2024-09-02
La sinistra accusa Tex Willer di genocidio
«Tex Willer», il fumetto creato da Gianluigi Bonelli (Ansa)
Il nuovo bersaglio della cancel culture è il celeberrimo cowboy del Texas, che per «Repubblica» è complice del massacro dei nativi americani. Una vera sciocchezza propinata da un quotidiano che tempo fa aveva pure allegato i suoi fumetti in un’edizione patinata.Al novero dei supercattivi da cancellare mancava in effetti il povero Tex Willer, colpevole addirittura di aver contribuito a sdoganare un genocidio. Dietro la camicia gialla del celeberrimo ranger del Texas si nasconde dunque un Tex Himmler, complice del massacro dei nativi americani e, soprattutto, del suo occultamento presso l’opinione pubblica. Lo scrive, su Repubblica, Carlo Pizzati in una lunghissima rilettura demolitrice del mito del cowboy. Egli ammette - quasi un autodafé - di amare le storie del West. «Sono un fan di tutta questa narrativa», scrive. «Perché? Anche a causa di certe lezioni di mascolinità tossica e di intensa autosufficienza, un equilibrio e una sicurezza in sé che molti uomini e ragazzi della mia generazione hanno sempre trovato magnetici ed esemplari, per quanto ridicola possa apparire questa nostra passione macho, a un esame contemporaneo». La mascolinità tossica, figurati se poteva mancare. In estrema sintesi, questa è la tesi di Repubblica, concentrata in un sommario: «Chi è nato tra gli anni Sessanta e Ottanta è cresciuto con Tex Willer e i film western. Una cultura basata sulla superiorità del salvatore bianco tra i selvaggi dalla pelle scura. Possibile che la propaganda ci abbia fatto amare un genocidio? Sì. E vi spieghiamo come». Su un punto Pizzati ha almeno in parte ragione: «Tutta questa westernizzazione delle nostre menti si basa su un mito che si è dimostrato falso e che fu costruito abilmente da piccoli gruppi di potenti in varie occasioni al fine di perpetrare un genocidio al servizio degli interessi commerciali e affermare la superiorità razziale sugli abitanti locali, mentre venivano eliminati. Famosi generali e illustri presidenti americani, sorprendentemente (o no), sono i principali indiziati».Non vi è alcun dubbio sul fatto che i nativi americani siano stati vittima di uno sterminio di cui mai si scriverà abbastanza, anche perché ha avuto conseguenze micidiali pure per generazioni di sopravvissuti, come documenta una ampia letteratura. E certamente il mito della frontiera è stato edificato anche e soprattutto sulla pelle delle tribù cosiddette indiane, che sono state non soltanto massacrate ma anche truffate a ripetizione. Ma se si volesse davvero ragionare politicamente sul portato politico dell’epica della frontiera e del concetto di «destino manifesto», si dovrebbe allora giungere a più estreme conseguenze, osservando che proprio la suprema degenerazione di questa mentalità ha causato tanti dei conflitti odierni, compresi quelli che gli amici progressisti sostengono. Di sicuro, poi, a Repubblica non sfuggirà che in Italia fu soprattutto la destra - anche «estrema» come si suole dire - a recuperare nel proprio racconto politico i coraggiosi guerrieri che si opposero agli yankee, simboli della resistenza autoctona all’occupante straniero, baluardi di tradizione destinati a essere sconfitti ma pronti eroicamente a morire per sfidare le orde bianche della modernità. I colleghi progressisti avrebbero potuto condire il vasto servizio con una bella intervista sul tema a Ignazio La Russa, la cui simpatia per i capi tribù è fin troppo nota. Uscendo dalla politica, si può notare che i primi a fare i conti con il genocidio, i primi a intraprendere l’opera di modifica dell’immaginario collettivo sono stati proprio i grandi narratori del West. Gente come A.B. Guthrie, per intendersi, i cui splendidi romanzi sono pubblicati in Italia da Mattioli 1885, forse l’editore più sensibile ai temi della frontiera. Non per nulla ha stampato anche le opere di Frank B. Linderman (l’ultima è Aquila di guerra) a cui si devono preziose antologie della sapienza nativa. Il cowboy, nella letteratura e nel cinema e in alcuni grandi serie come Yellowstone, incarna in realtà i valori più positivi dello spirito americano che attualmente pare sepolto dal politicamente corretto e dalla brama di potere. L’uomo che sfida i suoi limiti incontrando e scontrandosi con la natura selvaggia, l’esplosione della wilderness, il coraggio e la forza maschile spesso al servizio di buone cause: tutto questo emerge dai racconti di cowboy e trapper. Detto questo, se c’è uno che non merita di essere tirato in mezzo all’orrore genocidiario è proprio Tex Willer. Nella sua tutto sommato dolce ingenuità, Tex è amico anzi fratello dei nativi americani. Sposa una donna indiana, con cui ha il figlio Kit, poi la perde e lui per il resto della vita non incontra altro amore. Eroe ascetico e integerrimo, si vota alla memoria della sua amica e amante onorandola persino oltre la morte. Ribattezzato Aquila della notte, egli vive tra i navajos ed è amato e rispettato da quasi tutte le tribù. Vero, lo si potrebbe anche vedere come un custode della pax indiana ottenuta a spese delle tribù, ma si deve essere davvero maliziosi e malpensanti. Al di là di qualche pistolettata e imprecazione e tralasciando la sua discutibile alimentazione, Tex Willer è fin troppo buono, puro di una purezza che talvolta sfiora il buonismo. Quelli che incarna sono valori positivi, paterni, di forza e magnanimità. In effetti non stupisce affatto che risulti sgradito alle menti liberal. Se però Pizzati avesse ragione e se Tex, oltre a educare milioni di italiani, li avesse anche allenati ad amare un genocidio, resterebbe comunque una grande questione in sospeso. Repubblica, fino a non troppo tempo fa, ha condotto una operazione editoriale di enorme successo: ha allegato tutti i volumi di Tex in una bella edizione patinata. Senza farsi troppi problemi sullo sterminio dei nativi americani.
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