2024-03-04
«Uno spot non deve rieducare la gente»
Il pubblicitario Cesare Casiraghi: «Per vendere un caterpillar giocattolo non possono obbligarmi a metterlo in mano a due bimbe. Gli influencer vanno bene solo se sono parte di una strategia. I testimonial perfetti? Federer e Sinner».Cesare Casiraghi è un pubblicitario di lungo corso. Titolare dello studio Casiraghi Greco& di Milano. Si trova in Giappone per lavoro, ma ha accettato di farsi intervistare dal nostro giornale su un settore, quello pubblicitario, al centro di un grande periodo di trasformazione.Google ha licenziato decine di dipendenti del settore pubblicità perché sembrerebbe che tale occupazione possa essere presto sostituita dall’Intelligenza artificiale. Attori come Tom Hanks hanno lamentato di aver visto il proprio volto utilizzato dall’Ia per campagne pubblicitarie alle quali non avevano mai dato il proprio consenso. Sky, in Italia, ha ricreato con l’Ia un Max Pezzali ventenne per farlo interagire con quello vero per sponsorizzare il nuovo Sky Glass. Come impatta questa nuova tecnologia sul settore, a livello creativo e a livello occupazionale?«Nel nostro mondo, di rivoluzioni ne abbiamo viste parecchie. Questa è più spettacolare perché è legata al modo di pensare, interviene sul nostro visionario. Per noi agenzie pubblicitarie è un cambio radicale soprattutto perla produzione di contenuti. Il creativo che pensa alla campagna resterà, quello che cambia è il modo di produrre i contenuti, le immagini, i video. C’è e ci sarà sempre bisogno di creativi: andare a capire quale è la risposta ideale alla richiesta di un cliente resta e resterà in capo alla persona. Oggi è diventato naturale assumere persone che sappiano parlare inglese, per esempio. Ecco, già da oggi e sicuramente da domani, chi sarà in grado di utilizzare l’Ia avrà più chance di essere assunto. Nella nostra agenzia abbiamo fatto un corso di Ia a tutti, perfino agli addetti alla reception. È un linguaggio che ha potenzialità enormi. Prima o poi dovrà essere insegnata nelle scuole, per imparare come utilizzarla al meglio delle sue possibilità. Certo, ci saranno dei settori che andranno a ridursi, penso agli illustratori, a chi produce immagini e video. Ma è stato così per ogni rivoluzione».Quale è la pubblicità di cui va più orgoglioso?«Ogni scarrafone è bell’a mamma sua. Sono ancora innamorato di alcune campagne stampa realizzate negli anni Ottanta per B&B Italia. Tra quelle create con la mia agenzia, nata nel 2000, siamo certamente orgogliosi della campagna ideata per il lancio di Conto Arancio: è lì che nasce il famoso simbolo della zucca. Esisteva solo il nome: abbiamo fatto tutto il resto, dalla televisione alla stampa, alle carte di credito. È un successo recente anche la campagna per il lancio del nuovo caffè di Bialetti, Perfetto Moka, con Luca Argentero. Anche il nome Perfetto Moka è farina del nostro sacco».Quale è, invece, la campagna che desidererebbe fare?«Mi piace molto far crescere i marchi da zero. Oltre al già citato Conto Arancio, ricordo che abbiamo fatto nascere da zero marchi come Che Banca! o Pittarosso. Anzi per Pittarosso abbiamo anche inventato il nome. Mi piace anche ricreare l’immagine di un prodotto: Riso Flora, per esempio, ce lo siamo re-inventato come “riso del benessere” in accordo con il cliente, ovviamente. Entrare in un mercato super maturo come quello del riso e creare un’immagine completamente nuova che non è legata al piatto di risotto è stata una vera sfida. Abbiamo dato un nuovo volto Flora, parlando dei contenuti, delle proprietà che il prodotto in questione ha sempre avuto ma che mai nessuno, prima, aveva raccontato».Poco più di un anno fa in Spagna è stato introdotto il nuovo codice deontologico per la pubblicità dei giocattoli che si propone di combattere le cosiddette discriminazioni di genere. In pratica, sono stati vietati cosiddetti stereotipi come l’abbinamento bambola-bambina e macchinina-bambini. Oppure non si possono più utilizzare codici colori consolidati come rosa-femmina e azzurro-maschietto. Cosa ne pensa di tutta questa inclusività forzata?«Bisogna avere in mente che la pubblicità è una comunicazione commerciale e bisogna stare attenti a delegare alla pubblicità l’educazione del cittadino. Certo, la pubblicità ha sempre avuto un suo spazio nell’educazione della popolazione, ma c’era dietro un interesse commerciale. Se penso agli ultimi 50 anni e al messaggio che è stato lanciato, via pubblicità, sull’igiene delle persone... Prendiamo il dentifricio: che ci fosse un interesse di chi vende il dentifricio a illustrare i risvolti positivi dell’igiene orale è chiaro, ma è stato un bene per la salute globale che la gente abbia iniziato a usarlo. È migliorata la salute dei denti di tutta l’umanità, così come l’igiene. Queste pubblicità nascono per vendere un prodotto. Se io sono un’azienda e devo vendere, non è che faccio comunicazione per insegnare alla gente come comportarsi. Se io devo pubblicizzare un caterpillar giocattolo per bambini, per esempio, la valutazione che devo fare è: metto due femmine, due maschi o un maschio e la femmina a giocarci? Quale è la situazione che mi farà vendere di più? Non faccio niente di male se scelgo una delle tre opzioni, ma deve essere quella che mi serve per far vendere il prodotto. Mi sembra ridicolo che si tenda a delegare alla pubblicità il messaggio che anche le bimbe possono giocare con un caterpillar. La pubblicità non può essere offensiva o lesiva dei diritti di qualcuno, questo sì. Ma a monte bisogna sempre ricordarsi che c’è comunque un interesse. Certamente la pubblicità deve fare la sua parte, e sicuramente fa comodo a molti seguire le tendenze a proprio uso a consumo, ma se pensiamo che possa risolvere questioni sociali come il gender o qualsivoglia problema, mi viene da ridere. Non si può forzare un messaggio. La comunicazione deve essere efficace e non distorsiva. Se no, non è più pubblicità, stiamo facendo rieducazione, dei tutorial. Se ritengo che un prodotto, il famoso caterpillar per tornare all’esempio, deve avere dei target ben specifici per essere efficiente, perché mi devi costringere a inserire dei target diversi e meno pertinenti?».Crede che un regolamento di questo tipo possa essere introdotto anche in Italia? I responsabili di associazioni di categoria come la Adci e la Iaa Italy hanno detto esplicitamente di auspicarlo…«Se arriva, ci atteniamo. Il problema è che mi mette tristezza pensare che occorra un regolamento per normare queste situazioni. Se devo annacquare il messaggio pubblicitario perché devo essere più “allargato”, non è una strada corretta da seguire».Capitolo influencer: cosa ne pensa di quello che possiamo definire il «caso Ferragni»? Può essere una «lezione» per i grandi marchi, ovvero di abbandonare un settore opaco che rischia di non pagare (a livello mediatico) alla fine per tornare (o riprendere con vigore) una promozione dei propri prodotti più tradizionale?«Gli influencer sono un mezzo di comunicazione per noi come lo è la tv o la radio. Sono media, non sono creativi. Un influencer deve essere inserito in una strategia di marketing che viene pensata e strutturata per dare valore alla marca che si vuole lanciare. Il problema sorge quando un’azienda si affida a un influencer come se fosse Re Mida. Dietro questa scelta non c’è strategia, solo speranza che le vendite vadano bene».A livello lavorativo, gli influencer da poche migliaia a milioni di follower possono essere considerati un concorrente per chi fa il suo lavoro?«Qualche lavoro ce lo possono portare via, ma il cliente strutturato non può affidarsi soltanto a loro. Ripeto, devono essere parte di una strategia di comunicazione. Il problema è sempre quello di raggiungere il target giusto per il cliente e senza sprechi di denaro. Sono testimonial che usano un mezzo preciso, i social. E poi, comunque, tutti gli influencer aspirano ad arrivare in televisione».Parliamo del caso Ferragni…«È un prodotto pure lei, un prodotto di questo tempo. Ci sono influencer grandi e importanti, ma bisogna capire se possono essere utilizzati nell’ambito della costruzione del valore di marca. Sono utili? Costano il giusto? Alla fine sono queste le domande da porsi».C’è, oggi, nel mondo un testimonial perfetto, ideale, riconosciuto e riconoscibile come volto affidabile?«Direi personaggi come Roger Federer e Jannik Sinner, casualmente due tennisti. Vanno bene oggi, prima che succeda loro qualcosa. Perché possono essere testimonial perfetti fino a quando non inciampano. È un attimo, non dico diventare simboli negativi, ma perdere valore. Torniamo a Chiara Ferragni: non so se abbia commesso un reato o meno. Ma se l’hai scelta come testimonial, oggi, tu azienda che ti sei affidata a lei, qualche pensierino lo devi fare. La sua immagine vive un momento non proprio al top . E così può succedere con tutti, il testimonial ideale al 100% non esiste».Social e opinione pubblica possono idolatrare o affondare una campagna pubblicitaria. Un esempio che mi viene in mente è quella promossa da Parmigiano Reggiano, dove il messaggio del casaro Renatino al lavoro 365 giorni l’anno è stato storpiato in un’accusa di schiavismo al Consorzio. Come giudica queste ondate di indignazione generalizzata? E si può fare qualcosa per evitarle?«Quello di Parmigiano Reggiano è stato un progetto straordinario che abbiamo curato noi. Renatino era un paradosso. Oggi paradossi e metafore possono essere travisati soprattutto da giornalisti che vogliono creare lo scandalo. La ricerca dello scoop può portare alla ribalta un elemento minimo e dar vita, da lì, al cosiddetto shit storm (letteralmente: tempesta di m…., ndr) social. Ma il bello è che la casalinga italiana non si è accorta di nulla. Moriremo per l’uso delle parole, ha detto Ricky Gervais. Anche nel caso Renatino è andata così. È difficile vivere con questo sistema, ogni cosa che dici può essere letta in modo distorto ed essere il punto di partenza di una guerra sociale. Ma è un problema con cui dobbiamo convivere».