Ricorso di Cgil, Cisl e Uil nei confronti di Banco Bpm per condotta scorretta. Ma è la Triplice che ha fatto saltare la trattativa che, seguendo la prassi del settore, prevedeva 1.600 esuberi incentivati e 800 giovani in ingresso. Risultato? Restano solo i tagli.
Ricorso di Cgil, Cisl e Uil nei confronti di Banco Bpm per condotta scorretta. Ma è la Triplice che ha fatto saltare la trattativa che, seguendo la prassi del settore, prevedeva 1.600 esuberi incentivati e 800 giovani in ingresso. Risultato? Restano solo i tagli.Le trattative vanno giudicate alla fine, quando tutte le parti in causa hanno deposto le armi. Se dovessimo però mettere un punto e dare un giudizio, che speriamo sia solo parziale, rispetto al tavolo che ha visto contrapposti i sindacati del credito di Cgil, Cisl e Uil al Banco Bpm, non potremmo che essere tranchant. Siamo davanti a un fallimento. Nell’ottica di uno snellimento degli organici (fisiologico da anni nel settore) l’istituto guidato da Giuseppe Castagna aveva proposto incentivi all’esodo per 1.600 dipendenti in cambio di 800 assunzioni di personale under 35. Saltata la trattativa è andato a ramengo anche lo scambio con la banca decisa a tirar dritta sull’organico da ridurre (usciranno quindi 800 persone) e a dire stop all’arrivo di forze fresche. Uno scambio che da anni è consuetudine nel settore bancario che ha alcune peculiarità che lo distinguono dalle altre categorie.Da una parte garantisce una media dei salari ben più alta rispetto agli altri lavoratori, aumenti contrattuali sostanziosi, l’ultimo ha portato 435 euro in più nelle buste paga degli addetti, e fondi robusti (finanziati con i soldi delle banche stesse) dai quali attingere quando appunto ci sono da risolvere questioni occupazionali. Parliamo quindi di un settore «ricco» e con scarsi livelli di litigiosità sindacale. Che però vive un periodo di grandi cambiamenti: da quasi 15 anni deve fare i conti con un processo di digitalizzazione che sta spostando il lavoro dalle filiali fisiche a quelle virtuali e le mansioni richieste dal livello impiegatizio a quello consulenziale.Una rivoluzione che dal 2010 a oggi ha ridotto i dipendenti dai circa 350.000 di quasi 15 anni fa all’attuale quota 270.000 con un sostanzioso ringiovanimento degli organici. Una svolta che è stata gestita grazie ai sostanziosi incentivi e facilitazioni all’esodo consentiti dai fondi del settore (non si tratta di risorse pubbliche) e da una generalizzata collaborazione sindacale. Ecco perché l’iniziativa di First Cisl, Uilca Uil e Fisac Cgil di procedere per via giudiziale nei confronti di Banco Bpm, depositando un ricorso per «denunciare il carattere antisindacale della condotta che Banco Bpm ha tenuto nei confronti delle organizzazioni che rappresentano i lavoratori», fa specie. E rappresenta una sorta di ultima carta che le forze sociali si stanno giocando a fronte dei risultati catastrofici della loro strategia. Che da una parte costringe 800 dipendenti che hanno i requisiti per il prepensionamento fino a 5 anni di anticipo a restare in banca e dall’altra fa saltare 800 assunzioni. Morale: per la prima volta nel settore un pacchetto di esodi non sarà accompagnato da ingressi. Con il conseguente addio al tanto auspicato ricambio generazionale. Non solo. Lo stallo mette a rischio anche il tavolo sui premi e sugli inquadramenti professionali, cioè rischia di far perdere altri soldi e possibilità di carriera ai circa 20.000 dipendenti della terza banca del Paese. Ma cos’è successo? Perché la situazione è degenerata? In un comunicato l’istituto riassume così la vicenda: «Banco Bpm ha avviato la trattativa il 7 marzo con il chiaro obiettivo di concludere un accordo entro il 30 giugno. Nella giornata di giovedì 27 giugno First Cisl, Fisac Cgil e Uilca hanno deciso di abbandonare il tavolo proprio nel momento in cui veniva affrontato il previsto tema del fondo per le uscite incentivate. Abbiamo ritenuto di continuare la trattativa con gli esponenti delle altre due sigle sindacali, Fabi e Unisin, rimaste responsabilmente al loro posto». Motivo del contendere? Da quello che ha ricostruito La Verità, la banca proponeva un ingresso ogni due uscite, in linea con le trattative che negli ultimi anni hanno portato a importantissimi ricambi generazionali all’interno dei maggiori istituti di credito del Paese (di recente anche i rappresentanti di Intesa Sanpaolo hanno fatto sapere che si resterà sul rapporto 1 a 2), mentre i sindacati pretendevano che il rapporto scendesse uno a uno. Richiesta ritenuta irricevibile dall’istituto guidato da Giuseppe Castagna.Sul perché della reazione stranamente barricadera dei bancari di Cgil, Cisl e Uil si sprecano le ricostruzioni. La versione più attendibile evidenzia il malcontento della Triplice (Cgil, Cil e Uil appunto) per la progressiva perdita di iscritti a vantaggio di altri sindacati del settore. Qualche centinaia di dipendenti del credito ha cambiato sigla di rappresentanza nell’ultimo anno e mezzo. Alle difficoltà i sindacati confederali avrebbero reagito alzando la voce e facendo saltare il tavolo della trattativa, per dare un segnale ai bancari. Se i risultati sono questi, però, sarebbe il caso di tornare a toni più accomodanti, per il bene di Cgil, Cisl e Uil e di chi gli sta dando ancora fiducia.
Vladimir Putin (Ansa)
Il piano Usa: cessione di territori da parte di Kiev, in cambio di garanzie di sicurezza. Ma l’ex attore non ci sta e snobba Steve Witkoff.
Donald Trump ci sta riprovando. Nonostante la situazione complessiva resti parecchio ingarbugliata, il presidente americano, secondo la Cnn, starebbe avviando un nuovo sforzo diplomatico con la Russia per chiudere il conflitto in Ucraina. In particolare, l’iniziativa starebbe avvenendo su input dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che risulterebbe in costante contatto con il capo del fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev. «I negoziati hanno subito un’accelerazione questa settimana, poiché l’amministrazione Trump ritiene che il Cremlino abbia segnalato una rinnovata apertura a un accordo», ha riferito ieri la testata. Non solo. Sempre ieri, in mattinata, una delegazione di alto livello del Pentagono è arrivata in Ucraina «per una missione conoscitiva volta a incontrare i funzionari ucraini e a discutere gli sforzi per porre fine alla guerra». Stando alla Cnn, la missione rientrerebbe nel quadro della nuova iniziativa diplomatica, portata avanti dalla Casa Bianca.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.





