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2018-12-17
I primi 15 costruttuori di armi fatturano quanto Toyota. Per questo all'Occidente (e all'Italia) serve l'Arabia Saudita
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ANSA
Nonostante le proteste arrivate un po' da tutto il mondo, in particolare dal mondo giornalistico dopo la morte del dissidente saudita Jamal Khashoggi, mercoledì 16 gennaio a Jeddah in Arabia Saudita ci sarà la finale di Supercoppa Italiana tra Milan e Juventus. La monarchia saudita ha investito su questo incontro quasi 7 milioni di euro, una cifra importante per la nostra Serie A, da tempo lontana dai palcoscenici mondiali. Ma per essere ancora più precisi la sfida che vedrà tra un mese confrontarsi rossoneri e bianconeri rappresenta la prima pietra per il riscatto dei sauditi, un Paese da due anni in recessione che sta provando a ristrutturarsi economicamente. A prevalenza religiosa musulmana, (85-90% sunniti e 10-15% sciiti), il calo del prezzo del petrolio nel triennio 2015-2017 ha fatto diminuire gli introiti erariali (25 miliardi dollari nel 2015 e 21 miliardi nel 2016, rispetto agli oltre 40 miliardi degli anni precedenti) Ma la spesa pubblica è rimasta pressoché inalterata (41 miliardi dollari nel 2015 e 39 miliardi nel 2016), di cui la voce principale è costituita dai salari pubblici, che assorbono circa la metà del totale. La situazione ha portato a un deficit fiscale crescente, attivato nel 2016 a -17,2. Nell'aprile del 2016 la politica economica saudita è stata rivista con l'adozione della strategia di sviluppo Vision 2030, con il tanto contestato principe Mohammed bin Salman, l'erede al trono. Con Vision 2030, il Regno vuole rientrare tra le prime economie al mondo per prodotto interno lordo, creare sufficienti opportunità di lavoro per la crescente fetta di giovani che entrano nel mercato del lavoro, sviluppare filiere industriali nazionali (settore della difesa, minerario, energie rinnovabili, turismo), promuovere il settore privato e le piccole e medie imprese. Tra gli obiettivi fiscali, la tassazione dei consumi (con prime misure su bevande e tabacchi adottate a giugno 2017), la tassazione sui lavoratori stranieri (da luglio 2017) e l'introduzione dell'Iva dal 2018. Juventus-Milan quindi è solo una piccola fetta dell'immagine del Regno all'estero. Da qui ai prossimi vent'anni i sauditi vogliono facilitare gli scambi internazionali, tanto da aver lanciato nel gennaio del 2017 un portale interattivo chiamato "eServices" che punta a facilitare il processo di trasmissione dei documenti per l'esportazione di merci verso l'Arabia Saudita.
Per l'Italia è un'occasione ghiotta dal punto di vista economico, anche se non si può dimenticare che dal punto di vista diplomatico per noi potrebbe rappresentare un problema, dal momento che da giugno 2017 Bin Salman ha proibito tutte le importazioni dal Qatar e interrotto i collegamenti terrestri, marittimi e aerei con Doha, dove nel 2016 si era giocato sempre un Juventus Milan per la Supercoppa italiana. Nel marzo di quest anno si è svolto a Roma il Business Forum Italy-Saudi Arabia, dove è stato spiegato che l'Arabia Saudita esporta per 17 miliardi di dollari e importa per 29 miliardi. A fare da anfitrione l'avvocato, Antonio Fabbricatore, che non è l'unico in Italia a essersi mosso in queste settimane per favorire lo scambio tra i nostri Paesi. La politica sembra molto attenta soprattutto ai possibili investimenti militari con Jeddah, come Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Affari esteri, tra i primi iscritti al Centro Studi Machiavelli che pochi giorni fa ha presentato un dossier sulle spese militari in Arabia Saudita, con un approfondimento con valutazioni comparative e prospettive future.
Il programma "Vision 2030" punta localizzare internamente il 50% della spesa per la Difesa, incrementando l'autonomia dai fornitori occidentali e il know-how militare. Il tema è delicato, perché giusto la scorsa settimana iI Senato americano ha contraddetto Donald Trump nei rapporti diplomatici con l'Arabia Saudita, votando a netta maggioranza bipartisan una risoluzione per un rapido ritiro di ogni sostegno alla guerra di Riad nello Yemen, dove l'Italia è già al fianco dei Sauditi. Tanto che secondo dati Sipri, se nel 2011 gli investimenti i ricavi si attestavano a 166 milioni di euro, già nel 2016 la cifra toccava i 427,5 milioni di euro.
Le relazioni dei sauditi con i nostri servizi segreti forti anche dopo Hacking team
L'Aise, il nostro servizio segreto estero, è stato citato spesso nelle ultime settimane, non solo per il cambio ai vertici con l'arrivo di Luciano Carta. Se n'è parlato sia durante il processo sul giacimento Opl-245 in Nigeria in corso a Milano, sia oltreoceano, negli Stati Uniti, dal momento che un articolo del Washington Post ha risollevato la questione Hacking team e il ruolo che avrebbe avuto la società italiana nell'omicidio del dissidente saudita Jamal Khashoggi. Se nel processo nigeriano a parlare degli agenti di intelligence è stato ex console italiano, Antonio Giandomenico, - citando il dirigente Aise Salvatore Castilletti che gli avrebbe consigliato di prendere come viceconsole uno degli imputati ovvero Gianfranco Falcioni - nel caso saudita sono i report di Wikileaks a parlare.
Il tema è molto complesso, anche perché tocca da vicino l'esportazione di materiale a doppio uso, ovvero con possibilità di utilizzo sia a fini civili sia militari. In questi anni il ministero per lo Sviluppo Economico non ha mai risposto a diverse inchieste giornalistiche portate avanti in particolare sull'esportazione di software spia, come raccontato da Luca Rinaldi su Lettera43 e sul Fatto Quotidiano. «Vendere fuori dall'Europa programmi "dual use" - utilizzabili sia per scopi civili sia militari - richiede una licenza per l'esportazione, secondo le regole Ue. Quali società l'hanno ottenuta? E verso quali destinazioni? Dei 28 Paesi dell'Unione, 11 (tra cui il nostro) si rifiutano di comunicare questo dato: «Gli atti sono sottratti all'accesso», fa sapere il Mise. Gli altri affermano di aver concesso 317 nullaosta, negandone solo 16: nel 29,7% dei casi, destinatari sono nazioni considerate "non libere" come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Colombia, Turchia».
La questione è stata sollevata anche grazie a un'interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle, dove si legge che gli unici dati disponibili al riguardo sono rinvenibili nella «Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo delle esportazioni, importazione e transito dei materiali di armamento», che però non distinguerebbero le categorie dei beni dual-use, ma che comunque riporterebbero per il 2015 un totale di 901 autorizzazioni per un valore di circa 776 milioni di euro. Non solo. Collin Anderson, esperto di cybersicurezza americano, sostiene che: «Il caso Hacking Team ha svelato che l'Italia non ha prestato molta attenzione all'aspetto dei diritti umani, visti i Paesi per cui ha concesso le licenze. Per avere idea di cosa è successo dopo dovremo avere un altro caso simile, ma è improbabile». Il caso è collegato direttamente con Kashoggi, perché l'agente Maher Abdulaziz Mutreb, come ha anche ricordato Il Giornale in un articolo di ottobre, è stato identificato dagli investigatori turchi come uno dei 15 uomini della squadra saudita che avrebbe eliminato il giornalista scomodo a Istanbul.
Mater A Mutreb, infatti, molto vicino al principe Bin Salman, comprare infatti nelle liste pubblicate da Wikileaks nel 2015, dopo che il portale aveva reso noto documenti e mail della società che ha sede in via Moscova a Milano. In una mail ricevuta il 26 gennaio da Marco Bettini, responsabile commerciale, si trovava appunto il nome di Mutreb insieme con altri nomi per un addestramento di 8 settimane. «Siamo pronti ad ospitare il tuo staff la prossima settimana per la formazione adv. Voglio presentarti il mio nuovo collega che è responsabile dei paesi arabi; il suo nome è Mostapha Maanna, è libanese, nato a Riyadh (Arabia Saudita)», scriveva Bettini. C'è da dire che in quei file di Wikileaks si è venuto a scoprire che tra i clienti dell'Hacking Team c'erano anche Polizia, Carabinieri e Presidenza del Consiglio. Del resto la società milanese produceva l'Rcs, uno dei programmi di intercettazione migliori al mondo, utilizzato dallo stesso Aise.
Riad fa litigare Parlamenti e governi sia in Italia che negli Usa. Intanto la Cina si frega le mani
Yemen, attacchi aerei sauditi a SanaaLaPresse
Parlamenti e governi spesso non sono allineati. Accade in Italia e soprattutto negli Usa. I motivi sono simili e le tensioni riguardano in entrambe i casi la vendita di armi all'Arabia Saudita. Nella notte tra il 13 e il 14 dicembre, il Senato americano si è opposto al presidente, Donald Trump, e alla politica estera americana impressa dall'attuale amministrazione in capo alla Casa Bianca. «La Camera Alta ha votato la fine del sostegno a Riad nello Yemen; inoltre, il principe ereditario Mohammed bin Salman è responsabile per la morte del giornalista dissidente Jamal Khashoggi», si legge sul sito asianews.it.
La scorsa settimana i senatori avevano già marcato una netta distinzione rispetto al presidente Trump, affermando che non vi fosse nessun dubbio sul coinvolgimento del principe coronato nel brutale assassinio avvenuto il 2 ottobre scorso al consolato saudita di Istanbul.
«Resta però una decisione storica, con 56 senatori favorevoli (e 41 contrari) a interrompere il sostegno alla coalizione militare araba a guida saudita in Yemen, responsabile secondo l'Onu e agenzie umanitarie della morte di civili, anche bambini», si legge sempre sul sito. «Per la prima volta, dunque, le due camere sono favorevoli al ritiro delle forze armate, utilizzando i poteri previsti dal War Powers Act. Una norma del 1973, che limita i poteri del capo della Casa Bianca nel disporre delle Forze armate senza il consenso del Congresso». In realtà, la mossa è puramente politica e sembra mirata esclusivamente a mettere in difficoltà Trump. Nessun esecutivo precedente e nessuno tra quelli futuri si intesterà una battaglia contro il primo consumatore di armi al mondo. Soprattutto per il semplice fatto che tra le prime 100 corporation della Difesa ben 51 hanno sede negli Stati uniti. «Per ora non vi sono reazioni ufficiali del presidente Trump, che dietro le quinte ribadisce il sostegno all'Arabia Saudita e Bin Salman», riporta il sito. Un portavoce della Casa Bianca ha ricordato gli "interessi strategici" in ballo con il regno che "restano" a dispetto delle scelte dei senatori; tuttavia, i sostenitori della mozione, compresi i Repubblicani, promettono di continuare la loro battaglia. Qualcosa di simile anche se molto più soft ha fatto il Parlamento italiano.
Lo scorso 27 novembre un gruppo di deputati trasversali in seno alla Commissione esteri ha proposto una mozione con l'obiettivo di vendere armi all'Arabia. D'altronde il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha più volte esternato in merito e recentemente è stata ripresa dalla Lega. A settembre Il sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, aveva replicato su twitter all'appello lanciato dal ministro della Difesa al collega agli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, chiedendo una verifica sul rispetto delle leggi sul commercio di armamenti: «Se cambia l'indirizzo politico, il governo sia consapevole di ogni conseguenza negativa occupazionale e commerciale». Insomma tanto realismo, lo stesso che dovrebbe impedire al Parlamento qualunque mozione. Non tutti ne sono però certi tanto più che durante il recente incontro tra Giuseppe Conte e il principe Mohammed bin Salman si è discusso proprio di lista bianca dell'export di armi. I sauditi vogliono la garanzia che il proprio Paese resti sempre nell'elenco dei partner. Il timore dei diplomatici è che il nostro Parlamento possa sostituire Riad con Pechino. Una fetta dei 5 stelle sarebbe al lavoro per favorire la Cina e sponsorizzare un cambio di passo storico.
Le prime 15 aziende della Difesa fatturano 231 miliardi, meno della Toyota
GiphyLe vendite di armi in capo alle 100 maggiori società produttrici di armi e servizi militari (Sipri Top 100) hanno totalizzato nel 2017 una cifra superiore ai 398,2 miliardi. Si è registrato un aumento del 2,5% rispetto al 2016 e segna il terzo anno consecutivo di crescita del trend che in ogni caso con qualche alto e basso ha portato a una impennata in soli 15 anni addirittura del 44%.In questo panorama di crescita il fatturato delle prime 15 aziende manifatturiere della lista è quasi sei volte maggiore delle vendite complessive di armi combinate delle prime 100 società produttrici di armi. In pratica 231 miliardi contro 398. Per inquadrare le cifre è bene però segnalare che le vendite di una sola compagnia, la Toyota, la più grande azienda manifatturiera del mondo, hanno totalizzato 254,7 miliardi. In pratica il 10% in più delle vendite totali tra iprimi 15 produttori di armi globali. Lockheed Martin, la più grande azienda al mondo nel settore degli armamenti, è classificata al 178 ° posto nella classifica Fortune Global 500 per il 2017 e si colloca al di fuori dei 50 maggiori produttori. Le sue vendite di armi rappresentano solo il 18% delle vendite totali di Toyota e rappresentano circa la metà delle vendite totali della società classificate al quindicesimo posto nel Fortune Global 500: China railway and engineering group.
Definito il perimetro, sebbene non ci siano dati precisi e ufficiali, l'Arabia Saudita negli ultimi dieci anni è diventata una delle prime nazioni acquirenti e importatori di armi. Gli Usa rappresentano oltre la metà delle importazioni di armi dell'Arabia Saudita. Le forniture di attrezzature e servizi per la difesa saudita sono aumentate drasticamente, da 1,9 miliardi di dollari nel 2008 a un picco di 8,3 miliardi nel 2016 e naturalmente per un valore stimato di 7,3 miliardi nel 2018. La quota americana di tali importazioni è aumentata, passando dal 31% nel 2008 a un 53% stimato quest'anno. Gli altri principali fornitori, almeno nel 2017, sono stati il Regno Unito e il Canada, seguiti da Germania e Francia e molto alla lontana l'Italia. Le esportazioni militari statunitensi in Arabia Saudita sono comunque una goccia nel mare delle esportazioni degli Stati Uniti. L'equipaggiamento militare ha rappresentato il 18% delle esportazioni statunitensi in Arabia Saudita lo scorso anno, ma solo lo 0,13% delle esportazioni totali mondiali, secondo i dati ufficiali. «Le importazioni saudite di alcuni prodotti specifici, come bombe e missili, sono aumentate drasticamente», scriveva recentemente il Financial Times, «rendendole un cliente importante per i produttori di tali armi. Dell'accordo americano di vendere 110 miliardi di armi al regno. Ma al momento se ne sono finalizzati circa 14. Lockheed Martin, il gruppo americano di difesa e aerospaziale, ha detto che la sua parte del piano potrebbe valere 28 miliardi di vendite». L'Arabia Saudita è stato un mercato molto importante pure per l'industria della difesa del Regno Unito, con un 36% di tutte le esportazioni, secondo i dati di Sipri. Il tutto in un trend crescente.
Ecco perché nessun Paese in questo momento può permettersi di abbandonare Riad se vuole cavalcare l'onda in crescita del mercato della Difesa. Chi, come la Germania, fa dichiarazioni contrastanti è perché si è già agganciata al Dragone. Di quest'ultimo non ci sono dati statistici, ma nessuno ha dubbi sui progressi militari di Pechino che fa una sua corsa autonoma. Al momento l'Arabia non è in grado di rifornirsi dalla Cina (gli hangar di Riad sono pieni di velivoli americani e lo switch non è fattibile in tempi mediamente brevi) ma se un giorno il regno decidesse di aprire una nuova linea di rifornimenti per l'Occidente sarebbe un colpo pesantissimo.
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All'indomani della morte di Jamal Khashoggi, la Serie A ha confermato lo svolgimento della Supercocca tra Juventus e Milan a Jeddah. Il nostro calcio ha bisogno di Riad da quando il Qatar è finito nella lista nera proprio dei sauditi. Le polemiche dei diritti umani sono una ulteriore ipocrisia di chi spera che il nostro Paese si schieri con altri Paesi. In realtà i rapporti dei nostri servizi con quelli guidati da Mohammed Bin Salman restano buoni e lo sono anche dopo la violazione di Hacking team, la più grande azienda italiana di software violata nel 2015.Il Parlamento italiano e americano vorrebbero impedire ai rispettivi governi di esportare armamenti in nella penisola saudita, ma le mozioni rispondono solo a logiche politiche interne.Le prime 100 imprese della Difesa fatturano 398 miliardi, le prime 15 valgono 231 miliardi. Più o meno il giro d'affari della principale società automotive giapponese. Il regno arabo con "Vision 2030" punta a crescere e allargare la propria potenza. Le company Usa e pure quelle europee non possono crescere se non agganciano il trend miliatre dei Bin Salman.Lo speciale contiene quattro articoli!function(e,t,s,i){var n="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName("script")[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(i)&&(i=d+i),window[n]&&window[n].initialized)window[n].process&&window[n].process();else if(!e.getElementById(s)){var r=e.createElement("script");r.async=1,r.id=s,r.src=i,o.parentNode.insertBefore(r,o)}}(document,0,"infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js");Nonostante le proteste arrivate un po' da tutto il mondo, in particolare dal mondo giornalistico dopo la morte del dissidente saudita Jamal Khashoggi, mercoledì 16 gennaio a Jeddah in Arabia Saudita ci sarà la finale di Supercoppa Italiana tra Milan e Juventus. La monarchia saudita ha investito su questo incontro quasi 7 milioni di euro, una cifra importante per la nostra Serie A, da tempo lontana dai palcoscenici mondiali. Ma per essere ancora più precisi la sfida che vedrà tra un mese confrontarsi rossoneri e bianconeri rappresenta la prima pietra per il riscatto dei sauditi, un Paese da due anni in recessione che sta provando a ristrutturarsi economicamente. A prevalenza religiosa musulmana, (85-90% sunniti e 10-15% sciiti), il calo del prezzo del petrolio nel triennio 2015-2017 ha fatto diminuire gli introiti erariali (25 miliardi dollari nel 2015 e 21 miliardi nel 2016, rispetto agli oltre 40 miliardi degli anni precedenti) Ma la spesa pubblica è rimasta pressoché inalterata (41 miliardi dollari nel 2015 e 39 miliardi nel 2016), di cui la voce principale è costituita dai salari pubblici, che assorbono circa la metà del totale. La situazione ha portato a un deficit fiscale crescente, attivato nel 2016 a -17,2. Nell'aprile del 2016 la politica economica saudita è stata rivista con l'adozione della strategia di sviluppo Vision 2030, con il tanto contestato principe Mohammed bin Salman, l'erede al trono. Con Vision 2030, il Regno vuole rientrare tra le prime economie al mondo per prodotto interno lordo, creare sufficienti opportunità di lavoro per la crescente fetta di giovani che entrano nel mercato del lavoro, sviluppare filiere industriali nazionali (settore della difesa, minerario, energie rinnovabili, turismo), promuovere il settore privato e le piccole e medie imprese. Tra gli obiettivi fiscali, la tassazione dei consumi (con prime misure su bevande e tabacchi adottate a giugno 2017), la tassazione sui lavoratori stranieri (da luglio 2017) e l'introduzione dell'Iva dal 2018. Juventus-Milan quindi è solo una piccola fetta dell'immagine del Regno all'estero. Da qui ai prossimi vent'anni i sauditi vogliono facilitare gli scambi internazionali, tanto da aver lanciato nel gennaio del 2017 un portale interattivo chiamato "eServices" che punta a facilitare il processo di trasmissione dei documenti per l'esportazione di merci verso l'Arabia Saudita. Per l'Italia è un'occasione ghiotta dal punto di vista economico, anche se non si può dimenticare che dal punto di vista diplomatico per noi potrebbe rappresentare un problema, dal momento che da giugno 2017 Bin Salman ha proibito tutte le importazioni dal Qatar e interrotto i collegamenti terrestri, marittimi e aerei con Doha, dove nel 2016 si era giocato sempre un Juventus Milan per la Supercoppa italiana. Nel marzo di quest anno si è svolto a Roma il Business Forum Italy-Saudi Arabia, dove è stato spiegato che l'Arabia Saudita esporta per 17 miliardi di dollari e importa per 29 miliardi. A fare da anfitrione l'avvocato, Antonio Fabbricatore, che non è l'unico in Italia a essersi mosso in queste settimane per favorire lo scambio tra i nostri Paesi. La politica sembra molto attenta soprattutto ai possibili investimenti militari con Jeddah, come Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Affari esteri, tra i primi iscritti al Centro Studi Machiavelli che pochi giorni fa ha presentato un dossier sulle spese militari in Arabia Saudita, con un approfondimento con valutazioni comparative e prospettive future. Il programma "Vision 2030" punta localizzare internamente il 50% della spesa per la Difesa, incrementando l'autonomia dai fornitori occidentali e il know-how militare. Il tema è delicato, perché giusto la scorsa settimana iI Senato americano ha contraddetto Donald Trump nei rapporti diplomatici con l'Arabia Saudita, votando a netta maggioranza bipartisan una risoluzione per un rapido ritiro di ogni sostegno alla guerra di Riad nello Yemen, dove l'Italia è già al fianco dei Sauditi. 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Se n'è parlato sia durante il processo sul giacimento Opl-245 in Nigeria in corso a Milano, sia oltreoceano, negli Stati Uniti, dal momento che un articolo del Washington Post ha risollevato la questione Hacking team e il ruolo che avrebbe avuto la società italiana nell'omicidio del dissidente saudita Jamal Khashoggi. Se nel processo nigeriano a parlare degli agenti di intelligence è stato ex console italiano, Antonio Giandomenico, - citando il dirigente Aise Salvatore Castilletti che gli avrebbe consigliato di prendere come viceconsole uno degli imputati ovvero Gianfranco Falcioni - nel caso saudita sono i report di Wikileaks a parlare. Il tema è molto complesso, anche perché tocca da vicino l'esportazione di materiale a doppio uso, ovvero con possibilità di utilizzo sia a fini civili sia militari. In questi anni il ministero per lo Sviluppo Economico non ha mai risposto a diverse inchieste giornalistiche portate avanti in particolare sull'esportazione di software spia, come raccontato da Luca Rinaldi su Lettera43 e sul Fatto Quotidiano. «Vendere fuori dall'Europa programmi "dual use" - utilizzabili sia per scopi civili sia militari - richiede una licenza per l'esportazione, secondo le regole Ue. Quali società l'hanno ottenuta? E verso quali destinazioni? Dei 28 Paesi dell'Unione, 11 (tra cui il nostro) si rifiutano di comunicare questo dato: «Gli atti sono sottratti all'accesso», fa sapere il Mise. Gli altri affermano di aver concesso 317 nullaosta, negandone solo 16: nel 29,7% dei casi, destinatari sono nazioni considerate "non libere" come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Colombia, Turchia».La questione è stata sollevata anche grazie a un'interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle, dove si legge che gli unici dati disponibili al riguardo sono rinvenibili nella «Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo delle esportazioni, importazione e transito dei materiali di armamento», che però non distinguerebbero le categorie dei beni dual-use, ma che comunque riporterebbero per il 2015 un totale di 901 autorizzazioni per un valore di circa 776 milioni di euro. Non solo. Collin Anderson, esperto di cybersicurezza americano, sostiene che: «Il caso Hacking Team ha svelato che l'Italia non ha prestato molta attenzione all'aspetto dei diritti umani, visti i Paesi per cui ha concesso le licenze. Per avere idea di cosa è successo dopo dovremo avere un altro caso simile, ma è improbabile». Il caso è collegato direttamente con Kashoggi, perché l'agente Maher Abdulaziz Mutreb, come ha anche ricordato Il Giornale in un articolo di ottobre, è stato identificato dagli investigatori turchi come uno dei 15 uomini della squadra saudita che avrebbe eliminato il giornalista scomodo a Istanbul. Mater A Mutreb, infatti, molto vicino al principe Bin Salman, comprare infatti nelle liste pubblicate da Wikileaks nel 2015, dopo che il portale aveva reso noto documenti e mail della società che ha sede in via Moscova a Milano. In una mail ricevuta il 26 gennaio da Marco Bettini, responsabile commerciale, si trovava appunto il nome di Mutreb insieme con altri nomi per un addestramento di 8 settimane. «Siamo pronti ad ospitare il tuo staff la prossima settimana per la formazione adv. Voglio presentarti il mio nuovo collega che è responsabile dei paesi arabi; il suo nome è Mostapha Maanna, è libanese, nato a Riyadh (Arabia Saudita)», scriveva Bettini. C'è da dire che in quei file di Wikileaks si è venuto a scoprire che tra i clienti dell'Hacking Team c'erano anche Polizia, Carabinieri e Presidenza del Consiglio. Del resto la società milanese produceva l'Rcs, uno dei programmi di intercettazione migliori al mondo, utilizzato dallo stesso Aise. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/speciale-arabia-saudita-2623511341.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="riad-fa-litigare-parlamenti-e-governi-sia-in-italia-che-negli-usa-intanto-la-cina-si-frega-le-mani" data-post-id="2623511341" data-published-at="1766674245" data-use-pagination="False"> Riad fa litigare Parlamenti e governi sia in Italia che negli Usa. Intanto la Cina si frega le mani Yemen, attacchi aerei sauditi a Sanaa LaPresse Parlamenti e governi spesso non sono allineati. Accade in Italia e soprattutto negli Usa. I motivi sono simili e le tensioni riguardano in entrambe i casi la vendita di armi all'Arabia Saudita. Nella notte tra il 13 e il 14 dicembre, il Senato americano si è opposto al presidente, Donald Trump, e alla politica estera americana impressa dall'attuale amministrazione in capo alla Casa Bianca. «La Camera Alta ha votato la fine del sostegno a Riad nello Yemen; inoltre, il principe ereditario Mohammed bin Salman è responsabile per la morte del giornalista dissidente Jamal Khashoggi», si legge sul sito asianews.it.La scorsa settimana i senatori avevano già marcato una netta distinzione rispetto al presidente Trump, affermando che non vi fosse nessun dubbio sul coinvolgimento del principe coronato nel brutale assassinio avvenuto il 2 ottobre scorso al consolato saudita di Istanbul. «Resta però una decisione storica, con 56 senatori favorevoli (e 41 contrari) a interrompere il sostegno alla coalizione militare araba a guida saudita in Yemen, responsabile secondo l'Onu e agenzie umanitarie della morte di civili, anche bambini», si legge sempre sul sito. «Per la prima volta, dunque, le due camere sono favorevoli al ritiro delle forze armate, utilizzando i poteri previsti dal War Powers Act. Una norma del 1973, che limita i poteri del capo della Casa Bianca nel disporre delle Forze armate senza il consenso del Congresso». In realtà, la mossa è puramente politica e sembra mirata esclusivamente a mettere in difficoltà Trump. Nessun esecutivo precedente e nessuno tra quelli futuri si intesterà una battaglia contro il primo consumatore di armi al mondo. Soprattutto per il semplice fatto che tra le prime 100 corporation della Difesa ben 51 hanno sede negli Stati uniti. «Per ora non vi sono reazioni ufficiali del presidente Trump, che dietro le quinte ribadisce il sostegno all'Arabia Saudita e Bin Salman», riporta il sito. Un portavoce della Casa Bianca ha ricordato gli "interessi strategici" in ballo con il regno che "restano" a dispetto delle scelte dei senatori; tuttavia, i sostenitori della mozione, compresi i Repubblicani, promettono di continuare la loro battaglia. Qualcosa di simile anche se molto più soft ha fatto il Parlamento italiano. Lo scorso 27 novembre un gruppo di deputati trasversali in seno alla Commissione esteri ha proposto una mozione con l'obiettivo di vendere armi all'Arabia. D'altronde il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha più volte esternato in merito e recentemente è stata ripresa dalla Lega. A settembre Il sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, aveva replicato su twitter all'appello lanciato dal ministro della Difesa al collega agli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, chiedendo una verifica sul rispetto delle leggi sul commercio di armamenti: «Se cambia l'indirizzo politico, il governo sia consapevole di ogni conseguenza negativa occupazionale e commerciale». Insomma tanto realismo, lo stesso che dovrebbe impedire al Parlamento qualunque mozione. Non tutti ne sono però certi tanto più che durante il recente incontro tra Giuseppe Conte e il principe Mohammed bin Salman si è discusso proprio di lista bianca dell'export di armi. I sauditi vogliono la garanzia che il proprio Paese resti sempre nell'elenco dei partner. Il timore dei diplomatici è che il nostro Parlamento possa sostituire Riad con Pechino. Una fetta dei 5 stelle sarebbe al lavoro per favorire la Cina e sponsorizzare un cambio di passo storico. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/speciale-arabia-saudita-2623511341.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="le-prime-15-aziende-della-difesa-fatturano-231-miliardi-meno-della-toyota" data-post-id="2623511341" data-published-at="1766674245" data-use-pagination="False"> Le prime 15 aziende della Difesa fatturano 231 miliardi, meno della Toyota Giphy Le vendite di armi in capo alle 100 maggiori società produttrici di armi e servizi militari (Sipri Top 100) hanno totalizzato nel 2017 una cifra superiore ai 398,2 miliardi. Si è registrato un aumento del 2,5% rispetto al 2016 e segna il terzo anno consecutivo di crescita del trend che in ogni caso con qualche alto e basso ha portato a una impennata in soli 15 anni addirittura del 44%.In questo panorama di crescita il fatturato delle prime 15 aziende manifatturiere della lista è quasi sei volte maggiore delle vendite complessive di armi combinate delle prime 100 società produttrici di armi. In pratica 231 miliardi contro 398. Per inquadrare le cifre è bene però segnalare che le vendite di una sola compagnia, la Toyota, la più grande azienda manifatturiera del mondo, hanno totalizzato 254,7 miliardi. In pratica il 10% in più delle vendite totali tra iprimi 15 produttori di armi globali. Lockheed Martin, la più grande azienda al mondo nel settore degli armamenti, è classificata al 178 ° posto nella classifica Fortune Global 500 per il 2017 e si colloca al di fuori dei 50 maggiori produttori. Le sue vendite di armi rappresentano solo il 18% delle vendite totali di Toyota e rappresentano circa la metà delle vendite totali della società classificate al quindicesimo posto nel Fortune Global 500: China railway and engineering group.Definito il perimetro, sebbene non ci siano dati precisi e ufficiali, l'Arabia Saudita negli ultimi dieci anni è diventata una delle prime nazioni acquirenti e importatori di armi. Gli Usa rappresentano oltre la metà delle importazioni di armi dell'Arabia Saudita. Le forniture di attrezzature e servizi per la difesa saudita sono aumentate drasticamente, da 1,9 miliardi di dollari nel 2008 a un picco di 8,3 miliardi nel 2016 e naturalmente per un valore stimato di 7,3 miliardi nel 2018. La quota americana di tali importazioni è aumentata, passando dal 31% nel 2008 a un 53% stimato quest'anno. Gli altri principali fornitori, almeno nel 2017, sono stati il Regno Unito e il Canada, seguiti da Germania e Francia e molto alla lontana l'Italia. Le esportazioni militari statunitensi in Arabia Saudita sono comunque una goccia nel mare delle esportazioni degli Stati Uniti. L'equipaggiamento militare ha rappresentato il 18% delle esportazioni statunitensi in Arabia Saudita lo scorso anno, ma solo lo 0,13% delle esportazioni totali mondiali, secondo i dati ufficiali. «Le importazioni saudite di alcuni prodotti specifici, come bombe e missili, sono aumentate drasticamente», scriveva recentemente il Financial Times, «rendendole un cliente importante per i produttori di tali armi. Dell'accordo americano di vendere 110 miliardi di armi al regno. Ma al momento se ne sono finalizzati circa 14. Lockheed Martin, il gruppo americano di difesa e aerospaziale, ha detto che la sua parte del piano potrebbe valere 28 miliardi di vendite». L'Arabia Saudita è stato un mercato molto importante pure per l'industria della difesa del Regno Unito, con un 36% di tutte le esportazioni, secondo i dati di Sipri. Il tutto in un trend crescente. Ecco perché nessun Paese in questo momento può permettersi di abbandonare Riad se vuole cavalcare l'onda in crescita del mercato della Difesa. Chi, come la Germania, fa dichiarazioni contrastanti è perché si è già agganciata al Dragone. Di quest'ultimo non ci sono dati statistici, ma nessuno ha dubbi sui progressi militari di Pechino che fa una sua corsa autonoma. Al momento l'Arabia non è in grado di rifornirsi dalla Cina (gli hangar di Riad sono pieni di velivoli americani e lo switch non è fattibile in tempi mediamente brevi) ma se un giorno il regno decidesse di aprire una nuova linea di rifornimenti per l'Occidente sarebbe un colpo pesantissimo.
Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
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Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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