
Dall’Italia alla Francia, dalla Spagna a Svezia e Belgio, i principali Paesi Ue sono restii a indebitarsi. A eccezione di Berlino, che avanza come un panzer per ricostituire una grande forza militare. Una prospettiva che dovrebbe mettere un po’ di apprensione.C’eravamo tanto armati. A parole. Comincia con una serie di litigi la lunga marcia verso la difesa comune dell’Europa, convocata in Consiglio da Ursula von der Leyen a Bruxelles per costruire le basi del piano monstre da 800 miliardi in cinque anni. È l’ormai leggendario «ReArm», che ieri ha ricevuto un secondo nome: «Readiness 2030» (prontezza, capacità di reazione) per enfatizzare la fretta. Dai primi distinguo c’è poco da illudersi: sarà quella del bradipo o dell’agenzia satellitare Esa, che si riunisce da 20 anni ma rispetto a Starlink è ancora ai livelli della Mir sovietica.Il problema principale è come sempre l’avanzata in ordine sparso. Mentre la Germania del neo cancelliere, Friedrich Merz, si assume il ruolo di locomotiva senza freni (ha cambiato la Costituzione e ha ottenuto dal Bundestag l’approvazione per 1.000 miliardi di investimenti bellici a debito), alcuni Paesi chiave hanno già cominciato a puntare i piedi. Oltre all’Italia, anche Francia, Belgio, Svezia e Spagna non intendono attivare la clausola di salvaguardia per aumentare il deficit dell’1,5% consentito per le spese militari ma preferirebbero una misura comunitaria stile Recovery fund, meno impattante sui conti. Una resistenza che, per Italia e Francia, ha la principale motivazione nel già pesantissimo deficit nazionale; un ulteriore aumento provocherebbe la bocciatura dei mercati. Quindi no alla clausola, no ai prestiti del fondo Safe, no all’utilizzo del Mes, mentre Germania e Olanda bocciano gli eurobond. Per tutti, sarebbe meglio comprare «made in Europe» tagliando fuori Gran Bretagna, Stati Uniti e Turchia. La contrarietà ha già provocato una conseguenza: la bozza del documento preparata dal Consiglio d’Europa sul piano Von der Leyen contiene la formula sulla «richiesta di strumenti di finanziamento ulteriori». Si deciderà in luglio. Un modo elegante dei riottosi per sfilarsi dalla morsa tedesca e far sapere alla presidente della Commissione che, così com’è, il piano non agevola tanto il riarmo dell’Europa quanto il riarmo della Germania. Con tutti gli annessi e connessi psicologici, visto che la narrazione dominante è ferma alle tempeste d’acciaio delle croci uncinate. Il sospetto che ancora una volta la Ue diventi una mosca cocchiera di Berlino non è soltanto un cattivo pensiero.Von der Leyen continua a ripetere che l’obiettivo è duplice: prepararsi alla exit strategy degli Stati Uniti e allestire una difesa che «renda i Paesi dei confini orientali e l’Ucraina abbastanza forti da essere indigesti per potenziali invasori. Questa è quella che chiamiamo la strategia del porcospino d’acciaio». Per ora gli aculei sono spine nel fianco degli Stati membri che, al di là dell’unitarietà di facciata, mostrano posizioni molto più sfaccettate. Italia e Francia sono alle prese con fibrillazioni interne non esattamente marginali. Se nel centrodestra nostrano è nota la posizione di netta contrarietà della Lega al riarmo, a Parigi la realtà è ancora più conflittuale e soltanto Emmanuel Macron, prigioniero dentro l’Eliseo, rimane un entusiasta sostenitore dell’armiamoci e partite. Marine Le Pen ha definito «una chimera» il riarmo dell’Europa e il leader della sinistra più votata, Jean Luc Mélenchon, ha più volte parlato di «servilismo atlantico» in relazione alla volontà di mostrare i muscoli a Vladimir Putin. Il governicchio di François Bayrou sotto assedio non ha margini di manovra e lo stesso astro nascente socialista Raphaël Glucksmann (quello che ha chiesto a Donald Trump la restituzione della Statua della libertà sentendosi rispondere «senza di noi parlereste tedesco») ha chiesto di «non sacrificare i fondi per scuola, sanità e transizione ecologica» sull’altare dei missili e dei carri armati. Anche Manon Aubry (France Insoumise) è andata giù pesante: «Si trovano soldi per i carri armati ma non per gli ospedali. Ed è come se, all’improvviso, non ci fossero più il riscaldamento globale o la povertà, e l’unica priorità fossero i blindati».Il Spagna la situazione rispetto al «ReArm» non è molto più rosea. Se il partito socialista del premier, Pedro Sánchez, sembra graniticamente allineato alle mire di Bruxelles, gli alleati principali Sumar, Podemos e gli indipendentisti (galiziani e catalani) vedono il progetto bellicista come fumo negli occhi. In Francia e in Spagna un passaggio parlamentare farebbe cadere esecutivi che si sostengono su brezze di primavera.Anche Finlandia e Polonia, più vicine agli artigli di Vladimir Putin, mostrano contrarietà di vario genere al piano Von der Leyen. Secondo i progressisti di Helsinki, rappresentati in Ue dalla leader Li Andersson, «prima di riarmarsi l’Unione dovrebbe porsi l’obiettivo strategico di opporsi ad attori esterni nelle sfere energetiche e digitali». E lo sostiene proprio mentre la Germania spinge per la riapertura delle forniture di petrolio e gas russo. Il distinguo della Polonia è invece curioso. Dopo aver ritirato il suo Paese (con gli Stati baltici) dalla convenzione della messa al bando delle mine antiuomo, il premier eurolirico Donald Tusk ha deciso che l’esercito di Varsavia dovrà essere indipendente e il più potente dell’Unione. Con 500.000 uomini e testate atomiche francesi. «La nostra non è una corsa alla guerra, ma alla sicurezza», ha detto. Non ha specificato se il porcospino d’acciaio teme più i tank russi o quelli tedeschi dopo lo shopping da 1.000 miliardi.
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