L’Istat rivede i conti pubblici dal 2021 al 2023: cala al 134,6% il debito e al 7,2% il deficit sul prodotto interno lordo. Nessuna tassa imposta sugli extraprofitti bancari, sarà al massimo un contributo di solidarietà.
L’Istat rivede i conti pubblici dal 2021 al 2023: cala al 134,6% il debito e al 7,2% il deficit sul prodotto interno lordo. Nessuna tassa imposta sugli extraprofitti bancari, sarà al massimo un contributo di solidarietà.Il governo aspettava i dati Istat. Sono arrivati. La revisione generale dei conti segna un aumento del Pil di 21 miliardi nel 2021, 34 miliardi nel 2022 e altri 43 in relazione al 2023. A seguire è stato ricorretto anche il dato del debito - sceso al 134,6%, praticamente il dato pre Covid - e quello sul deficit al 7,2%. È bene dirlo subito: i nuovi numeri non devono lasciare intendere ci siano tesoretti per la manovra né tanto meno per il piano strutturale di bilancio a sette anni che il Mef dovrà inviare (dopo un passaggio in Aula) a Bruxelles entro il 15 ottobre. La traiettoria del nuovo Patto di stabilità non cambia. Però, i circa 100 miliardi in più di assestamento di bilancio aiuteranno a gestire i numeri da un punto di vista matematico e, soprattutto, disegnano un’economia italiana più solida e stabile. Non solo a confronto con la Germania e la Francia che arrancano e soffrono agli occhi degli investitori esteri per colpa di compagini governative instabili. Ma anche in senso assoluto rispetto alla nostra storia. Gli effetti sul Pil del Covid e del lockdown sono alle spalle e per certi versi abbiamo solo oggi superato il guado post 2007. Quello dovuto alle crisi del debito pubblico e delle banche (basti ricordare i drammi del bail in nel 2015). A questo punto, dati i maggiori livelli di Pil che si registreranno nell’anno in corso la soglia di partenza per i tagli da inserire in manovra. In senso assoluto anche qui non cambia molto. Perché l’obbligo, accettato con la sottoscrizione del nuovo patto, prevede una ampia limatura di una dozzina di miliardi all’anno. Però un conto è farla con la lingua di fuori - passateci l’espressione gergale - e un conto è farlo con introiti fiscali sani dovuto dalla crescita del Pil e dall’occupazione in crescita. I dati di maggio, giugno, luglio e probabilmente agosto consentono livelli di occupazione molto elevati rispetto alla storia tracciata dall’Istat e quindi incassi elevati di gettito. Resta una scommessa finale che si chiama ancora Superbonus. A breve l’Istat in accordo con l’ente comunitario di verifica dei dati dovrà verificare il reale impatto della disposizione firmata dal governo Conte: il bonus 110% sulle ristrutturazioni. La scommessa ci riporta alla scelta drastica del ministro Giancarlo Giorgetti di stoppare l’incentivo fiscale e le pratica di anticipo fatture ad esso collegate. Se il leghista ha visto giusto, l’Italia potrà dire di aver superato anche questo scoglio e concentrarsi su una manovra che sarà sicuramente risicata ma non da terapia intensiva. Capiremo di più il prossimo venerdì quando il cdm partorirà il piano strutturale di bilancio. Dentro le linee programmatiche e i margini per avviare il cantiere della manovra. Se viene dato per scontato il taglio del cuneo fiscale, concordato tra l’altro tra governo e Confindustria, e le disposizioni per l’assegno unico, il resto è ancora tutto scritto sulla sabbia. In questi giorni i partiti tirano la volate alle proprie proposte, ma alcune come quelle sulle pensioni lasciano intendere che rappresenteranno poco più di un maquillage. Il tema dei cosiddetti extraprofitti bancari è invece molto sensibile. La scelta del 2023 da parte del governo di fare un blitz agostano si è rivelata poco oculata. La norma si è sciolta sotto gli ombrelloni ed è diventata di fatto una tassa facoltativa che nessun istituto, nemmeno Mps controllata dallo Stato, ha versato. Per un motivo anche di tenuta della patrimonializzazione all’interno delle linee guida della Bce. Quest’anno l’antifona sembra essere cambiata. Se arriverà una extra tassa si chiamerà contributo di solidarietà e secondo i calcoli della Fabi potrebbe generare un extra gettito fino a 1,3 miliardi che porta le imposte versate dalle banche nel biennio (2022-2023) a 13,8 miliardi di euro. Va anche ricordato un dettaglio carsico ma importante. La finanza del Nord guarda con sospetto le scelte di un pezzo del governo sui temi della governance. Il ddl Capitali è diventato legge. Ma sta affrontando un ulteriore iter sotto la supervisione del Mef affinché i decreti diventino idonei per l’inserimento nel Tuf, testo unico della finanza. Nell’iter si celano opportunità di modifica che le banche stanno cercando di cogliere e come La Verità ha già raccontato a luglio di porre anche come controbilanciamento per le extratasse. Diciamo che rispetto allo scorso anno c’è da aspettarsi una disponibilità a far diventare il contributo una garanzia a tutti gli effetti. Un accordo ghiotto? Di certo, i soldi servono per la manovra. Un miliardo e 300 milioni fanno comodo. Così come fa ancor più comodo un piano di finanziamenti dei settori economici che ancora soffrono e quindi un boost maggiore alla crescita del Pil. Trattare le banche in mondo ostile non sembra convenire a nessuno. Soprattutto se si ridurre il rischio di prelievo fiscale da altre categorie uscite a pezzi dall’impennata dell’inflazione e dei costi delle bollette energetiche. Capitolo finale della manovra saranno le limature delle tax expenditures, le varie agevolazioni fiscali che dal 2011 si discute di potare. Alcune favoriscono poche aziende e pochi individui. Forse sarebbe il caso di rivederle un po’ tutte: valgono 95 miliardi di euro.
Francesca Albanese (Ansa)
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