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2018-11-05
Ogni 100 giovani, 217 anziani e 130 milioni di sim telefoniche: l'Italia nel 2027
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Al netto della propaganda sui temi dell'immigrazione, il rapporto Coop 2018 offre interessanti spunti di riflessione sullo stato delle famiglie italiane. Infatti, se si guarda oltre la retorica immigrazionista (si legge, tra le altre cose, che l'aumento della quota della popolazione anziana mette a rischio la possibilità di disporre di risorse adeguate per il sostegno alle persone in età avanzata, sia in termini di prestazioni pensionistiche che di servizi di assistenza») si può scoprire un divario emergente nella popolazione italiana, spaccata tra nostalgici ed esploratori. Siamo davanti a un Paese polarizzato e diviso, tra paura del nuovo o voglia di sperimentare, incertezza o fiducia nelle innovazioni tecnologiche e nel futuro.
Sono sicuramente gli effetti della lunga crisi economica che emergono spulciando tra i numeri relativi alla famiglia. Basti pensare che l'Italia è ultima in Europa consumi (dati relativi al 2017), con una riduzione della spesa delle famiglie superiore al 2% rispetto al 2010. Una situazione preoccupante, ancor più preoccupante però se rapportata agli incrementi registrati in Germania (+12,7%) e Francia (+10,2%). E pur in un contesto di segno favorevole, l'ultimo anno restituisce indicazioni non molto diverse, se si considera che l'incremento italiano (+0,7%) è il più basso tra le grandi economie europee. A rafforzare i sospetti di disparità sociali nel nostro Paese c'è un elemento in particolare: le famiglie benestanti spendono infatti quattro volte di più rispetto a quelle con bassa capacità di spesa. Di conseguenza, si polarizzano anche gli acquisti: crescono da una parte i prodotti ad alto valore aggiunto (quelli biologici e salutistici, per esempio), dall'altra i prodotti low cost.
Guardando invece alla distruzione dei consumi per voce di spesa, insieme a quelle spagnole, le famiglie italiane sono quelle che destinano le minori risorse (43%) all'acquisto dei servizi, soprattutto per effetto dell'importanza che il cibo, contabilizzato nella statistica ufficiale tra i beni, riveste nel modello di consumo nei Paesi dell'area mediterranea. Ma sempre guardando le voci di spese si notano le peculiarità del paradigma di consumo delle famiglie italiane. Posta pari a 100 la spesa in servizi, una quota non distante dal 40% prende la via del tempo libero, a suggerire che viaggi e divertimento, teatro e spettacoli, cinema e sport identificano un modo di vivere tipico delle famiglie italiane. Invece, spendiamo meno, almeno in termini relativi, per la casa e le comunicazioni: merito, da una parte, di una ampia diffusione dell'abitazione di proprietà e di livello degli affitti che risulta tipicamente più contenuto se paragonato al costo di una abitazione nei grandi centri urbani degli altri Paesi europei e, dall'altra, di una maggiore competizione che tende a comprimere i prezzi praticati al consumatore finale.
A mutare è anche la famiglia, un tempo tradizionale, unica e indivisibile, identificata nell'immaginario collettivo come la classica coppia sposata (un uomo e una donna) con figli (almeno due). Forse era un'immagine semplicistica, ma per decenni ha sostanzialmente coinciso con la realtà dei fatti. Tuttavia dagli anni Sessanta e poi nei decenni successivi, molto è cambiato. Il primo fenomeno: sono cresciute rapidamente le famiglie unipersonali, costituite cioè da un solo componente: dal 10% nel 1961 al 20% nel 1991 fino ad arrivare al 30% del totale delle famiglie ai giorni nostri, superando di poco la soglia di 8 milioni di individui. Il secondo fenomeno: il calo delle nascite e, di conseguenza, del numero medio di figli per donna. L'Italia è notoriamente sempre più un Paese senza figli (il 2017 ha fatto registrare l'ennesimo record negativo, con 9.000 bambini nati in meno rispetto al 2016) ma nel contempo è sempre più un Paese «senza madri»: i più recenti dati Istat relativi agli indicatori demografici certificano che in dieci anni la platea delle madri potenziali si è, infatti, ridimensionata in maniera preoccupante (dal 2008 a oggi si contano 900.000 donne in meno in età compresa tra i 15 e i 50 anni, di cui 200.000 solo nell'ultimo anno), mentre le donne che diventano mamme davvero lo fanno sempre più in ritardo, con un'età media al parto salita a più di 33 anni (mentre gli uomini si affacciano alla paternità in media solo dopo aver compiuto 37 anni) e quasi un italiano su due ritiene oramai che le donne non dovrebbero cominciare a pensare di diventare madri prima dei 35 anni.
Ed è proprio il numero di figli ad aver avuto un impatto sul sistema economico nazionale e in particolare sui livelli di consumo di beni e servizi. Elaborando i micro dati dell'indagine Istat sui consumi delle famiglie, è possibile stimare, si legge nel rapporto, che se anche solo un 10% delle famiglie attualmente senza figli accedesse alla condizione di genitorialità, l'impatto sarebbe di circa 2 miliardi di euro di maggiori consumi.
C'è infine un interessante capitolo che riguarda il rapporto degli italiani con il digitale. Con la più alta percentuale di Sim per abitante in Ue (100 milioni sono quelle attive in Italia e si calcola che fra dieci anni saranno 130 milioni), gli italiani dimostrano da tempo di non aver paura delle tecnologie. Dopo lo scandalo Facebook che ha fatto emergere le criticità della Rete circa la sicurezza dei dati personali, siamo ormai coscienti del rischio di dipendenza smartphone, soprattutto nei giovani matura un approccio più critico verso il digitale. E così, dalle foto alla musica, qualcuno riscopre il gusto dell'analogico tra rullini, libri di carta e vinili. O, parlando di telefonini, del vintage: basti pensare al ritorno del brand Nokia, che punta tutto sulla semplicità e le poche funzionalità dei suoi apparecchi.
Gabriele Carrer
Nel 2080 il numero degli italiani scenderà a 53 milioni
GiphyLa crisi economica degli ultimi dieci anni gli italiani non l'hanno ancora pagata del tutto. Oltre alle tasche dei cittadini, a svuotarsi, secondo le previsioni, sarà l'Italia.
Secondo il rapporto Coop, entro il 2080 il numero di italiani scenderà dell'11,5%, passando dagli attuali 60,5 milioni a circa 53.
Come se non bastasse, inoltre, lo studio realizzato dall'Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) guidato dal direttore Albino Russo, sottolinea che questa sarebbe una stima prudenziale e pertanto il calo demografico potrebbe essere anche peggiore.
Non basta: entro il 2066, continua lo studio, al nord vivrà oltre il 50% della popolazione, mentre nel Mezzogiorno vivrà solo il 29% degli italiani, perdendo dunque terreno rispetto a oggi dove al Sud vive il 34% del totale. Le regioni del Centro-Nord, in particolar modo, nei prossimi trent'anni sono le uniche che sperimenteranno una crescita demografica, in buona misura grazie a migrazioni interregionali di italiani che si spostano da una regione all'altra.
In compenso, nei prossimi cinquanta anni il Sud e le Isole perderanno complessivamente circa 5 milioni di abitanti, oltre i tre quarti del calo demografico totale della penisola.
Quel che è peggio è che, mentre lo Stivale si vuota, altri Stati si popolano. Nei prossimi 50-60 anni, spiega lo studio, in Spagna e Francia la popolazione crescerà rispettivamente del +9,8% e del +18,5%. Ancor più nel Regno Unito (+27,1%) e nei Paesi dell'area scandinava (l'incremento in Svezia e Norvegia potrebbe superare il 35%, il più elevato in Europa), che dovrebbero beneficiare del mutamento delle condizioni climatiche e dell'accessibilità di nuove aree per la creazione di nuovi centri urbani. Segno meno, ma di entità minore rispetto all'Italia, per la Germania che in futuro perderà il 4,2% della popolazione.
In questo contesto, inoltre, ad avere la peggio saranno i piccoli centri urbani, da sempre uno degli elementi identitari della geografia italiana.
Infatti, i movimenti demografici futuri, in un contesto di rapidi cambiamenti tecnologici (disponibilità della banda larga, ripensamento degli ambienti urbani in chiave più ecosostenibile) tenderanno a favorire i centri di maggiori dimensioni a svantaggio dei circa 8.000 comuni italiani presenti sul territorio (di cui due terzi con meno di 5.000 abitanti).
Secondo una recente analisi a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, se le tendenze demografiche dovessero seguire gli scenari descritti nei prossimi decenni, il 37% dei Comuni italiani è a rischio estinzione e in quasi tutte le regioni del Sud dove tale incidenza supera il 50%.
C'è poi il tema dell'invecchiamento, spiega l'indagine Coop, che avrà un impatto diretto sui conti pubblici. Secondo le ultime proiezioni dell'Istat, la vita media dovrebbe crescere di oltre cinque anni per entrambi i sessi, raggiungendo 86,1 anni e 90,2 anni rispettivamente per uomini e donne (dagli 80,6 e 85 anni di oggi).
Ciò significa un ulteriore spostamento in alto dell'età media, dagli attuali 44,9 ad oltre 50 anni nel 2066. Per avere un confronto, alla stessa data, francesi e spagnoli avranno in media sette anni di meno: in parole povere, maggiore dinamismo della società e un costo minore sotto il profilo previdenziale
Perché? Quella anziana sarà la componente prevalente della futura popolazione italiana, se è vero che entro dieci anni ad ogni 100 giovani corrisponderanno 217 anziani. In questo contesto gli ultracentenari saliranno esponenzialmente, dalle 17.000 unità attuali agli oltre 120.000. Il saldo naturale passerà dall'attuale -183.000 a -400.000 (con 800.000 decessi e 400.000 nascite all'anno).
Secondo le stime contenute nel Def, questo comporterà un aumento della spesa previdenziale che passerà dall'attuale 15,3% del prodotto interno lordo a circa il 18,4% nel 2040.
Gianluca Baldini
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Al di là dell'ideologia il rapporto Coop 2018 contiene dati interessanti per capire il futuro del nostro Paese. Cresce l'età media: gli ultracentenari saliranno esponenzialmente, dalle 17.000 unità attuali agli oltre 120.000, mentre dal 2008 a oggi si contano 900.000 donne in meno in età compresa tra i 15 e i 50 anni. E il 37% dei Comuni è a rischio estinzione.I consumi si sono ridotti del 2% rispetto al 2010 a differenza di Germania e Francia dove la spesa è aumentata rispettivamente del 12,7% e del 10,2%. Ma se solo un 10% delle famiglie attualmente senza figli accedesse alla condizione di genitorialità, l'impatto sarebbe di circa 2 miliardi di euro di Pil in più.Lo speciale comprende due articoli.!function(e,t,n,s){var i="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName(t)[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(s)&&(s=d+s),window[i]&&window[i].initialized)window[i].process&&window[i].process();else if(!e.getElementById(n)){var a=e.createElement(t);a.async=1,a.id=n,a.src=s,o.parentNode.insertBefore(a,o)}}(document,"script","infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js");Al netto della propaganda sui temi dell'immigrazione, il rapporto Coop 2018 offre interessanti spunti di riflessione sullo stato delle famiglie italiane. Infatti, se si guarda oltre la retorica immigrazionista (si legge, tra le altre cose, che l'aumento della quota della popolazione anziana mette a rischio la possibilità di disporre di risorse adeguate per il sostegno alle persone in età avanzata, sia in termini di prestazioni pensionistiche che di servizi di assistenza») si può scoprire un divario emergente nella popolazione italiana, spaccata tra nostalgici ed esploratori. Siamo davanti a un Paese polarizzato e diviso, tra paura del nuovo o voglia di sperimentare, incertezza o fiducia nelle innovazioni tecnologiche e nel futuro.Sono sicuramente gli effetti della lunga crisi economica che emergono spulciando tra i numeri relativi alla famiglia. Basti pensare che l'Italia è ultima in Europa consumi (dati relativi al 2017), con una riduzione della spesa delle famiglie superiore al 2% rispetto al 2010. Una situazione preoccupante, ancor più preoccupante però se rapportata agli incrementi registrati in Germania (+12,7%) e Francia (+10,2%). E pur in un contesto di segno favorevole, l'ultimo anno restituisce indicazioni non molto diverse, se si considera che l'incremento italiano (+0,7%) è il più basso tra le grandi economie europee. A rafforzare i sospetti di disparità sociali nel nostro Paese c'è un elemento in particolare: le famiglie benestanti spendono infatti quattro volte di più rispetto a quelle con bassa capacità di spesa. Di conseguenza, si polarizzano anche gli acquisti: crescono da una parte i prodotti ad alto valore aggiunto (quelli biologici e salutistici, per esempio), dall'altra i prodotti low cost.Guardando invece alla distruzione dei consumi per voce di spesa, insieme a quelle spagnole, le famiglie italiane sono quelle che destinano le minori risorse (43%) all'acquisto dei servizi, soprattutto per effetto dell'importanza che il cibo, contabilizzato nella statistica ufficiale tra i beni, riveste nel modello di consumo nei Paesi dell'area mediterranea. Ma sempre guardando le voci di spese si notano le peculiarità del paradigma di consumo delle famiglie italiane. Posta pari a 100 la spesa in servizi, una quota non distante dal 40% prende la via del tempo libero, a suggerire che viaggi e divertimento, teatro e spettacoli, cinema e sport identificano un modo di vivere tipico delle famiglie italiane. Invece, spendiamo meno, almeno in termini relativi, per la casa e le comunicazioni: merito, da una parte, di una ampia diffusione dell'abitazione di proprietà e di livello degli affitti che risulta tipicamente più contenuto se paragonato al costo di una abitazione nei grandi centri urbani degli altri Paesi europei e, dall'altra, di una maggiore competizione che tende a comprimere i prezzi praticati al consumatore finale.A mutare è anche la famiglia, un tempo tradizionale, unica e indivisibile, identificata nell'immaginario collettivo come la classica coppia sposata (un uomo e una donna) con figli (almeno due). Forse era un'immagine semplicistica, ma per decenni ha sostanzialmente coinciso con la realtà dei fatti. Tuttavia dagli anni Sessanta e poi nei decenni successivi, molto è cambiato. Il primo fenomeno: sono cresciute rapidamente le famiglie unipersonali, costituite cioè da un solo componente: dal 10% nel 1961 al 20% nel 1991 fino ad arrivare al 30% del totale delle famiglie ai giorni nostri, superando di poco la soglia di 8 milioni di individui. Il secondo fenomeno: il calo delle nascite e, di conseguenza, del numero medio di figli per donna. L'Italia è notoriamente sempre più un Paese senza figli (il 2017 ha fatto registrare l'ennesimo record negativo, con 9.000 bambini nati in meno rispetto al 2016) ma nel contempo è sempre più un Paese «senza madri»: i più recenti dati Istat relativi agli indicatori demografici certificano che in dieci anni la platea delle madri potenziali si è, infatti, ridimensionata in maniera preoccupante (dal 2008 a oggi si contano 900.000 donne in meno in età compresa tra i 15 e i 50 anni, di cui 200.000 solo nell'ultimo anno), mentre le donne che diventano mamme davvero lo fanno sempre più in ritardo, con un'età media al parto salita a più di 33 anni (mentre gli uomini si affacciano alla paternità in media solo dopo aver compiuto 37 anni) e quasi un italiano su due ritiene oramai che le donne non dovrebbero cominciare a pensare di diventare madri prima dei 35 anni. Ed è proprio il numero di figli ad aver avuto un impatto sul sistema economico nazionale e in particolare sui livelli di consumo di beni e servizi. Elaborando i micro dati dell'indagine Istat sui consumi delle famiglie, è possibile stimare, si legge nel rapporto, che se anche solo un 10% delle famiglie attualmente senza figli accedesse alla condizione di genitorialità, l'impatto sarebbe di circa 2 miliardi di euro di maggiori consumi.C'è infine un interessante capitolo che riguarda il rapporto degli italiani con il digitale. Con la più alta percentuale di Sim per abitante in Ue (100 milioni sono quelle attive in Italia e si calcola che fra dieci anni saranno 130 milioni), gli italiani dimostrano da tempo di non aver paura delle tecnologie. Dopo lo scandalo Facebook che ha fatto emergere le criticità della Rete circa la sicurezza dei dati personali, siamo ormai coscienti del rischio di dipendenza smartphone, soprattutto nei giovani matura un approccio più critico verso il digitale. E così, dalle foto alla musica, qualcuno riscopre il gusto dell'analogico tra rullini, libri di carta e vinili. O, parlando di telefonini, del vintage: basti pensare al ritorno del brand Nokia, che punta tutto sulla semplicità e le poche funzionalità dei suoi apparecchi.Gabriele Carrer<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/speciale-lunedi-2617669191.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nel-2080-il-numero-degli-italiani-scendera-a-53-milioni" data-post-id="2617669191" data-published-at="1766798827" data-use-pagination="False"> Nel 2080 il numero degli italiani scenderà a 53 milioni Giphy La crisi economica degli ultimi dieci anni gli italiani non l'hanno ancora pagata del tutto. Oltre alle tasche dei cittadini, a svuotarsi, secondo le previsioni, sarà l'Italia.Secondo il rapporto Coop, entro il 2080 il numero di italiani scenderà dell'11,5%, passando dagli attuali 60,5 milioni a circa 53.Come se non bastasse, inoltre, lo studio realizzato dall'Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) guidato dal direttore Albino Russo, sottolinea che questa sarebbe una stima prudenziale e pertanto il calo demografico potrebbe essere anche peggiore.Non basta: entro il 2066, continua lo studio, al nord vivrà oltre il 50% della popolazione, mentre nel Mezzogiorno vivrà solo il 29% degli italiani, perdendo dunque terreno rispetto a oggi dove al Sud vive il 34% del totale. Le regioni del Centro-Nord, in particolar modo, nei prossimi trent'anni sono le uniche che sperimenteranno una crescita demografica, in buona misura grazie a migrazioni interregionali di italiani che si spostano da una regione all'altra.In compenso, nei prossimi cinquanta anni il Sud e le Isole perderanno complessivamente circa 5 milioni di abitanti, oltre i tre quarti del calo demografico totale della penisola.Quel che è peggio è che, mentre lo Stivale si vuota, altri Stati si popolano. Nei prossimi 50-60 anni, spiega lo studio, in Spagna e Francia la popolazione crescerà rispettivamente del +9,8% e del +18,5%. Ancor più nel Regno Unito (+27,1%) e nei Paesi dell'area scandinava (l'incremento in Svezia e Norvegia potrebbe superare il 35%, il più elevato in Europa), che dovrebbero beneficiare del mutamento delle condizioni climatiche e dell'accessibilità di nuove aree per la creazione di nuovi centri urbani. Segno meno, ma di entità minore rispetto all'Italia, per la Germania che in futuro perderà il 4,2% della popolazione.In questo contesto, inoltre, ad avere la peggio saranno i piccoli centri urbani, da sempre uno degli elementi identitari della geografia italiana.Infatti, i movimenti demografici futuri, in un contesto di rapidi cambiamenti tecnologici (disponibilità della banda larga, ripensamento degli ambienti urbani in chiave più ecosostenibile) tenderanno a favorire i centri di maggiori dimensioni a svantaggio dei circa 8.000 comuni italiani presenti sul territorio (di cui due terzi con meno di 5.000 abitanti).Secondo una recente analisi a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, se le tendenze demografiche dovessero seguire gli scenari descritti nei prossimi decenni, il 37% dei Comuni italiani è a rischio estinzione e in quasi tutte le regioni del Sud dove tale incidenza supera il 50%.C'è poi il tema dell'invecchiamento, spiega l'indagine Coop, che avrà un impatto diretto sui conti pubblici. Secondo le ultime proiezioni dell'Istat, la vita media dovrebbe crescere di oltre cinque anni per entrambi i sessi, raggiungendo 86,1 anni e 90,2 anni rispettivamente per uomini e donne (dagli 80,6 e 85 anni di oggi).Ciò significa un ulteriore spostamento in alto dell'età media, dagli attuali 44,9 ad oltre 50 anni nel 2066. Per avere un confronto, alla stessa data, francesi e spagnoli avranno in media sette anni di meno: in parole povere, maggiore dinamismo della società e un costo minore sotto il profilo previdenzialePerché? Quella anziana sarà la componente prevalente della futura popolazione italiana, se è vero che entro dieci anni ad ogni 100 giovani corrisponderanno 217 anziani. In questo contesto gli ultracentenari saliranno esponenzialmente, dalle 17.000 unità attuali agli oltre 120.000. Il saldo naturale passerà dall'attuale -183.000 a -400.000 (con 800.000 decessi e 400.000 nascite all'anno).Secondo le stime contenute nel Def, questo comporterà un aumento della spesa previdenziale che passerà dall'attuale 15,3% del prodotto interno lordo a circa il 18,4% nel 2040.Gianluca Baldini
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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