La Meloni ricorda che cosa c’è scritto nel manifesto di Ventotene e l’opposizione impazzisce. Si vede che si riconoscono nel testo che predica abolizione della proprietà privata e dittatura del partito rivoluzionario per il quale la metodologia democratica è un peso.
La Meloni ricorda che cosa c’è scritto nel manifesto di Ventotene e l’opposizione impazzisce. Si vede che si riconoscono nel testo che predica abolizione della proprietà privata e dittatura del partito rivoluzionario per il quale la metodologia democratica è un peso.Ho sempre pensato che la maggior parte di coloro che lo citano, in realtà il manifesto di Ventotene non lo abbiano mai letto. Probabilmente si sono fermati al titolo accattivante: «Per un’Europa libera e unità».Altrimenti saprebbero che il testo scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, se applicato nella sua interezza, getterebbe le basi di un nuovo regime, non molto diverso da quello che i tre confinati sull’isola combattevano. Sono loro stessi a propugnarlo, descrivendo con minuzia, nell’agosto del 1941, l’ordine che vorrebbero costituire: «Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato e attorno a esso la nuova democrazia».La conoscenza dei propositi del manifesto di Ventotene mi aveva spinto giorni fa a interrogarmi su come fosse possibile la partecipazione di alcuni movimenti cattolici alla manifestazione lanciata da Michele Serra in favore dell’Europa. Mi chiedevo: ma lo sanno che l’Unione immaginata dall’editorialista di Repubblica e dai suoi compagni è quella di Ventotene, ossia socialista, contraria alla proprietà privata, favorevole all’esproprio delle imprese, decisa ad abolire il Concordato e determinata a imporre un supremo ordine nuovo? La domanda è rimasta per giorni sospesa nel vuoto, senza risposta, ma ho visto che ieri l’ha ripresa il presidente del Consiglio, che rispondendo alla Camera in vista del Consiglio europeo si è chiesta le stesse cose. Gli esponenti dell’opposizione, come spesso capita, invece di rispondere nel merito hanno scatenato una gran cagnara, al punto che è stato necessario sospendere la seduta. Per gli esponenti della sinistra, le parole di Giorgia Meloni sarebbero state offensive nei confronti di tre esponenti della lotta al fascismo. In realtà il premier si è limitato a leggere in aula alcuni brani del manifesto di Ventotene. Nulla di più e nulla di meno. E questo ha generato scandalo.Sono Spinelli, Rossi e Colorni a scrivere che per rispondere alle esigenze da loro immaginate la rivoluzione deve essere socialista. E sempre loro a dedicare un paragrafo alla proprietà privata, che dev’essere «abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». Secondo i firmatari del famoso documento, la direttiva è fondamentale per «liberare i lavoratori dei Paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali». E allo stesso tempo, oltre all’abolizione e limitazione della proprietà privata, nel manifesto è teorizzata la nazionalizzazione delle imprese private, per evitare «lo sfruttamento della massa dei consumatori». Un programma da eseguirsi «su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti». Non è finita: c’è l’esproprio proletario del patrimonio familiare. «Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire». E a questo bisogna aggiungere una riforma industriale «che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio, ecc.». In pratica, le aziende che non siano state nazionalizzate dovranno trasformarsi in cooperative e l’imprenditore dovrà cedere tutte o in parte le sue azioni agli operai. Ce n’è anche per la Chiesa. Infatti, il manifesto si ripromette di abolire il concordato tra Stato e Vaticano, che è accusato di essere «naturale alleato» di tutti i regimi reazionari, allo scopo di ottenere esenzioni e privilegi, ma soprattutto di estendere «i suoi tentacoli sulla scuola e sull’ordinamento della famiglia».Ma la parte più interessante è forse quella in cui Spinelli, Rossi e Colorni illustrano il regime che vorrebbero creare. «Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere amministrate ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente». Infatti, spiegano, «la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria» e il movimento degli intellettuali, «se animato da sentimenti democratici, sarà proclive a scivolare, di fronte alle difficoltà, sul terreno della reazione di tutte le altre classi contro gli operai, cioè verso una restaurazione». Spetta dunque a un’élite organizzare e dirigere le forze progressiste, «attingendo visione e sicurezza, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale delle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato e attorno a esso la nuova democrazia».È una caratteristica di tutti i regimi teorizzare di agire nell’interesse popolare. I membri di una classe intellettuale che si ritiene superiore rispetto alle masse pensano sempre che tocchi a loro guidare il destino delle classi subalterne. Sono le avanguardie del proletariato, quelle da cui discendono inevitabilmente le dittature. Si può teorizzare la nascita di uno Stato socialista, ma poi si finisce con l’Unione sovietica. Oppure con gli Stati Uniti d’Europa, ma se non sono chiari i meccanismi democratici, se non esiste l’elezione dei vertici da parte del popolo, il regime è in agguato. So bene che gli intellettuali si sentono più intelligenti delle masse e cominciano a pensare che il suffragio universale sia un errore. Del resto, è quello che sosteneva il maître à penser di molti compagni che oggi si agitano per le parole di Giorgia Meloni. Era il 2016 quando Eugenio Scalfari spiegò che l’oligarchia è la miglior forma di democrazia. Sapete chi è d’accordo con questa definizione? Gli oligarchi. È così che Putin è diventato Putin. Ps. Gli storici di sinistra accusano Meloni di non aver contestualizzato il manifesto di Ventotene nel periodo storico in cui fu scritto e di averne letto solo qualche brano. Ma se è datato perché c’è chi si rifà al documento scritto più di 80 anni fa? E poi, se si parla di dittatura, che sia proletaria, comunista o europeista poco importa: sempre una dittatura è.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 21 novembre con Flaminia Camilletti
Gianfranco Lande durante un’udienza del processo che l’ha coinvolto (Ansa)
I parenti del consigliere hanno investito una fortuna con Gianfranco Lande. Che per prendere tempo li spingeva a fare «condoni» sui capitali.
Francesco Saverio Garofani in questi giorni viene raccontato come il gentiluomo delle istituzioni, il cattolico democratico che ha attraversato mezzo secolo di politica italiana con la felpa della responsabilità cucita addosso. Quello che nessuno racconta è che lui, insieme a una fetta consistente della sua famiglia, è stato per anni nel giro di Gianfranco Lande, il «Madoff dei Parioli». E che il suo nome, con quello dei tre fratelli, Carlo, Giorgio e Giovanna (che negli atti della Guardia di finanza vengono indicati in una voce cumulativa anche come fratelli Garofani), riempie la lista Garofani nell’elenco delle vittime allegato alla sentenza che ha raccontato, numeri alla mano, la più grande stangata finanziaria della Roma bene, insieme a quello di un certo Lorenzo (deceduto nel 1999) e di Michele, suo figlio, del cui grado di eventuale parentela però non ci sono informazioni.
Getty Images
Travaglio: «Garofani deve dimettersi». Foa: «Non è super partes, lasci». Porro: «È una cosa pazzesca e tentano di silenziarla». Padellaro: «Una fior di notizia che andava pubblicata, ma farlo pare una scelta stravagante». Giarrusso: «Reazioni assurde a una storia vera». L’ex ambasciatore Vecchioni: «Presidente, cacci il consigliere».
Sergio Mattarella (Getty Images)
Il commento più sapido al «Garofani-gate» lo ha fatto Salvatore Merlo, del Foglio. Sotto il titolo «Anche le cene hanno orecchie. Il Quirinale non rischia a Palazzo, ma nei salotti satolli di vino e lasagnette», il giornalista del quotidiano romano ha scritto che «per difendere il presidente basta una mossa eroica: restarsene zitti con un bicchiere d’acqua in mano». Ecco, il nocciolo della questione che ha coinvolto il consigliere di Sergio Mattarella si può sintetizzare così: se sei un collaboratore importante del capo dello Stato non vai a cena in un ristorante e ti metti a parlare di come sconfiggere il centrodestra e di come evitare che il presidente del Consiglio faccia il bis.
Lo puoi fare, e dire ciò che vuoi, se sei un privato cittadino o un esponente politico. Se sei un ex parlamentare del Pd puoi parlare di listoni civici nazionali da schierare contro la Meloni e anche di come modificare la legge elettorale per impedire che rivinca. Puoi invocare provvidenziali scossoni che la facciano cadere e, se ti va, perfino dire che non vedi l’ora che se ne vada a casa. E addirittura come si debba organizzare il centrosinistra per raggiungere lo scopo. Ma se sei il rappresentante di un’istituzione che deve essere al di sopra delle parti devi essere e apparire imparziale.






