2021-11-15
«Sono contro il pass perché resto vicino al mio popolo»
Don Floriano Pellegrini, il prete che fece pregare la piazza di Trieste: «Cannoni ad acqua su gente inerme, vergogna. I vescovi rinunciano al ruolo di guide».Don Floriano Pellegrini ha benedetto i manifestanti di Trieste. In piazza in tanti con lui si sono inginocchiati, in silenzio, recitando il Padre nostro. Ha 65 anni e vive sulle Dolomiti venete nel villaggio di Coi, in val di Zoldo, provincia di Belluno: una cinquantina di anime in una valle turistica. Tra portuali e no pass ha fatto un intervento molto forte - su Internet si trova - e non è la prima volta che fa parlare di sé. Iperattivo tra Facebook e i blog - ne aggiorna quattro con studi e articoli - si autodefinisce il prete del popolo veneto. Qualche giorno fa ha scritto una lettera aperta al nunzio apostolico in Italia, monsignor Emil Paul Tscherrig, una dura denuncia dei silenzi dell'episcopato italiano su virus, vaccini, democrazia e violenze. In tempo di pandemia puoi pure incasellarlo con definizioni di comodo ma, se gli parli, lui ti racconterà soprattutto della sua fede di bambino, dei silenzi delle sue montagne, di spiritualità e di dialogo.A Trieste si è presentato come il prete del popolo sceso dai monti. «Per motivi di salute sono tornato qui dove sono nato, a 1.500 metri d'altitudine. Do una mano in valle: 8 parrocchie, 3.000 persone e un solo parroco. La bellezza della natura aiuta il ministero sacerdotale: quante volte nel silenzio, in questi grandi spazi, ho percepito attraverso il dialogo con le persone Dio vicino, quel Dio che se anche non si vede sembra quasi di toccarlo, a tu per tu». La sua fu una vocazione giovane?«Fin da bambino. Dopo le medie sono entrato in seminario. Fu un po' traumatico». In che senso?«Trovai un luogo molto chiuso umanamente. Io, ad esempio, amavo cantare, e pure adesso. La gente non canta più, ma dovrebbe tornare a farlo. Beh, pensi che in seminario i canti della tradizione (ne intona uno alla Madonna, ndr) erano vietati». Ma non ha mollato. «Mai farlo, lì l'ho imparato. Soprattutto ho capito che bisogna restare sempre in contatto con la fede vissuta dal popolo. Una delle prime volte che tornai a casa un uomo del mio paese mi disse in dialetto: ti hanno tagliato la lingua. Credo volesse dirmi che parlavo l'italiano, e sentiva che mi stavo allontanando. Ero entrato in seminario per formarmi, ma non dovevo rinnegare le mie origini, bensì valorizzare i semi di bene della mia infanzia, valori che qui restano anche oggi puliti».Arriviamo all'oggi. Ha chiesto ai manifestanti in piazza di inginocchiarsi. «Mi avevano detto: attenzione, è una piazza laica. C'erano migliaia di persone, in tantissimi lo hanno fatto, sono stupito e commosso. Sto ancora riflettendo su quel che è successo. Si è creata una relazione. Non avevo paramenti, non c'era nulla di istituzionale». Perché ha deciso di intervenire?«Siamo saltati in macchina con alcuni amici, e nelle cose improvvisate viene fuori quello che uno è davvero, l'umanità. È andata a finire che c'è chi mi ha portato un fiore - prima volta per me - e chi si è offerto di sistemarmi la dentiera (ride). Mi hanno dato il numero di telefono persone mai viste, mi scrivono da tutta Italia. Questo pomeriggio ad esempio conoscerò una famiglia, mi vogliono parlare del loro bambino che non sta bene». Le fa piacere questa notorietà?«In 65 anni non mi sono mai sentito così realizzato. Ma non tanto per la notorietà: è come se stessi uscendo dal sacerdozio rituale, per entrare in uno più umano». Nella sua lettera al nunzio scrive che la Chiesa ha taciuto sulle violenze verso i portuali. «Chiedo come sia possibile che non interessi che la polizia di Stato abbia sparato con cannoni ad acqua in grado di rovesciare operai abituati a spostare casse da 50 chili. Non c'era nessun violento a manifestare, io non ne ho incontrati. Ma non è la prima lettera, sa? Ho scritto spesso ai vescovi, non mi rispondono mai». Pensa di smettere?«Continuerò, perché vorrei uscissero dai loro uffici per parlare con un altro essere umano. Ma ho forse il torto di essere una di quelle categorie scomode».Cosa intende?«Parlare con il migrante, ad esempio, fa vedere che sei aperto e fratello di tutti. Ma è davvero così, se non incontri anche chi non sta dalla tua parte e dà fastidio? A me sembra sia vero amore, invece».Alcune sue critiche - ad esempio sull'utilizzo di materiale derivato da aborti per i vaccini - sono, diciamo così, controverse. «Al di là del fatto che ho trovato video e documenti su Internet, quello che chiedo è proprio di essere corretto se serve. Domando anche il perché del silenzio dei vescovi verso il clero da marzo 2020: io stesso avrei bisogno di una telefonata, non arriva mai. Non interessa sapere se un prete è in crisi, o semplicemente cosa vive? Forse non rispondere è un modo per isolare, e dire di obbedire e arrangiarci?».Il suo giudizio sulla pandemia è netto. «Vedo una volontà politica di trasformare un fatto sanitario per restringere, sì». Restringere la libertà, intende?«È sotto gli occhi di tutti. Manifestazioni vietate, elezioni proibite, giornali e mass media che criminalizzano il dissenso. Parlo tranquillamente di dittatura: la Costituzione è sospesa o applicata a piacimento. Se l'unico punto di riferimento è Draghi, che decide con l'appoggio dei partiti che gli hanno dato carta bianca appoggiati dagli industriali, il popolo sovrano non conta più».Lei è prete, non politico. «Faccio politica, mi occupo della cosa pubblica. Bisognerebbe tornare alla democrazia delle piccole comunità, dove si vivono i rapporti veri. Siamo diventati fragili e soli. Il vantaggio forse di questa situazione è che apriamo gli occhi: senza Dio, senza l'umiltà di rendere conto a qualcuno - che tutto regge - delle proprie azioni, l'uomo fa quel che vuole, e la legge la stabilisce il più forte. Chiamiamola legge della giungla, o del “nuovo ordine mondiale", non cambia molto». Da Trieste ha ricordato al Papa che si è consacrato a Dio, e non ai banchieri. Ha poi aggiunto: sto esagerando. Pentito di averlo detto?«No no no, lo ripeterei, mi rendo semplicemente conto di essermi esposto». Un po' come monsignor Viganò, che ha parlato di psico-pandemia. «Per fortuna che c'è Viganò. Le confesso che qualche anno fa non mi stava molto simpatico, ma penso si sia convertito: si è reso conto della necessità di tornare a essere sé stesso come uomo consacrato a Dio, senza timori». Lei, mi pare di capire, non ne ha. «Magari mi dicessero qualcosa. Ci sono fratelli consacrati che condividono quel che dico, o che cercano un dialogo. Ma dalla diocesi silenzio totale, il gelo». Ma non punizioni, giusto?«Da due domeniche non vengo chiamato per le messe, anche se so che in molti sono venuti per solidarietà e amicizia. Spero mi richiamino presto».Si sente solo nella Chiesa?«Non mi sono mai sentito solo, perché se sei amato da Dio questo ti appaga. A volte un po' di scoraggiamento, forse, o di tristezza per le persone che stanno soffrendo. Ma escono tante cose buone: parlare, ascoltare, questo è l'importante. In fin dei conti sono un contadino come i miei genitori e questo è il tempo di seminare, altri raccoglieranno o io stesso, con pazienza. Di certo combatto». Nella lettera aperta se la prende anche con il divieto di dare la comunione in bocca. «Perché quand'ero cappellano in ospedale potevo darla anche a persone in isolamento? Sa che non bisognerebbe nemmeno inginocchiarsi per rispettare il distanziamento? Qui in estate viene una famiglia con 5 figli dal Lussemburgo. S'inginocchiano tutti, e il loro gesto conta per tutti più che la predica. Chiedono la comunione in bocca, perché da loro non è vietato: cosa dovrei fare? Non trova ridicolo che solo se sei italiano non puoi?».La comunione comunque, lockdown a parte, si può fare. «E io guardo gli occhi delle persone, quante cose raccontano. Soprattutto gli sguardi allarmati dei bambini: sono il termometro dello stato della società». Ci è andato giù pesante anche con la questione dei soldi. Lei stesso, però, senza l'8 per mille non potrebbe riparare il tetto della chiesa. «L'8 per mille è un conto. Ma con i contributi statali ai giornali come la mettiamo? Vale per Avvenire come per il settimanale diocesano: se sovvenzionati, non se la sentono di fare critiche alla linea governativa. Il rischio è che diventiamo una Chiesa di Stato, modello cinese. Sei protetto, ma fai come voglio io, dicono. Sto invece domandando chi vogliamo seguire: forse l'Agenda 2030 dell'Onu?».La Chiesa è nel mondo. «Ma non dobbiamo cercare né potere né consenso. Faranno anche comodo, ma lo scopo è soltanto cercare di portare le persone a incontrare Dio. Vorrei che la Chiesa mi offrisse una sua lettura di quel che sta accadendo, che non si preoccupi di scontentare i potenti. Non dico che i vescovi devono diventare tutti mistici, no, o critici su vaccini e governo: vorrei però mi facessero percepire che vibrano d'amore per Dio, e non semplicemente per una fraternità universale che va bene a tutti, pure agli atei». Di modelli ne ha?«Persone come i vescovi del dopoguerra, o come il rettore del seminario di Belluno che, quando venne qui Benito Mussolini, non si presentò, mostrando in pubblico il dissenso». Ma oggi c'è in ballo la salute. «Eh sì, ma rischia di essere una foglia di fico, perché non puoi giustificare con la salute l'abolizione dei diritti fondamentali dell'essere umano in nome delle decisioni di burattinai che stanno ben più in alto del governo italiano».
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