2022-01-21
Sgominata una centrale di scafisti: ci ha portato più di 1.100 clandestini
Una cinquantina di arresti tra Italia e Albania, smantellato un clan che aveva in un richiedente asilo in Veneto una delle menti. Due rotte: dalla Turchia via mare o lungo i Balcani su terra. E le istruzioni in caso di naufragio. Baby Gang e Neima Ezza, nome d’arte di una coppia di italo-nordafricani, rubavano gioielli ai ragazzini a Milano. Il primo era già stato sottoposto a sorveglianza speciale.Lo speciale contiene due articoli.«Giuro, fratello, non ti consiglio il tragitto terrestre, perché è lungo e attraversi la Bosnia. Via terrestre una persona può essere presa. Al contrario, via mare, tu sali e dici che stai venendo dalla Grecia, ok?». L’esperto che consigliava le traversate su un comodo veliero per la rotta turca era Majid Muhamad, 52 anni, iracheno residente a Bari. Poteva contare su un manipolo di scafisti trafficanti di esseri umani pronti a tutto pur di portare a termine il viaggio verso le coste del Salento. È uno dei quattro boss arrestati dalla Guardia di finanza nell’operazione che la Procura di Lecce ha ribattezzato «Astrolabio» e che ha svelato la rete dei signori della tratta: 52 indagati e 47 arrestati tra Italia (22) e Albania (25) con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Chi voleva raggiungere le coste italiane doveva sborsare tra i 6.000 e i 10.000 dollari a passeggero. Viaggio all inclusive. E di persone i traghettatori del male che sfruttavano l’emergenza per arricchirsi, sapendo di trovare in Italia un porto sicuro, ne hanno scaricate almeno 1.120 nel periodo monitorato dagli investigatori. Si tratta di almeno 30 viaggi in un anno. Dei quali, stimano in Procura, almeno il 60 per cento organizzati da Alaa Qasim Rahima, 38 anni, iracheno pure lui. È il secondo boss dello squadrone degli armatori: abita a Fossalta di Piave, in provincia di Venezia e lo chiamano «Abu al Hawl», ovvero la Sfinge. Ma per la sua influenza, nelle chiacchierate intercettate, i suoi gregari consigliano di presentarsi al suo cospetto appellandolo come il «Re dell’Italia». È un richiedente asilo che fino al momento dell’arresto viveva in una casa di accoglienza a Fossalta di Piave insieme al fratello Omar Qasim Rahima detto «Abu Azzam», finito pure lui in manette. Il terzo uomo è Sultan Ahmed, 23 anni, siriano. Era lui, stando alle accuse, a gestire i viaggi dall’hub albanese, il secondo per importanza. Perché il vero centro di smistamento era in Turchia. E a gestirlo c’era Awat Abdalrahman Rahim Rahim, 47 anni, pure lui iracheno. Oltre a essere il più sfuggente dei quattro, è forse anche il più influente. La cricca, a sbarco effettuato, assicurava anche il viaggio verso il Nord Italia e, se richiesto, verso altri Paesi europei. Gli investigatori hanno beccato uno degli indagati, Mohamed Hajourmar, affermare a telefono con un cliente che «per l’Austria, per la Germania e per l’Olanda» era possibile, «con tutto il cuore». Per non chiamarsi scafista diceva di essere «lo skipper» di uno dei velieri. I gruppi italiani erano due: quello veneziano e quello barese: il primo aveva il compito di trasferire in Italia e in Europa i clandestini arabo-siriani; quello barese, invece, recuperava gli scafisti sulla costa consentendo loro di aggirare le forze dell’ordine. Ma anche se la rotta via mare era quella preferita, veniva offerta anche l’opportunità di affrontare quella balcanica: dalla Turchia alla Bulgaria, passando per la Serbia, fino alla Romania. E da lì, in un altro centro di smistamento, si prendeva il bus per la destinazione finale. Una fittissima rete di contatti permetteva di godere di una certa protezione dai controlli, per ogni tappa del viaggio. E in caso di emergenza, se le cose in mare si mettevano male, c’era Hajoumar pronto a risolvere il problema, come proverebbe questa conversazione: «Tu mi hai mandato una posizione alle 2 di notte [...] l’unico che puoi chiamare è la Guardia costiera [...] si dovrebbe contattare tramite la Croce rossa e io ho chiamato l’avvocato, l’ho svegliata dicendo che c’è una nave che affonda e lei ha chiamato la Croce rossa... comunicheranno alla Guardia costiera... mi spiego... io ho fatto quello che posso e speriamo che tutto vada bene». Poco dopo arrivano le prime rassicuranti notizie. Uno dei viaggiatori comunica: «Bene... adesso con la Guardia costiera e poi andiamo verso i confini». Ma il viaggiatore è preoccupato. E chiede: «Non ci fanno niente? Come funziona? Passiamo dalla quarantena». L’uomo dell’organizzazione a telefono è cauto e taglia corto: «Appena arrivi mandami la tua posizione [...] non c’è problema, anche dalla quarantena mi mandi la posizione e io vengo da te». La risposta: «D’accordo, se Dio vuole».Ma le cautele non venivano applicate solo durante le telefonate. Anche i pagamenti venivano schermati. L’organizzazione chiedeva agli immigrati di utilizzare il metodo Sarafi, un sistema bancario abusivo di trasferimento di valori in stile hawala, ovvero basato su una vasta rete di mediatori di fiducia. I soldi venivano depositati in agenzie estere e poi diventavano irrintracciabili pur non muovendosi da lì. Gli scafisti, poi, sapevano da chi ritirarli.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sgominata-una-centrale-di-scafisti-ci-ha-portato-piu-di-1-100-clandestini-2656445083.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-manette-duo-di-rapper-rapinatori" data-post-id="2656445083" data-published-at="1642767321" data-use-pagination="False"> In manette duo di rapper-rapinatori I rapper Zaccaria Mouhub, in arte Baby Gang, e Amine Ez Zaaraoui, alias Neima Ezza, entrambi ventenni, avevano trasformato alcuni quartieri di Milano e di Vignate in piccoli Bronx. Le loro azioni da arancia meccanica con finalità di rapina ora sono ricostruite in quattro capi d’imputazione che il gip del Tribunale di Milano Manuela Scudieri gli contesta nell’ordinanza di custodia cautelare con la quale, su richiesta del pm Leonardo Lesti, li ha privati della libertà. Ieri sono stati arrestati, insieme a un terzo ragazzo di 18 anni, dalla polizia di Stato. Il provvedimento dispone la misura cautelare in carcere per Baby Gang e ai domiciliari per Neima Ezza e per il terzo ragazzo. I tre avrebbero organizzato «rapine in gruppo», è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare, «facendosi forti della forza intimidatrice». Inoltre vengono indicati come «soggetti» abituati a compiere «reati contro il patrimonio» e che hanno una «particolare spregiudicatezza, sintomo di una concreta pericolosità sociale». Stando alla ricostruzione degli investigatori, i tre avrebbero avvicinato le vittime «forti della superiorità numerica» e dietro minacce si sarebbero fatti consegnare denaro, gioielli e altri effetti personali. In tre casi le giovani vittime sono state anche prese a pugni e schiaffeggiate. Come sotto le Colonne di San Lorenzo e in piazza Vetra. A luglio, invece, a Vignate, uno degli indagati si sarebbe presentato armato. Dopo aver avvicinato due giovani, gli avrebbero portato via denaro, auricolari e le chiavi dell’auto per fare in modo di non essere seguiti. Ma gli investigatori sono a lavoro anche su altri casi denunciati, che presenterebbero tutti le stesse modalità, per verificare se i due rapper e il loro amico non abbiano messo a segno ulteriori colpi. D’altra parte, Baby Gang ha rimediato pure una sfilza di fogli di via: a Lecco, a Milano, a Cattolica, a Misano Adriatico, a Riccione, a Rimini e a Bellaria Igea Marina. La Questura di Sondrio aveva chiesto perfino l’applicazione di una misura di sorveglianza speciale per due anni, ricostruendo un bel po’ di bravate. A partire dall’uso della «sua influenza per promuovere in zone aperte al pubblico delle riunioni non autorizzate che sono sfociate in scontri con le forze dell’ordine». Il 10 aprile 2021, infatti, a Milano, per la registrazione di un videoclip musicale con Neima Ezza avrebbe radunato «circa 300 giovani» nella zona di San Siro. La registrazione si concluse con un lancio di oggetti contro le forze dell’ordine. Ma nel lungo curriculum Baby Gang si porterebbe dietro, tra il 2020 e il 2021, una serie di denunce anche per altri reati: diffamazione e violazione della proprietà intellettuale, istigazione a delinquere, porto abusivo di armi, vilipendio della Repubblica, delle istituzioni e delle forze armate, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. E mentre Neima Ezza nell’ordinanza del gip viene indicato come uno con «la personalità di chi assume un ruolo di comando nel gruppo», Baby Gang presenterebbe un «profilo di pericolosità sociale». Caratteristiche che gli sono costate care.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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