Per la transizione verde Bruxelles si concentra sulle case e sulle macchine. Ora un nuovo libro smaschera l’ipocrisia dei colossi dell’alta tecnologia: fanno i paladini del green, ma non forniscono resoconti sull’impatto dei loro prodotti. Che è decisamente elevato.
Per la transizione verde Bruxelles si concentra sulle case e sulle macchine. Ora un nuovo libro smaschera l’ipocrisia dei colossi dell’alta tecnologia: fanno i paladini del green, ma non forniscono resoconti sull’impatto dei loro prodotti. Che è decisamente elevato.Ci viene ripetuto costantemente: la transizione ecologica è inevitabile. L’Unione europea impone norme liberticide che danneggiano le classi più disagiate per costringerci a rendere «green» le abitazioni, una pressione che si aggiunge a quelle che già subiamo per favorire il passaggio all’elettrico. Case e auto - che sono presidi di libertà oltre che beni di primissima necessità - finiscono sotto attacco. Ma, curiosamente, non ci si preoccupa mai di altre fonti di emissioni che pure, almeno nell’ottica ecologista, dovrebbero essere altrettanto temute se non di più. Parliamo dei dispositivi digitali, il cui impatto ambientale è generalmente sottaciuto. Lo ha notato, tra gli altri, Giovanna Sissa, docente all’Università di Genova ed esperta indipendente della Commissione europea in un libro intitolato Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale, edito dal Mulino. La professoressa non è certo una negazionista climatica e nemmeno una scettica. Anzi, è più che attenta ai temi verdi e appare molto convinta della necessità di una rivoluzione ambientalista. Risulta dunque ancora più interessante quanto scrive. Allo stato attuale, spiega, «osservare che il digitale, con i suoi bit e la sua immaterialità, per esistere ha bisogno di cavi, circuiti, calcolatori potentissimi, memorie, apparecchiature varie e dispositivi individuali, e che tutto questo deve essere costruito, trasportato, alimentato, dismesso e smaltito, è quasi un tabù. L’imperativo è abbattere le barriere che ostacolano lo sviluppo digitale. Che sarà mai un insignificante impatto sull’ambiente anche se esistesse rispetto agli enormi vantaggi? Il solo ipotizzare che, data la fortissima tendenza di crescita, la piccola quota di negatività potrebbe diventare non più trascurabile sembra un tradimento della causa, un mettere in discussione la rivoluzione stessa e schierarsi dunque con i conservatori, nemici dell’innovazione». Niente di più vero. La rivoluzione digitale non si tocca, anzi procede spedita di pari passo con la sorella green. «Chiedere al settore digitale di adempiere ai propri obblighi di rendicontazione ambientale, come lo si chiede a tutti gli altri settori, suona sulle prime quasi come un’eresia», prosegue la Sissa. «In effetti gli schemi per i report ambientali sono concepiti per attività tradizionali e si applicano difficilmente all’universo digitale, specialmente al cloud computing».Il settore digitale è restio a farsi esaminare, e non ha tutti i torti ovviamente. «Le dispute sull’ammontare delle sue emissioni globali di carbonio sono feroci, pochi gli studi, i dati difficili da ottenere. Spesso nella diatriba si punta a delegittimare piuttosto che ad argomentare. La forchetta dei valori possibili diverge ampiamente, più di quanto accada in altri ambiti». Piccola contraddizione: mentre rifugge dalle schermature ecologiche, «il settore digitale è sempre pronto a recepire la nuova aria che tira e cambia repentinamente atteggiamento: cavalca la tigre e, in quanto maggior utilizzatore di energie rinnovabili, si descrive come molto green. In tal modo, però, invece di gestire la complessità della riduzione delle emissioni di carbonio la limita a un solo aspetto: l’uso di fonti rinnovabili per produrre elettricità. E così facendo, ancora una volta, il presunto potere taumaturgico di una tecnologia - quella delle rinnovabili - consente di continuare a non preoccuparsi e dunque a consumare sempre di più, all’infinito. Le grandi aziende, specie del cloud, hanno sempre voluto tranquillizzare i propri utenti, deresponsabilizzandoli, invece di fornire in modo trasparente tutte le informazioni necessarie perché essi possano conoscere l’impatto delle loro attività e trovare le proprie soluzioni meno impattanti».Che le compagnie della rivoluzione tecnologica producano parecchie emissioni è comprensibile con il solo buon senso. «Qualsiasi tipo di prodotto o servizio è responsabile di emissioni di Ghg nelle varie fasi del suo ciclo di vita. Si definisce impronta di carbonio (carbon footprint) la quantità totale di emissioni di gas a effetto serra causata da un individuo, evento, organizzazione, servizio, luogo o prodotto, espressa nel suo equivalente di anidride carbonica», spiega Giovanna Sissa. «Ogni settore di attività produce emissioni di Ghg. L’elettricità è responsabile del 26% delle emissioni globali, il settore dei trasporti del 16%, l’agricoltura e l’edilizia rispettivamente per il 21 e il 7%. Il settore che produce la percentuale maggiore di emissioni - il 30% del totale - è l’industria, che crea ciò da cui la vita contemporanea dipende, come cemento, plastica e acciaio. [...] Diventano quindi significative le attività che producono quantità rilevanti di tali gas, quantità che vanno diminuite o azzerate. L’universo digitale, con tutto ciò che lo compone, non fa eccezione. Oltre a richiedere molta energia elettrica per funzionare (che si traduce in emissioni di Ghg), apparecchiature e dispositivi digitali sono responsabili di molte emissioni quando sono progettati, prodotti, assemblati, trasportati e infine smaltiti: dunque, generano una notevole impronta di carbonio».Non si tratta tanto (o solo) di calcolare il tasso di emissioni di un tablet o uno smartphone, ma di capire il peso dell’intero processo produttivo. «L’impatto di un dispositivo digitale sull’ambiente, cominciato dal momento in cui sono state estratte le materie prime, si accresce processo dopo processo, continente per continente, laboratorio per laboratorio, fabbrica per fabbrica. Se l’estrazione delle materie prime comporta un forte utilizzo di energia primaria, non è certo da meno la fabbricazione dei componenti», scrive la ricercatrice. «I componenti vengono poi trasportati dove saranno assemblati per realizzare i prodotti digitali finali: miliardi di dispositivi digitali a loro volta trasportati per lunghe distanze, in imballaggi consistenti a causa della fragilità di tali prodotti. La logistica dei materiali per produrre i componenti, delle attrezzature necessarie per la produzione, dei componenti da assemblare e dei prodotti da vendere (e poi dei rifiuti da smaltire) richiede un ulteriore consumo di energia. Tutta la catena di approvvigionamento (o supply chain), lunghissima e difficilissima da rendicontare corretta-mente, richiede tantissima energia e dunque produce CO2». I numeri sono abbastanza impressionanti. «Uno smartphone, destinato a essere mediamente in uso per due anni, vedrà così circa l’80% del suo dispendio totale di energia consumato prima ancora di venire acquistato. Il peso della fase di produzione nell’impatto energetico è di circa il 60% per un televisore connesso, un po' inferiore all’80% per un laptop. Una parte della posta in gioco ambientale delle tecnologie digitali non è quindi legata all’uso che ne facciamo, ma deriva dal suo processo produttivo», dice Sissa. Ed ecco un dato davvero stupefacente: «Produrre uno smartphone del peso di 140 g richiede circa 700 MJ (il Joule è l’unità di misura dell’energia) di energia primaria, mentre ci vogliono circa 85.000 MJ per produrre un’auto a benzina del peso di 1.400 kg: è necessario consumare 80 volte più energia per produrre un grammo di smartphone piuttosto che produrre un grammo di auto. Se guardiamo specificamente ai microchip è necessaria un’energia di circa 600 MJ per produrre un microchip di 2 g».In buona sostanza, produrre dispositivi digitali richiede un consumo di energia maggiore rispetto a quello necessario alla produzione di auto. Resta allora una domanda inevasa: perché ci perseguitano su case e auto, coltivazioni e allevamento, ma a nessuno sembra importare l’impatto del digitale? Chissà, forse battere questo tasto non conviene agli sponsor della rivoluzione verde.