2021-04-13
Senza la bambinaia di Puškin la letteratura russa non sarebbe nata
Nel libro di Paolo Nori su Dostoevskij, le parole con cui l'autore di «Delitto e castigo» si sdebita con la tata del suo «collega»Devo avere forse già detto, forse più di una volta, che credo che una parte dei lettori di questo libro non sia laureata in letteratura russa. Credo quindi che, se chiedessi loro di indicarmi uno scrittore russo del Settecento, non saprebbero chi dire. Perché nel Settecento, la letteratura russa, in pratica, non esisteva. Cioè esisteva, ma era una letteratura imitativa, non era fondata su una tradizione nazionale, i romanzieri russi del Settecento (il più conosciuto è uno storico che si chiama Karamzin) imitavano modelli francesi, perché per un russo, scrivere un romanzo, era un'attività esotica, nessuno voleva diventare scrittore russo, all'epoca, perché non c'erano, gli scrittori russi, non c'erano modelli da imitare. […]Il fatto è che oggi, i romanzieri russi del Settecento, non li legge quasi nessuno, nemmeno in Russia. […] Il primo romanzo russo vero e proprio, il libro dal quale saltano fuori Tolstoj Dostoevskij Lermontov Turgenev e tutti quelli che conosciamo e leggiamo, è un romanzo in versi, si chiama Evgenij Onegin, che è il nome del protagonista, e Puškin comincia a scriverlo negli anni Venti dell'Ottocento. La storia è semplicissima: questo Evgenij, che vive a Pietroburgo ed è un uomo elegante, ammirato, un lion, direbbe forse Balzac, un ragazzo giovane, nobile, bello e ricco, ecco lui, questo Evgenij, viene costretto a tornare in provincia perché uno zio sta per morire. Gli dà fastidio in particolare il fatto che, una volta arrivato, lo aspettano delle giornate noiosissime a curare un moribondo e intanto pensare: «Quand'è che il diavolo ti porta via?». Ma è fortunato: quando arriva lo zio è già morto. Nella fortuna, però, è sfortunato, si deve fermare un po' lì, le pratiche di successione, non so bene, e si annoia moltissimo. Anche se il fatto che Evgenij si annoi non è propriamente una sfortuna, si annoiava anche a Pietroburgo, perché la noia, lo spleen, in quegli anni, negli anni Venti dell'Ottocento, andava di moda, dicono. Sembra che i giovani più eleganti, allora, a Mosca e a Pietroburgo, non potessero fare a meno di annoiarsi. […]Vladimir Lenskij è un po' l'unico con cui Onegin riesce a parlare: è l'unico, forse, al quale permette di avvicinarsi, anche se non lo considera proprio uno, non so come dire, degno di lui. Vladimir Lenskij, scrive Puškin, è un bel giovane, nel fiore degli anni, discepolo di Kant, idealista, poeta, che crede che la sua anima gemella sia in attesa di unirsi con lui, e crede che i suoi amici sopporterebbero qualsiasi cosa, per difendere il suo onore, e crede che un gruppo di eletti dalla provvidenza faranno dono al mondo di un futuro beato. […] Ma lui si è già consegnato alla sua fidanzata, Ol'ga, alla quale sarà fedele per sempre, le altre ragazze non lo interessano, mentre lo interessa Onegin, così annoiato, così diverso, da lui, e, siccome nessuno dei due ha niente da fare, diventano amici. […] La sorella di Ol'ga si chiama Tat'jana e non è bella come Ol'ga, è selvatica, triste, taciturna, e sta, la maggior parte del tempo, alla finestra, a guardar fuori, in «un ozio ricamato di sogni». Quando va, insieme a Lenskij, a casa dei Larin, e vede Ol'ga e Tat'jana, Onegin poi dice a Lenskij: «Io, se, come te, fossi un poeta, mi sarei innamorato dell'altra sorella», cioè di Tat'jana. Questo secondo capitolo Puškin lo scrive nel 1823; poco meno di sessant'anni dopo, nel 1880, Dostoevskij, in un discorso memorabile, dirà che c'è un difetto nell'Evgenij Onegin, il titolo. Non doveva intitolarsi Evgenij Onegin, doveva intitolarsi «Tat'jana», perché è lei, la vera protagonista del romanzo, secondo Dostoevskij. A Tat'jana, quando vede Onegin, succede una cosa strana: s'innamora. Non si era mai innamorata, e si innamora in un modo, come ci si innamora quando non ci si è mai innamorati, non riesce a dormire e chiede alla njanja di aprire la finestra e le chiede «Ma tu, njanja, sei mai stata innamorata?». Njanja, come molti lettori sapranno, in russo significa nutrice, tata, bambinaia, ed è quella che, nell'Ottocento, si prendeva cura dei bambini, e con la quale molti russi nobili dell'Ottocento continuavano ad avere, anche da grandi, una relazione. Le njanje, allora, erano spesso serve della gleba, e vivevano nella casa dei padroni: Puškin, per esempio, l'autunno del 1824 lo passa a Michajlovskoe, la tenuta di famiglia, poco lontano da Pskov, in compagnia della sua njanja, che si chiamava Arina Rodionovna. Proprio quell'anno, nel 1824, Puškin comincia a scrivere una nota che si intitola Sulle cause che rallentano il cammino della nostra letteratura. Ribadisco che allora, nel 1824, la letteratura russa praticamente non c'era. Non c'era niente di quel che leggiamo oggi. Non c'era ancora l'Evgenij Onegin, che Puškin aveva appena cominciato, non c'era la prosa, di Puškin, e non c'era la prosa di Gogol' (Gogol', nel 1824, aveva quindici anni), non c'era quella di Lermontov (che di anni ne aveva dieci), né quella di Turgenev (sei anni), né quella di Dostoevskij (tre anni), né quella di Tolstoj (che sarebbe nato quattro anni dopo, nel 1828), né quella di Cechov (che sarebbe nato trentasei anni dopo, nel 1860), né quella di Bulgakov (che sarebbe nato sessantasette anni dopo, nel 1891). In quella nota Puškin scrive che il motivo principale che rallenta il corso della letteratura russa è il fatto che i russi colti non usano la lingua russa ma la lingua francese, che tutti i loro concetti e le loro idee, questi russi colti, fin dall'infanzia, tutte le loro conoscenze le avevano ricavate da dei libri stranieri, che si erano abituati a pensare in un'altra lingua (il francese), che la scienza, la politica e la filosofia non avevano ancora parlato, in russo, perché una lingua russa metafisica, non concreta, non legata alla vita quotidiana, alla biografia degli uomini e delle donne, alle loro giornate, ai loro oggetti, ancora non esisteva, e che i russi colti, quelli che sapevano scrivere, anche nella corrispondenza erano costretti a usare delle circonlocuzioni, prese in prestito da altre lingue, per spiegare perfino i sentimenti e le esperienze più comuni. In quell'appunto Puškin cita due versi del poeta e commediografo russo Dmitrij Petrovic Gorcakov (1758-1824): «Nel mio paese natale ci sono mille riviste e nemmeno un libro». In quell'autunno del 1824, la sera, Puškin passa molto tempo con la sua njanja, Arina Rodionovna, serva della gleba, analfabeta, che non solo non ha mai letto un libro, non ha probabilmente mai preso in mano un foglio di carta, e non è Puškin che racconta delle cose alla njanja, è il contrario, è la njanja che (ri) racconta a Puškin le favole che gli raccontava quando era piccolo, e Puškin è incantato, da quelle favole e da quella lingua. […]La cosa singolare della Russia, per quanto è grande, è che in Russia non ci sono i dialetti, e che il russo, per Arina Rodionovna e per tutti i russi, è prima una lingua parlata e poi una lingua scritta (i russi hanno l'alfabeto solo a partire dal IX secolo dopo Cristo, con la missione di Cirillo e Metodio). Nel 1863, in Note invernali su impressioni estive, Dostoevskij scrive: «Non fosse stato per Arina Rodionovna, la njanja di Puškin, probabilmente non avremmo avuto nemmeno il nostro Puškin», e a questa signora, a questa serva della gleba, che non aveva probabilmente nemmeno un cognome, a Pskov, che è il capoluogo della regione dove c'era la casa di Michajlovskoe, hanno fatto un monumento. Col fazzoletto in testa, e gli stivali da contadina. Sembra mia nonna, quando andava nell'orto, a tirar su le patate, e poi di sera mi diceva «Ho fatto una lavorata, Paolo». Io, adesso, non sono un esperto di Puškin, sono un appassionato, ma se dovessi dire in tre righe quel che ha fatto Puškin, se dovessi dire il motivo per cui Puškin è così importante per la letteratura e per la cultura russa, direi che nel suo romanzo in versi, Evgenij Onegin, nelle sue opere teatrali, il Boris Godunov, nelle sue opere in prosa, a cominciare dai Racconti di Belkin, direi che ha preso una lingua che gli ignoranti parlavano da millenni, in Russia, e l'ha alzata a livello letterario. In un discorso tenuto a Mosca nel 1880 Ivan Turgenev ha detto: «Non c'è dubbio che Puškin abbia creato la nostra lingua poetica, letteraria, e che a noi, e ai nostri discendenti, resti soltanto da seguire la strada tracciata dal suo genio. Puškin da solo - ha continuato Turgenev - ha dovuto fare due lavori che, in altri paesi, sono stati fatti a distanza di interi secoli, e anche di più, vale a dire: organizzare una lingua, e creare una letteratura».