2025-01-23
Altro che ignoranza, il sovranismo è figlio di Pasolini, Dostoevskij e Stirner
Il libro di Rocco Ronchi e Pier Paolo Pasolini (Ansa)
Uno studioso di sinistra ribalta gli stereotipi sul populismo: «È originato dalla grande metafisica moderna della libertà».Da quando sono apparsi sulla scena politica mondiale, il sovranismo e il populismo hanno generato nelle élite intellettuali reazioni che hanno attinto essenzialmente a due tipi di argomenti. Il primo è quello dell’ignoranza: gli elettori dei movimenti sovranisti e populisti non leggono, non si informano, sono «analfabeti funzionali», sono i «somari» di Roberto Burioni, etc. Il secondo argomento è quello dell’opacità: non è proprio che i sovran-populisti non leggano, quanto piuttosto che leggono male, credono alle fake news, si bevono la disinformazione, sono vittime dei troll russi, dei social trumpiani, della Bestia di Salvini. Lo schema, comunque, è analogo: esiste un’unica Verità, autoevidente. Se alcuni non la riconoscono come tale, è perché non la conoscono, o la apprendono attraverso una lente sporcata da qualcuno che ha interesse a inquinare le acque. Giunge quindi benvenuta una recente analisi filosofica del fenomeno pensata in antagonismo esplicito con queste retoriche. Parliamo di Populismo/Sovranismo (Castelvecchi), di Rocco Ronchi, professore di Filosofia teoretica all’università dell’Aquila e, da anni, assertore di una delle proposte filosofiche più interessanti e radicali del panorama italiano, ovvero la formulazione di un’ontologia «megarica», non aristotelica e non heideggeriana. Beninteso: Populismo/Sovranismo non è affatto un saggio amichevole con l’oggetto della sua indagine. L’ostilità nei confronti dei sovran-populisti è anzi profonda, non di rado sprezzante. Al sovranismo, Ronchi oppone una virtù politica «cibernetica», nel senso greco del termine, cioè un’arte della navigazione nel flusso del reale, animata da un riformismo radicale. Il che dovrebbe dar vita, secondo l’autore, a un «antifascismo militante» affermativo, non reattivo, non moralistico, non reazionario. In pratica non antifascista. Qui, tuttavia, riteniamo più interessante soffermarci sugli argomenti usati per definire l’oggetto populismo/sovranismo (la barra indica parentela ma non identità).Ronchi ci tiene innanzitutto a svincolarsi dalle interpretazioni classiche del fenomeno, quelle appunto basate sulla ignoranza sovranista, sulla «pancia del Paese», plebea e sguaiata, che si ribella alla signoria illuminata della ragion critica. Scrive il filosofo: «Per arginare il populismo, i suoi avversari non hanno niente di meglio che riformulare quella contrapposizione massa-élite che del populismo è il cavallo di battaglia!». Difficile dargli torto. Ora, Populismo/Sovranismo non solo nega che la cultura stia tutta da una parte e l’ignoranza tutta dall’altra, ma piazza la famiglia politica di Trump, della Le Pen, di Salvini nel bel mezzo del salotto buono occidentale. Il libro intende infatti esplicitare «la genealogia illustre di un fenomeno che solo una miopia teorica intrisa di malafede confina nelle nebbie della eterna ignoranza delle plebi bisognose come un gregge di un capo che le guidi. Il populismo sovranista ha padri nobili e insospettati, spesso gli stessi che vengono additati come esempi di resistenza al pensiero unico: dal Dostoevskij del “sottosuolo” all’osannato Pasolini “corsaro”, dall’anarca di Stirner al Bartleby melvilliano». In questa sua ricerca dell’album di famiglia occulto dei sovranisti, Ronchi inserisce anche figure meno sorprendenti. È il caso di Julius Evola, il cui nome in effetti non manca mai negli esercizi di genealogia operati da sinistra (anche se difficilmente si potrebbe trovare un pensatore meno populista e meno sovranista di uno che disprezzava il popolo e diffidava dello Stato nazione). Va dato tuttavia atto a Ronchi di non aver attinto alle solite scopiazzature di quarta mano sull’Evola «principe dei razzisti», «teorico dell’eversione» e via delirando. In modo totalmente controintuitivo rispetto al contesto sociopolitico di provenienza, invece, Ronchi tira in ballo l’Evola «pensatore della libertà», attingendo alle opere del suo periodo filosofico piuttosto che ai suoi saggi politici.Il punto è proprio questo. Per Ronchi, infatti, il sovranismo non è la negazione della «metafisica moderna della libertà», bensì il suo inveramento più consequenziale. Scrive l’autore: «Il populismo/sovranismo, nella sua radice metafisica, è un modo di corrispondere all’appello moderno a diventare soggetti autonomi, a “liberarsi” dai vincoli che impediscono di lasciare il fondo della platonica caverna, a “insorgere”, infine, contro l’autorità». La scelta dei termini e dei riferimenti non è casuale e mira tutta a sconvolgere le categorie dell’antosovranismo stereotipato. Per l’autore, la libertà non è la risposta, bensì il problema. Non nel senso che Ronchi tessa l’elogio della schiavitù, ovviamente, ma nel senso che critica tutto un dispositivo argomentativo. Se l’idea del sovranismo come insofferenza ai limiti è piuttosto abusata, Ronchi fa un passo in più, spiegando che esso non è la perversione, la caricatura dei discorsi libertari, bensì la loro perfetta e coerente conseguenza. Non solo: anche la democrazia sta tutta dalla parte del populismo/sovranismo: «La democrazia è il brodo di coltura del nemico che si vuole combattere», scrive l’autore. E non può non colpire l’innocenza svagata con cui si lascia sfuggire dichiarazioni programmatiche che egli fa proprie, come la seguente: «La democrazia stessa da fine in sé diventa semplicemente mezzo, buono quando funziona, non necessario quando è d’ostacolo». Quindi, ricapitolando, il sovranismo sarebbe un fenomeno profondamente radicato nella «metafisica della libertà» e nella ricerca di autonomia, con la democrazia come propria parola d’ordine più importante e un album di famiglia in cui campeggiano Dostoevskij, Pasolini, Stirner. Tutto sommato, ai sovranisti poteva andar peggio.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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