ma agli altri milioni di italiani interessa solo potere trovare una sdraio e un ombrellone dove tirare il fiato qualche giorno con le proprie famiglie la prossima estate. Vincerà Draghi, e poi si metterà a posto in qualche modo per salvare la faccia a tutti. Ma questa giornata resterà come una ferita importante a pochi mesi dalla fine della legislatura. Passata la buriana sulla concorrenza resterà un governo davvero balneare a trascinarsi fino alla imminente fine...
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Lo scandalo dei fondi del palazzo vaticano a Londra
«Definito Fab figlio de p*** madre». «Minkia. In spagnolo? Sapevano che l’ho revocato?». «No. Detto io. N. 1 e Sostituto entusiasti». E ancora: «Tu per loro sei l’amministratore di Classe A». Il 22 dicembre del 2018, poco prima delle 19, l’avvocato Manuele Intendente riferisce a Gianluigi Torzi dell’incontro da poco terminato con Papa Francesco e il Sostituto della Segreteria di Stato Edgardo Pena Parra.
E’ la dimostrazione che il Vaticano fin dal 22 dicembre del 2018 sapeva, ai livelli più alti, che i suoi funzionari erano stati esautorati dalla gestione del palazzo di Londra e che l’immobile era in mano al solo Torzi. Gli stessi vertici che hanno di fatto avallato questa decisione. Un passaggio importante, che permette di inquadrare lo scandalo dei fondi vaticani, a tre anni e mezzo di distanza, sotto una luce nuova.
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Per Mps serviva un aumento di capitale da 8,3 miliardi di euro
Dopo il servizio di ieri qui pubblichiamo la seconda e ultima puntata dell’inchiesta su Mps basata sul documento riservato inviato da Unicredit al Tesoro e che nell’ottobre scorso sancì il fallimento della trattativa per la privatizzazione della banca senese.
Anche i bancari sono numeri. Se fosse andato importo il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena da parte di Unicredit, almeno 7.800 persone avrebbero perso il posto e altre 3.370 sarebbero state cedute a terzi, in modo da non pesare sui conti del cavaliere bianco e mascherare un po’ l’impatto immediato dell’operazione sotto il profilo occupazionale. In sostanza, dei circa 21.000 dipendenti di Mps uno su due sarebbe andato a casa o sarebbe finito impacchettato come un npl.
Ma il problema è che neppure sui tagli di personale, e sui risparmi che si sarebbero potuti realizzare sciogliendo di fatto Rocca Salimbeni nell’acido di piazza Gae Aulenti, c’era accordo tra compratore e venditore di Stato. Come risulta chiaramente dal documento «strettamente riservato e confidenziale» pubblicato ieri da Verità&Affari e che a ottobre scorso chiude la due diligence di Unicredit, portando al fallimento delle trattative.
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