2020-07-19
Silenzio di tomba sui paradisi fiscali europei
Gli aiuti dovrebbero essere finanziati anche con nuove imposte, ma non è stato nemmeno sfiorato il tema della tassazione comune. Olanda, Irlanda e Lussemburgo fanno concorrenza sleale. E hanno il potere di veto contro la riforma alla base del Recovery fund.La fiscalità continua a restare un tema sconosciuto al Consiglio dell'Unione europea. Tra il 17 e il 18 luglio i leader dei diversi Stati membri si sono riuniti per discutere e cercare di arrivare a una decisione comune sul Recovery fund, il fondo che avrebbe come obiettivo aiutare gli Stati membri a uscire dalla crisi causata dalla pandemia di coronavirus. Di molto si è discusso e nuove bozze sono state presentate dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, per cercare di soddisfare le posizioni di tutti. Ma di tassazione europea comune neanche una traccia. Eppure una parte del Recovery fund (tra i 200 e i 250 miliardi) dovrebbe proprio essere finanziata dalle entrate generate dalle nuove tasse Ue, come la Web tax e la carbon tax. Peccato che in Unione si sia fatto sempre fatica a dare seguito a iniziative fiscali comunitarie a causa dell'opposizione dell'Olanda, del Lussemburgo e dell'Irlanda. E dunque anche se si dovesse trovare un accordo su che forma dovrà avere il Recovery fund, quello che mancherà è una parte della sostanza. Le risorse destinate alla fiscalità europea come saranno riempite e da chi? Il non discutere apertamente della questione durante il Consiglio europeo potrebbe dunque essere stato un errore fatale, che porterà inevitabilmente a uno scontro proprio con l'Olanda e gli altri paradisi fiscali Ue per far approvare le necessarie riforme. Questa battaglia si sta giocando da molto tempo e la stessa Commissione ne è uscita sconfitta più di una volta. L'unica arma in suo possesso è infatti quella di svolgere indagini, ammonire e comminare sanzioni nel caso in cui scopra aiuti di Stato illegali dati da un Paese membro a una multinazionale, tendenzialmente americana, in cambio di investimenti e posti di lavoro. Peccato che queste decisioni, per quanto possano fare il giro del mondo ed essere esemplari (nel caso Apple-Irlanda la multa fu di ben 13 miliardi di euro) vengano speso smontate dopo qualche anno dallo stesso tribunale dell'Ue, che sistematicamente dà ragione al paradiso fiscale Ue e alla multinazionale di turno. Nel 2018 la Corte assolse il Lussemburgo e McDonald's e il 15 luglio 2020 è stata la volta di Apple e Irlanda. In entrambi i casi la Commissione non è riuscita a dimostrare fino in fondo la sua tesi. E gli aiuti di Stato non sono mai stai riconosciuti come illegittimi. Queste continue sconfitte da parte della Commissione non fanno altro che indebolirla nei confronti dei paradisi fiscali all'interno dell'Ue, che si sentono sempre più legittimati e forti nei confronti degli altri Stati membri. Se a questo si aggiunge il fatto che nell'Unione europea non esiste un'armonizzazione fiscale e che per approvare una qualsiasi riforma in materia ci debba essere l'ok di tutti gli Stati membri, il quadro è completo. Non è un caso che la Web tax sia finita in un nulla di fatto, dopo anni e anni di discussioni. Le proposte della Commissione sono infatti state scartate proprio a causa dell'opposizione fin dal principio di Olanda, Irlanda e Lussemburgo. D'altra parte questi Paesi, concedendo alle multinazionali aiuti di diversa natura, hanno rubando entrate fiscali agli altri Stati membri rimpolpando per bene le loro tasche. Una Web tax europea avrebbe infatti danneggiato irrimediabilmente le loro entrate fiscali. E questo non era possibile. Da qui il veto su ogni proposta di tassazione europea. La Commissione non ha potuto niente contro questi Paesi, tanto che a fine 2019 ha mollato il progetto di Web tax demandando il tutto a livello Ocse. Peccato che al tavolo di confronto internazionale siano seduti, oltre che tutti gli Stati membri dell'Ue, anche gli Usa che sono contrari a una tassa sui colossi del Web. E dunque a dare ulteriore forza alla posizione olandese, irlandese e lussemburghese ci sarà il carico da 90 degli Stati Uniti. Entro il 2020 l'Ocse punta a raggiungere un risultato. Se mai ci riuscirà non ci si dovrà aspettare nulla di così innovativo o sconvolgente, vista l'opposizione del quartetto. Ma lasciamo la politica fiscale internazionale da parte e torniamo a quella europea che vede in gioco il Recovery fund e i suoi finanziamenti. Come si può ben capire la fiscalità Ue non è un aspetto secondario, a meno che non ci si accontenti di avere un contenitore con un bel nome, senza contenuto. E soprattutto non è un tema di cui Paesi come l'Olanda, il Lussemburgo e l'Irlanda discutono molto volentieri. O meglio, quando lo hanno fatto, perché costretti, hanno giocato al meglio le loro carte uscendone vincitori. Il non aprire una discussione seria in sede di Consiglio Ue in merito a questi temi è stato dunque un errore che potrebbe rivelarsi fatale per l'Italia in un immediato futuro. Ricordare il tema del dumping fiscale non è sufficiente. Giuseppe Conte durante il secondo giorno di lavoro ha infatti ribadito che «in Europa l'Italia pretende una seria politica fiscale comune, in modo da affrontare surplus commerciali e dumping fiscali per poter competere ad armi pari». Belle parole che probabilmente rimarranno tali.