2022-11-30
Sentenza sui vaccini inchioda la consulta
Un giudice dell’Aquila condanna un’azienda per aver sospeso una dipendente che aveva rifiutato le dosi. «I farmaci disponibili non bloccano il contagio, imporli ai lavoratori è contrario alla nostra Costituzione».Segnatevi questo nome: Giulio Cruciani. Ricordatevi di lui: c’è un giudice in Italia. All’Aquila. A dicembre 2021, quando si diceva che avesse fatto reintegrare un’infermiera non inoculata a Velletri, Repubblica lo mise alla berlina: «È un no vax». Ora che presta servizio nel capoluogo abruzzese, la sua sentenza meriterebbe di finire dritta sul tavolo delle toghe della Consulta, che oggi si riuniranno in udienza pubblica per valutare la costituzionalità dell’obbligo vaccinale. La leggano. Traggano ispirazione. Perché non è una tirata cospirazionista e parascientifica. Semmai, un accurato ragionamento, svolto in punto di diritto.Il magistrato ha dichiarato illegittima la sospensione dal lavoro di una dipendente, refrattaria alle iniezioni, della ditta che si occupa delle pulizie nell’Asl aquilana. La società dovrà versarle la retribuzione negata, con tanto di interessi e rivalutazioni. E pagherà 2.500 euro di spese legali, Iva esclusa. Ma quel che più rileva sono le motivazioni della decisione.È vero. Nel dispositivo, il giudice mette subito le mani avanti: non verrà valutata «la legittimità dell’obbligo vaccinale anti Sars-Cov-2», bensì «la legittimità della sospensione dal lavoro» dei renitenti. Fossero essi tenuti a sottoporsi alle dosi perché, come recita il decreto legge n. 44 del 2021, svolgevano «la loro attività nelle strutture sanitarie», o perché avevano compiuto 50 anni d’età. Ma guardate cosa scrive poco più giù Cruciani: «A una valutazione costituzionalmente orientata (e anche letterale) non vi è alcuna norma di legge - né potrebbe mai esservi, anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione, articolo 3 della Costituzione - che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-Cov-2 per prestare lavoro per determinate categorie di lavoratori o per lavoratori con una determinata fascia di età, ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione del contagio».Proviamo a sciogliere la faticosa prosa giuridica. Il magistrato mette nero su bianco che, alla luce dei principi della nostra Carta fondamentale, neppure il dl del governo Draghi avrebbe potuto prescrivere l’iniezione coatta ad alcuni lavoratori, come condizione per andarsi a procurare il pane quotidiano. Lo Stato italiano, infatti, «si fonda sul lavoro» e a esso collega «la dignità personale dell’essere umano (limite invalicabile all’obbligatorietà del trattamento sanitario quale il vaccino, di cui all’articolo 32 della Costituzione) che vuole mantenersi con le proprie forze». C’è un’unica ipotesi nella quale sarebbe legittimo costringere la gente a porgere il braccio: qualora il siero fosse in grado di schermare dalle infezioni e, dunque, di far sparire la malattia. «Il dato letterale delle norme», nota appunto la toga, «oltre che la Costituzione, devono orientare il giudice verso un’interpretazione che ancora l’obbligo vaccinale per certe categorie di lavoratori e i lavoratori ultracinquantenni alla sussistenza del presupposto della capacità preventiva dal contagio del vaccino». E qual è quel «dato letterale»? Il dl 44/2021, all’articolo 4, parla di «vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da Sars-Cov-2». Già: la prevenzione dell’infezione. Non della malattia grave, del ricovero, o dei decessi per Covid. Pertanto, sarebbe fuorviante l’argomentazione del Consiglio di giustizia amministrativa siciliano, che basa la questione di costituzionalità sulla tollerabilità degli effetti avversi, mentre considera soddisfatto il requisito del beneficio per la collettività derivante dalle inoculazioni. Ravvisandolo proprio nella riduzione delle ospedalizzazioni. Accettare una tesi del genere significherebbe aprire a una logica insidiosa. L’ha spiegato alla Verità il professor Carlo Iannello: a quel punto, diverrebbe lecito imporre il ricorso a qualsiasi medicinale, perché qualsiasi medicinale contribuisce a diminuire il carico ospedaliero, rispetto alla patologia che cura. Così, il controlimite ai Tso, sancito dall’articolo 32 della Costituzione, salterebbe. Alla fine, emergerebbe un nuovo paradigma: il cittadino forzato a sottoporsi a terapie preventive, perché la sanità, falcidiata da tagli e carenze di organico, non è capace di garantirgli le cure. Cruciani, invece, osserva che «il fondamento che solo potrebbe giustificare una discriminazione così rilevante», come quella dell’esclusione di alcuni individui dal lavoro, sta nella possibilità di impedire che un dipendente sia «fonte di rischio per i colleghi o per i terzi particolarmente esposti». Tuttavia, «non vi è alcuna evidenza scientifica che abbia dimostrato che il vaccinato, con i prodotti attualmente in commercio, non si contagi e non contagi a sua volta». Anzi, i dati dell’Iss dimostrano che la maggior incidenza delle infezioni si registra proprio tra gli italiani che si sono diligentemente recati negli hub. Basta aprire i report di Epicentro. Come la mettiamo? La buttiamo sul delirio della toga «no vax»? O ammettiamo che i suoi rilievi sono ben ponderati?La Consulta ha a disposizione un copioso dossier cui attingere. Inoltre, restano validi i paletti stabiliti dalla Corte stessa: un trattamento può diventare obbligatorio solo quando preserva la salute sia del singolo sia degli altri. E solo se esiste «la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di chi vi è assoggettato». I tutori della Costituzione uniscano i puntini: a fronte dell’incapacità di questi vaccini di fermare il Covid; visti i potenziali effetti collaterali che provocano in individui, altrimenti, poco vulnerabili alle conseguenze gravi del virus; quei presupposti sussistono davvero? L’abbiamo visto: c’è un giudice in Italia. All’Aquila. E a Roma?
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