
La storia di Alisha, dall’Algeria al Friuli per sfuggire all’oppressione e al controllo esercitati dai familiari e dall’ex compagno. «Non voleva nemmeno che andassi a cena con le amiche, ho abortito due volte». Oggi è sposata con un italiano e va in chiesa.Fin da bambina ha subìto la violenza del Corano, vivendo nel terrore di Allah mentre sperimentava la crudeltà che gli islamici esercitano in nome di quello che lei chiama il «Dio cattivo». La Verità ha raccolto la testimonianza di una signora algerina, riuscita con grande sofferenza ad allontanarsi da un mondo che disprezza le donne. Per non essere identificata compare con il nome di fantasia che lei stessa ha scelto: Alisha, come quello della bimba di sei anni «violentata e presa in moglie da Maometto», tiene a precisare. Quarantenne, una laurea in Giurisprudenza in Algeria, una in Psicologia in Francia, ora vive in Friuli-Venezia Giulia sulla riva orientale del Tagliamento ed è sposata con Livio, «l’angelo che il “Dio buono” di mia mamma cristiana ha voluto mandare in mia salvezza, altrimenti sarei morta», dichiara Alisha. Figlia di un berbero algerino e di una francese, a differenza dei suoi fratelli maschi è stata costretta a passare l’infanzia e l’adolescenza in casa, soffocata in ogni movimento ed educata a credere che Allah tutto vede, nulla perdona e che per i peccatori l’inferno sarà atroce «soprattutto se diventi cristiana o ebrea». Insofferente a imposizioni che non comprendeva, rifiutava anche di digiunare durante il Ramadan. «Mamma metteva del cibo nelle mie tasche, lo mangiavo nascosta nei gabinetti della scuola. Già ero magra, se non mi alimentavo sarei svenuta. Ma anche quella violazione del mese sacro la vivevo come una colpa mostruosa».Il padre le ripete: «Se ti vedo con qualcuno ti taglio le gambe e finisci sulla sedia a rotelle». Afferma: «Sono riuscita a studiare controllata a vista dai fratelli, anche mentre ero in Francia. Volevo lavorare, allontanarmi, non finire come mia madre che ogni notte veniva picchiata e violentata se non si sottoponeva alle voglie di mio padre. Era così brava in tutto, mi chiedevo perché Maometto voleva che fosse punita». La giovane trova lavoro in una multinazionale con sede in Algeria, a un centinaio di chilometri da casa. Condivide lo spazio in un residence con alcune colleghe, comincia a uscire e incontra un pilota aereo, di fede musulmana. «Era bello e gentile, iniziammo a frequentaci». Lo presenta a casa, avviene la promessa di matrimonio ma l’uomo, di nome Islam, si mostra insofferente ai suoi desideri di libertà. «Non vivevamo insieme eppure non voleva che andassi a cena con le amiche e i compagni d’ufficio. Mi seguiva ovunque, faceva scenate». Ben presto iniziano anche le percosse, i pugni in piena faccia, le violenze sessuali quando Alisha vuole sottrarsi. «Riuscì a mettermi incinta, per avere il controllo su di me, ma ho preferito abortire in una clinica privata che mi ha mezza rovinata. L’ho denunciato decine di volte per le sue aggressioni, i giudici algerini dicevano “è innamorato, devi perdonarlo”».La giovane continua ad avere paura anche del padre, teme che Islam vada a raccontargli che la figlia non conduce una vita da brava musulmana. Ricorda le minacce, si preoccupa per la madre. Viene costretta a giurare sul Corano che non l’avrebbe mai lasciato. Alisha non riesce a spiegare perché abbia sopportato così a lungo violenze e maltrattamenti. «Sentivo che avevo perso la mia dignità però ero innamorata e ho sempre sperato che il mio fidanzato cambiasse». Dopo tre anni e l’ennesimo ricovero in ospedale, finalmente capisce che la sua vita è in pericolo e riesce a venire nel nostro Paese aiutata da un friulano, Livio, uno dei dirigenti della multinazionale che rimane a lavorare in Algeria. «La notte non dormivo più, ho passato mesi senza più voglia di vivere», ricorda con un filo di voce. L’incubo si ripresenta quando, attraverso un’amica sui social, Islam la rintraccia. Arriva in Italia, le promette che vuole solo parlare invece la picchia e la violenta ancora. «Ho abortito una seconda volta, non chiedetemi perché l’ho rivisto. Il terrore non si può descrivere». Con enorme fatica ora Alisha è tornata a vivere. Fa terapia online a donne che come lei hanno sofferto tanto, e ai bambini vittime delle violenze di guerra. Va in chiesa, ha trovato forza e conforto nella religione cristiana. Mette in guardia le italiane: «Uomini violenti ci sono ovunque, ma la religione di Maometto ammette solo la sottomissione servile delle donne, le disprezza, le considera un “sottoprodotto” e ne annulla la dignità».Per Anna Maria Cisint, europarlamentare della Lega, «questo è il vero volto dell’islam radicale, quello che schiaccia ogni voce moderata, qualora ne esista veramente una. Non si tratta di episodi di violenza isolati, ma di una strategia culturale e politica che affonda le sue radici in un’ideologia che rifiuta con forza la nostra civiltà e mira alla sostituzione, non all’integrazione».L’ex sindaco di Monfalcone, costretta ad avere la scorta per le sue battaglie contro l’integralismo islamico, aggiunge: «Questa forma di sottomissione la vorrebbero imporre non solo alle donne, ma a tutto il nostro Paese e all’intera Europa, sovvertendo l’ordine democratico in favore del Corano e della Sharia. È una strategia sovversiva che si diffonde in tutta Europa tramite moschee irregolari, che crescono come funghi, e scuole o istituti coranici. In assenza di un’intesa fra Stato e confessione islamica, va detto, nessun centro islamico può essere considerato regolare: non sappiamo difatti che cosa viene predicato all’interno da chi e soprattutto con quali finanziamenti, troppo spesso provenienti da Paesi islamici come il Qatar».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sottomessa-e-abusata-dalluomo-islamico-2673766374.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="no-al-ricorso-del-centro-musulmano-al-comune-la-moschea-di-monfalcone" data-post-id="2673766374" data-published-at="1753596027" data-use-pagination="False"> No al ricorso del centro musulmano: al Comune la moschea di Monfalcone Il Tar boccia il ricorso del centro islamico Darus Salaam, che è quindi di proprietà del Comune di Monfalcone, in provincia di Gorizia. I giudici del Tribunale amministrativo del Friuli-Venezia Giulia hanno respinto l’istanza con la quale veniva impugnato il provvedimento dell’amministrazione comunale che disponeva l’acquisizione «per legge» dell’immobile che si trova in via Duca d’Aosta 28. A rendere nota la notizia, esprimendo grande soddisfazione, è stato l’ex sindaco Anna Maria Cisint, che oggi ricopre i ruoli di europarlamentare leghista e consigliera delegata alla Legalità e alla Lotta alla radicalizzazione. Cisint conosce bene la complessa vicenda. Il ricorso era stato presentato dal centro islamico guidato dal presidente onorario Bou Konate, tramite l’avvocato Vincenzo La Torraca, dopo la notifica del verbale conseguente «all’accertata inottemperanza all’ordine di ripristino della destinazione d’uso», ha precisato l’ex sindaco specificando che «tale violazione ha determinato, come previsto dalla legge regionale, l’acquisizione dell’immobile da parte del Comune». La decisione del Tar è stata stabilita con una sentenza, emessa nei giorni scorsi, firmata dal presidente Carlo Modica de Mohac di Grisì e prevede che le spese di lite siano compensate. Nel corso dell’udienza che si è svolta a Trieste, l’avvocato Teresa Billiani, legale del Comune di Monfalcone ha difeso la posizione dell’amministrazione motivandone le ragioni. I giudici amministrativi hanno definito quel ricorso «integralmente infondato». In particolare, i giudici, respingendo totalmente le argomentazioni del centro islamico, hanno riconosciuto la legittimità dell’azione dell’amministrazione comunale. Nella sentenza emessa, il Tribunale amministrativo regionale ha spiegato articolo per articolo il perché di questa decisione. Negli articoli otto e nove della sentenza i giudici evidenziano le motivazioni avanzate nel ricorso e da loro ritenute «non condivisibili». Nello specifico, l’articolo nove riprende l’articolo 45 della Legge regionale 19 del 2009 sulla cui base è stata emessa l’ordinanza dirigenziale del novembre 2023. «A fondamento del verbale di accertamento dell’inottemperanza in questa sede impugnato, il Comune ha legittimamente posto i verbali relativi ai sopralluoghi eseguiti nel periodo antecedente la pubblicazione della sentenza di primo grado, nonché i verbali relativi agli accertamenti posti in essere successivamente al deposito di tale decisione, atteso che nella propria motivazione questo Tribunale ha affermato che la destinazione d’uso direzionale propria dell’immobile non comprende l’uso del culto». Le ragioni del Tar sono chiare. I giudici amministrativi, inoltre, precisano: «Come condivisibilmente evidenziato dalla difesa del Comune, l’accoglimento del ricorso di primo grado non sposta i termini della questione, alla luce della richiamata decisione del Consiglio di Stato di accoglimento dell’appello avverso questa sentenza con effetti. Né risulta accoglibile il rilievo di parte ricorrente secondo cui la sentenza 220/2024 di questo Tar avrebbe travolto oltre al provvedimento impugnato, anche atti amministrativi che ad esso abbiano dato esecuzione o attuazione, facendo riferimento ai verbali di accertamento della Polizia locale». In sintesi, per i giudici non ci sono dubbi: l’immobile spetta al Comune. Cisint ha specificato come questa sentenza rappresenti «una sconfitta per chi vuole imporre la Sharia nella nostra città, per chi vuole fare politica contro le regole del nostro Paese e della nostra civiltà. Una grande vittoria, che farà storia, per chi sta dalla parte dei cittadini e del rispetto della Costituzione e dei suoi valori».
Getty Images
L’indignazione per gli slogan cantati da quattro ragazzotti è la prova che la caccia al «male assoluto» è ormai ridicola.
«Pluribus» (Apple Tv+)
In Pluribus, da venerdì 7 novembre su Apple Tv+, Vince Gilligan racconta un mondo contagiato da un virus che cancella le emozioni e il conflitto. Un’apocalisse lucida e inquieta, dove l’unica immune difende il diritto alla complessità umana.
Massimo Recalcati (Ansa)
Massimo Recalcati osa mettere in dubbio la battaglia per le lezioni di affettività e sessualità a scuola, tanto care all’universo progressista cui appartiene anche lui. E subito «Repubblica» rimette in riga il compagno che sbaglia: «La realtà non la decide Valditara».






