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2025-08-28
L’Ue toglie i veti per potersi autodistruggere
(Ansa)
Eliminare il diritto di veto in politica estera: i ministri dei 27 Paesi Ue ne discuteranno al Consiglio Affari esteri informale di domani e sabato, a Copenaghen, sotto l’egida della presidenza danese di turno.
Sembra una buona idea: mentre la Storia accelera, l’Unione cerca di snellire il burosauro impedendo che i piccoli Paesi, ovvero l’Ungheria di Viktor Orbán e la Slovacchia di Robert Fico, si mettano di traverso. Il che spianerebbe la strada all’ingresso nel club - in chiave antirussa - dell’Ucraina, oltre che della Moldavia, dove ieri, per celebrare i 34 anni di indipendenza dall’Urss, sono volati Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Donald Tusk. Il triangolo di Weimar all’opera per l’allargamento a Est, cioè per accerchiare Mosca.
Ma a conti fatti, se la riforma tanto auspicata da personalità del calibro di Romano Prodi dovesse andare in porto, per l’Europa sarebbe un pessimo affare. Primo, perché si certificherebbe che le decisioni che contano possono prenderle solo Francia e Germania, senza alcun contropotere in grado di bilanciare il loro peso specifico; poi, perché sfilare certe nazioni dall’orbita di Mosca finirà per moltiplicare i conflitti nella parte orientale del Vecchio continente. E per gestirli non basterà tappare la bocca a Budapest e Bratislava. Anzi, il disimpegno americano non farà che accrescere le spinte centripete: alla fine, nel quadro della contesa per la leadership anche dentro la Nato, chi avrà la capacità e il fondo cassa per ristrutturare i propri eserciti dovrà sobbarcarsi l’onere di disinnescare le tensioni, in assenza di una regia politica comune. E, soprattutto, a fronte di interessi sempre più radicalmente divergenti: Kiev ne ha offerto la prova con i suoi attentati al Nord Stream e alle infrastrutture energetiche da cui dipendono i riottosi magiari e gli slovacchi.
Il risultato? Una Disunione europea, più simile a un grande telo tirato fino al punto di strappo che a una casa condivisa, in cui coltivare un progetto di cooperazione. Se questa è la risposta all’inconsistenza di Bruxelles, è la risposta sbagliata.
La malattia che ci affligge è culturale: mentre le grandi potenze ragionano in termini geopolitici ed economici, l’Europa rimane aggrappata all’ideologia dell’internazionalismo liberale. Pressoché incapace di uscire dagli anni Novanta del secolo scorso.
Gli Stati Uniti di Donald Trump si sforzano di sbloccare l’impasse con Mosca per sottrarla all’abbraccio mortale con la Cina, che considerano il loro vero antagonista. È in questa chiave che vanno lette le indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal sui negoziati con Vladimir Putin, che mirerebbero, tra le altre cose, a riportare Exxon Mobil in Russia. In particolare - ha scritto la Tass - con il reintegro nel progetto Sakhalin 1, per la produzione di petrolio e gas. Intanto, i due Paesi hanno riaperto il dialogo sul disarmo nucleare e il tycoon ha sfidato Pechino ad associarsi. Il Dragone ha mangiato la foglia e, ieri, ha risposto che un suo coinvolgimento non sarebbe «né ragionevole né realistico».
Può apparire cinica, ma la tattica del presidente americano è chiara: stemperare il carattere moralistico del confronto con gli avversari, intavolando una trattativa su basi commerciali e con obiettivi geopolitici di medio-lungo periodo. Lo zar non è sordo al richiamo: sa che la Federazione sta andando incontro a quella che, sul piano demografico, più che un inverno è un’era glaciale. E sa che un’alleanza con la Cina si risolverebbe in un vassallaggio nei confronti di Xi Jinping.
In un simile scenario, colpisce invece la mancanza di profondità strategica del pensiero europeo.
Al di là delle lusinghe a Trump, che i leader del continente hanno imparato a temere, l’autentico loro obiettivo sembra essere quello di mandare avanti la guerra fino all’ultimo ucraino. Un proposito forse condiviso con Volodymyr Zelensky, il quale non ha fretta di affrontare nuove elezioni e di tracciare il bilancio di tre anni nei quali aveva promesso la vittoria finale, al prezzo del sacrificio di centinaia di migliaia di giovani, per poi ottenere lo smembramento dell’Ucraina.
Ecco, allora, che Kaja Kallas, colei che esprime la politica estera dell’Ue, in un’intervista a Die Welt ribadisce che Kiev dovrebbe colpire in profondità il territorio russo, impiegando le armi occidentali. Esattamente l’opposto di ciò che avrebbero chiesto gli Usa, nel momento in cui stanno tentando di chiudere la questione con Putin. Anche la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, si frega le mani a preparare il prossimo, ennesimo pacchetto di sanzioni. Persino nelle notizie riportate dal Financial Times si colgono pressioni per alzare la posta contro Mosca: stando a fonti, guarda caso, europee e ucraine, citate dal quotidiano britannico, gli americani sarebbero disponibili a offrire sostegno aereo e d’intelligence per la difesa della nazione invasa, ma solo se i volenterosi spedissero truppe nel Donbass.
Sulla logica autodistruttiva dell’allargamento a Est, come sulla convinzione che si debba arrivare alla sconfitta di Putin, ovviamente il fattore ideologico non è l’unico a pesare. Quelli che hanno indossato l’elmetto, mandando però a morire gli ucraini, sentono l’esigenza di occultare uno smacco storico. Bisognerebbe ricordarselo, quando le prediche sull’irrilevanza europea arrivano dal pulpito di chi, ai cittadini, dava lezioni su pace e condizionatori.
Per arruolare 500.000 soldati Berlino torna alla leva obbligatoria
La diplomazia resta al centro della scena del conflitto ucraino, ma i progressi tra Mosca e Kiev procedono a passo lento. Il Cremlino frena le attese di un vertice tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky: «Qualsiasi incontro tra i presidenti deve essere ben preparato», ha spiegato ieri il portavoce dello zar, Dmitry Peskov, sottolineando che al momento non ci sono date fissate e che il lavoro continuerà in un formato riservato. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti, al contrario, spingono per colloqui concreti e garanzie di sicurezza. L’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, incontrerà questa settimana una delegazione ucraina guidata da Andriy Yermak e Rustem Umerov, discutendo possibili futuri incontri bilaterali tra i due leader.
Nel frattempo in Ucraina, dopo oltre tre anni di legge marziale che limitava gli spostamenti, il governo ha deciso di consentire agli uomini tra 18 e 22 anni di attraversare liberamente il confine in entrambe le direzioni, con l’obiettivo di far mantenere ai propri giovani i legami con l’estero e con la patria e ridurre la tensione legata al servizio militare obbligatorio. Un cambiamento significativo che si inserisce in un contesto ancora drammatico sul fronte dei combattimenti. Nella giornata di ieri gli attacchi russi hanno ucciso almeno due civili e ferito altre 28 persone, con infrastrutture energetiche gravemente danneggiate nelle regioni di Sumy, Poltava e Černihiv. Nove località sono state colpite da 21 droni su 95 lanciati, mentre la difesa ucraina ne ha abbattuti 74. A Kherson, un raid notturno ha provocato la morte di una donna di 81 anni, mentre Mosca ha rivendicato la conquista del villaggio di Leontovichi, nel distretto di Pokrovsk. Nelle vicinanze di questo insediamento nella regione di Dnipropetrovsk, alcune fonti russe hanno denunciato che metà del personale del 203° battaglione della 113ª brigata delle Forze armate ucraine sarebbe composta da mercenari colombiani. Ieri, Volodymyr Zelensky ha nominato ambasciatrice negli Usa Olga Stefanishyna, ex vicepremier per l’integrazione euroatlantica.
Oltre i confini ucraini, la percezione della minaccia russa accelera decisioni strategiche in Europa. La Germania ha deciso di raddoppiare la Bundeswehr, portandola a quasi mezzo milione tra effettivi e riservisti. Il piano, annunciato dal ministro della Difesa, Boris Pistorius, prevede un servizio inizialmente volontario, con la prospettiva della leva obbligatoria se i numeri non saranno sufficienti. Dal 1° gennaio, tutti i giovani riceveranno un questionario per valutare forma fisica, competenze e interessi; le donne potranno rispondere volontariamente, gli uomini saranno obbligati. Dal 2027, tutti i diciottenni saranno sottoposti a visita medica, anche senza arruolamento. «La Russia è, e resterà per molto tempo, la più grande minaccia alla libertà, alla pace e alla stabilità in Europa», ha detto il cancelliere Friedrich Merz, spiegando l’obiettivo di dotarsi del più grande esercito convenzionale sul fronte europeo della Nato. La spinta tedesca si intreccia con quella industriale. A Unterluess, vicino Hannover, Rheinmetall ha inaugurato la più grande fabbrica di munizioni d’Europa, con un investimento di 500 milioni di euro. L’azienda prevede di replicare il modello in altri Paesi Nato, creando un ecosistema di difesa paneuropeo. «La capacità produttiva europea di munizioni è cresciuta sei volte in due anni», ha ricordato il segretario generale della Nato, Mark Rutte, evidenziando come l’Europa possa contare su due milioni di munizioni entro fine anno, con Rheinmetall al centro di questa crescita.
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Mentre Usa, Russia e Cina ragionano da grandi potenze, l’Europa valuta di cassare il principio dell’unanimità in politica estera per allargarsi a Est in nome dell’internazionalismo liberale. Ma anziché Mosca, accogliere Kiev e Chisinau danneggerà l’Unione.In Germania la leva obbligatoria scatterà se mancassero volontari. Il Cremlino glissa ancora sul vertice Putin-Zelensky.Lo speciale contiene due articoli.Eliminare il diritto di veto in politica estera: i ministri dei 27 Paesi Ue ne discuteranno al Consiglio Affari esteri informale di domani e sabato, a Copenaghen, sotto l’egida della presidenza danese di turno.Sembra una buona idea: mentre la Storia accelera, l’Unione cerca di snellire il burosauro impedendo che i piccoli Paesi, ovvero l’Ungheria di Viktor Orbán e la Slovacchia di Robert Fico, si mettano di traverso. Il che spianerebbe la strada all’ingresso nel club - in chiave antirussa - dell’Ucraina, oltre che della Moldavia, dove ieri, per celebrare i 34 anni di indipendenza dall’Urss, sono volati Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Donald Tusk. Il triangolo di Weimar all’opera per l’allargamento a Est, cioè per accerchiare Mosca.Ma a conti fatti, se la riforma tanto auspicata da personalità del calibro di Romano Prodi dovesse andare in porto, per l’Europa sarebbe un pessimo affare. Primo, perché si certificherebbe che le decisioni che contano possono prenderle solo Francia e Germania, senza alcun contropotere in grado di bilanciare il loro peso specifico; poi, perché sfilare certe nazioni dall’orbita di Mosca finirà per moltiplicare i conflitti nella parte orientale del Vecchio continente. E per gestirli non basterà tappare la bocca a Budapest e Bratislava. Anzi, il disimpegno americano non farà che accrescere le spinte centripete: alla fine, nel quadro della contesa per la leadership anche dentro la Nato, chi avrà la capacità e il fondo cassa per ristrutturare i propri eserciti dovrà sobbarcarsi l’onere di disinnescare le tensioni, in assenza di una regia politica comune. E, soprattutto, a fronte di interessi sempre più radicalmente divergenti: Kiev ne ha offerto la prova con i suoi attentati al Nord Stream e alle infrastrutture energetiche da cui dipendono i riottosi magiari e gli slovacchi.Il risultato? Una Disunione europea, più simile a un grande telo tirato fino al punto di strappo che a una casa condivisa, in cui coltivare un progetto di cooperazione. Se questa è la risposta all’inconsistenza di Bruxelles, è la risposta sbagliata.La malattia che ci affligge è culturale: mentre le grandi potenze ragionano in termini geopolitici ed economici, l’Europa rimane aggrappata all’ideologia dell’internazionalismo liberale. Pressoché incapace di uscire dagli anni Novanta del secolo scorso.Gli Stati Uniti di Donald Trump si sforzano di sbloccare l’impasse con Mosca per sottrarla all’abbraccio mortale con la Cina, che considerano il loro vero antagonista. È in questa chiave che vanno lette le indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal sui negoziati con Vladimir Putin, che mirerebbero, tra le altre cose, a riportare Exxon Mobil in Russia. In particolare - ha scritto la Tass - con il reintegro nel progetto Sakhalin 1, per la produzione di petrolio e gas. Intanto, i due Paesi hanno riaperto il dialogo sul disarmo nucleare e il tycoon ha sfidato Pechino ad associarsi. Il Dragone ha mangiato la foglia e, ieri, ha risposto che un suo coinvolgimento non sarebbe «né ragionevole né realistico».Può apparire cinica, ma la tattica del presidente americano è chiara: stemperare il carattere moralistico del confronto con gli avversari, intavolando una trattativa su basi commerciali e con obiettivi geopolitici di medio-lungo periodo. Lo zar non è sordo al richiamo: sa che la Federazione sta andando incontro a quella che, sul piano demografico, più che un inverno è un’era glaciale. E sa che un’alleanza con la Cina si risolverebbe in un vassallaggio nei confronti di Xi Jinping.In un simile scenario, colpisce invece la mancanza di profondità strategica del pensiero europeo.Al di là delle lusinghe a Trump, che i leader del continente hanno imparato a temere, l’autentico loro obiettivo sembra essere quello di mandare avanti la guerra fino all’ultimo ucraino. Un proposito forse condiviso con Volodymyr Zelensky, il quale non ha fretta di affrontare nuove elezioni e di tracciare il bilancio di tre anni nei quali aveva promesso la vittoria finale, al prezzo del sacrificio di centinaia di migliaia di giovani, per poi ottenere lo smembramento dell’Ucraina.Ecco, allora, che Kaja Kallas, colei che esprime la politica estera dell’Ue, in un’intervista a Die Welt ribadisce che Kiev dovrebbe colpire in profondità il territorio russo, impiegando le armi occidentali. Esattamente l’opposto di ciò che avrebbero chiesto gli Usa, nel momento in cui stanno tentando di chiudere la questione con Putin. Anche la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, si frega le mani a preparare il prossimo, ennesimo pacchetto di sanzioni. Persino nelle notizie riportate dal Financial Times si colgono pressioni per alzare la posta contro Mosca: stando a fonti, guarda caso, europee e ucraine, citate dal quotidiano britannico, gli americani sarebbero disponibili a offrire sostegno aereo e d’intelligence per la difesa della nazione invasa, ma solo se i volenterosi spedissero truppe nel Donbass.Sulla logica autodistruttiva dell’allargamento a Est, come sulla convinzione che si debba arrivare alla sconfitta di Putin, ovviamente il fattore ideologico non è l’unico a pesare. Quelli che hanno indossato l’elmetto, mandando però a morire gli ucraini, sentono l’esigenza di occultare uno smacco storico. Bisognerebbe ricordarselo, quando le prediche sull’irrilevanza europea arrivano dal pulpito di chi, ai cittadini, dava lezioni su pace e condizionatori.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/veti-europa-ucraina-2673936932.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="per-arruolare-500-000-soldati-berlino-torna-alla-leva-obbligatoria" data-post-id="2673936932" data-published-at="1756365759" data-use-pagination="False"> Per arruolare 500.000 soldati Berlino torna alla leva obbligatoria La diplomazia resta al centro della scena del conflitto ucraino, ma i progressi tra Mosca e Kiev procedono a passo lento. Il Cremlino frena le attese di un vertice tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky: «Qualsiasi incontro tra i presidenti deve essere ben preparato», ha spiegato ieri il portavoce dello zar, Dmitry Peskov, sottolineando che al momento non ci sono date fissate e che il lavoro continuerà in un formato riservato. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti, al contrario, spingono per colloqui concreti e garanzie di sicurezza. L’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, incontrerà questa settimana una delegazione ucraina guidata da Andriy Yermak e Rustem Umerov, discutendo possibili futuri incontri bilaterali tra i due leader.Nel frattempo in Ucraina, dopo oltre tre anni di legge marziale che limitava gli spostamenti, il governo ha deciso di consentire agli uomini tra 18 e 22 anni di attraversare liberamente il confine in entrambe le direzioni, con l’obiettivo di far mantenere ai propri giovani i legami con l’estero e con la patria e ridurre la tensione legata al servizio militare obbligatorio. Un cambiamento significativo che si inserisce in un contesto ancora drammatico sul fronte dei combattimenti. Nella giornata di ieri gli attacchi russi hanno ucciso almeno due civili e ferito altre 28 persone, con infrastrutture energetiche gravemente danneggiate nelle regioni di Sumy, Poltava e Černihiv. Nove località sono state colpite da 21 droni su 95 lanciati, mentre la difesa ucraina ne ha abbattuti 74. A Kherson, un raid notturno ha provocato la morte di una donna di 81 anni, mentre Mosca ha rivendicato la conquista del villaggio di Leontovichi, nel distretto di Pokrovsk. Nelle vicinanze di questo insediamento nella regione di Dnipropetrovsk, alcune fonti russe hanno denunciato che metà del personale del 203° battaglione della 113ª brigata delle Forze armate ucraine sarebbe composta da mercenari colombiani. Ieri, Volodymyr Zelensky ha nominato ambasciatrice negli Usa Olga Stefanishyna, ex vicepremier per l’integrazione euroatlantica.Oltre i confini ucraini, la percezione della minaccia russa accelera decisioni strategiche in Europa. La Germania ha deciso di raddoppiare la Bundeswehr, portandola a quasi mezzo milione tra effettivi e riservisti. Il piano, annunciato dal ministro della Difesa, Boris Pistorius, prevede un servizio inizialmente volontario, con la prospettiva della leva obbligatoria se i numeri non saranno sufficienti. Dal 1° gennaio, tutti i giovani riceveranno un questionario per valutare forma fisica, competenze e interessi; le donne potranno rispondere volontariamente, gli uomini saranno obbligati. Dal 2027, tutti i diciottenni saranno sottoposti a visita medica, anche senza arruolamento. «La Russia è, e resterà per molto tempo, la più grande minaccia alla libertà, alla pace e alla stabilità in Europa», ha detto il cancelliere Friedrich Merz, spiegando l’obiettivo di dotarsi del più grande esercito convenzionale sul fronte europeo della Nato. La spinta tedesca si intreccia con quella industriale. A Unterluess, vicino Hannover, Rheinmetall ha inaugurato la più grande fabbrica di munizioni d’Europa, con un investimento di 500 milioni di euro. L’azienda prevede di replicare il modello in altri Paesi Nato, creando un ecosistema di difesa paneuropeo. «La capacità produttiva europea di munizioni è cresciuta sei volte in due anni», ha ricordato il segretario generale della Nato, Mark Rutte, evidenziando come l’Europa possa contare su due milioni di munizioni entro fine anno, con Rheinmetall al centro di questa crescita.
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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