Uno studio dell’università di San Paolo su 35 Paesi europei fa a pezzi il diktat. Gli Stati più solerti nell’imporre il bavaglio, come l’Italia, non hanno infatti registrato risultati migliori di quelli con scarso uso dei dispositivi.
Uno studio dell’università di San Paolo su 35 Paesi europei fa a pezzi il diktat. Gli Stati più solerti nell’imporre il bavaglio, come l’Italia, non hanno infatti registrato risultati migliori di quelli con scarso uso dei dispositivi.«Indossando una Ffp2, le probabilità di contagiarsi diminuiscono dell’83% e la malattia, se contratta, lo è in forma meno grave». Lo assicura Roberto Burioni, la virostar che presidia gli studi Rai di Che tempo che fa. La teleomelia domenicale, però, cozza con le evidenze raccolte sul campo. Uno degli studi più recenti e interessanti su mascherine e Covid è quello pubblicato, una ventina di giorni fa, dal sito della rivista medica Cureus. L’autore, un microbiologo dell’università di San Paolo del Brasile, ha comparato i dati su contagi e morti di 35 Paesi europei, tra cui l’Italia. Conclusione: gli Stati «con alti livelli di ottemperanza» all’imperativo d’indossare le mascherine «non hanno avuto risultati migliori di quelli con scarso utilizzo» dei dispositivi di protezione. Sorpresa? Mica tanto. Già alcune ricerche su precedenti epidemie influenzali erano giunte a conclusioni poco confortanti sull’utilità dei Dpi come mezzo per limitare la diffusione dei virus respiratori. Una, pubblicata a novembre 2020 sulla Cochrane library, ammetteva che non era stato possibile dimostrare «una chiara riduzione nell’infezione respiratoria virale con l’utilizzo di mascherine chirurgiche». E aggiungeva - udite udite - che non c’erano neppure «chiare differenze» tra l’uso delle chirurgiche e quello delle N95/P2, glorificate da Burioni. Un altro studio, uscito a maggio 2020 su Policy Review, sottolineava che «le prove raccolte da 14 test randomizzati controllati […] non hanno confermato un effetto sostanziale» nella riduzione della trasmissione dell’influenza. Il professor Beny Spira, autore dell’articolo su Cureus, segnala, inoltre, che le analisi che incoraggiavano l’impiego delle protezioni facciali erano limitate all’estate e all’inizio dell’autunno 2020. La sua, invece, considera l’ondata invernale 2020-2021, caratterizzata dalla comparsa della prima variante ad accresciuta contagiosità, quella inglese. Tale circostanza sembra avvalorare i moniti di alcuni esperti italiani, come Andrea Crisanti e Maria Rita Gismondo, secondo i quali, con il tasso di trasmissibilità di Omicron e delle due sottovarianti, la vera o presunta barriera delle mascherine diventa sempre più frangibile.Il ricercatore brasiliano ha applicato alle informazioni sul livello di utilizzo dei Dpi, sui casi e sulle vittime di Covid per milione di abitanti nelle singole nazioni, un indicatore statistico, l’indice di correlazione R per ranghi di Spearman. Senza perderci in tecnicismi, riportiamo il verdetto dell’indagine: essa ha individuato una correlazione positiva non statisticamente rilevante tra uso delle mascherine e infezioni e una statisticamente rilevante tra uso delle mascherine e decessi. Dunque, più mascherine sono associate (debolmente) a più contagi e (in modo significativo) a più morti . Pertanto, sebbene non possa essere desunta «alcuna conclusione causa-effetto» dall’osservazione, cioè, benché non si possa affermare che è l’utilizzo delle mascherine a far aumentare contagi e vittime, tuttavia, «l’assenza di correlazioni negative tra impiego della mascherine e casi e decessi da Covid-19» dimostra che il ricorso massiccio e coercitivo ai Dpi «non è stato in grado di ridurre la trasmissione» del coronavirus. Anzi, potrebbe aver avuto «conseguenze dannose indesiderate». Che i «mascherati» contraggano il Covid «in forma meno grave», Burioni dovrebbe andarlo a raccontare ai parenti di quelli che sono morti nonostante l’obbligo di bavaglio persino per chi passeggiava all’aperto da solo.Certo, lo studio di Spira, puramente statistico, non sostiene che la mascherina in sé non sia capace di schermare dal Sars-Cov-2 in situazioni vis à vis. Il punto non è se, salendo in ascensore con il vicino, giovi o meno indossare la Ffp2. A non funzionare è la mascherina in quanto policy, provvedimento di profilassi generale imposto dal governo. I motivi del fiasco possono essere tanti: ad esempio, il grosso dei contagi magari avviene in contesti in cui è impossibile indossare sempre la mascherina, come le abitazioni private; mentre i decessi di sicuro aumentano se, anziché curare i malati, si prescrive loro la vigile attesa. Fatto sta i decreti per imbavagliare la popolazione non servono a niente. In Italia, nell’intervallo di tempo considerato dalla ricerca, con il 91% di utilizzo medio delle mascherine, ci sono stati oltre 54.000 infezioni e oltre 1.200 morti per milione d’abitanti; in Danimarca, con il 14% di impiego medio dei Dpi, circa 35.000 casi e poco più di 300 vittime.Così, dopo il mito del lockdown, ormai sbugiardato da una ridda di analisi scientifiche, si sta sbriciolando l’altro feticcio del carrozzone pandemico, capitanato da Roberto Speranza. Bisognerebbe farlo notare al sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, per cui un’estate senza restrizioni è possibile perché i cittadini, «in alcune situazioni, continuano a indossare le mascherine». E a Fabrizio Pregliasco, che vaticina 20 milioni di contagi in autunno e pronostica il ritorno dell’obbligo di coprirsi la faccia «in qualche caso». Cominciamo coprendo quella di chi ha contribuito a fabbricare il calamitoso «modello italiano». Ma per questa vergogna, la Ffp2 non basta; suggeriamo il velo integrale.
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