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2021-12-27
E se provassimo a non sparire?
L’Italia è sull’orlo di una catastrofe demografica. Tra cinquant’anni, infatti, il nostro Paese rischia di ritrovarsi con un quinto degli abitanti in meno. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco, è come se la Lombardia e la Calabria fossero cancellate dalle carte geografiche. A lanciare l’allarme è stato, di recente, l’Istituto nazionale di statistica. Nel report sulle previsioni della popolazione residente e delle famiglie pubblicato lo scorso novembre, gli studiosi hanno dipinto un quadro a tinte che definire fosche è un eufemismo. Popolazione in calo dai 59,2 milioni di abitanti nel 2020 a 54,5 milioni nel 2050 e appena 47,6 milioni nel 2070. A conti fatti, 12 milioni di abitanti in meno nell’arco di una decina di lustri, per quello che l’Istat definisce senza mezzi termini un «potenziale quadro di crisi».
Sia chiaro, si tratta di previsioni e gli autori del report ci tengono a precisare che, come tali, sono «tanto più incerte quanto più ci si allontana dall’anno base». Quelli forniti nella sintesi sono valori mediani: nella migliore delle ipotesi la popolazione potrebbe subire una perdita di «soli» 4,7 milioni entro il 2070, ma esiste anche un drammatico scenario peggiore, che prevede un calo di ben 18,6 milioni di abitanti, con una popolazione risultante pari a 41,1 milioni di persone. In altre parole, la tendenza è chiara e «nel lungo termine le conseguenze della dinamica demografica» si fanno «importanti».
Sul piano geografico, tutte le macroaree prese in considerazione dall’Istat sono destinate a subire un calo, ma ad avere la peggio sarà il Sud. Nello scenario medio, infatti, il Mezzogiorno potrebbe passare dagli attuali 20,2 milioni di abitanti ai 16,7 milioni del 2050 e ai 13,6 milioni del 2070, facendo registrare un calo complessivo del 33%. Migliore - si fa per dire - la situazione al Centro, con 2,1 milioni di abitanti persi e un calo del 18% da qui a cinquant’anni, e al Nord, con 3,3 milioni di abitanti in meno e un decremento del 12%. Entro il 2030, poi, 8 comuni su 10 si troveranno in una condizione di calo demografico. Nel decennio 2020-2029, le zone rurali (-49.000 unità) e quelle a densità intermedia (-59.000) si spopoleranno a favore delle città e delle zone densamente popolate (+108.000), ma in generale la migrazione interna promuoverà il Centro-nord a danno delle aree del Mezzogiorno.
Come evidenzia il report, le cause di questo declino sono molteplici. Prima fra tutte la denatalità, un fenomeno già in corso da un quindicennio, e accentuato nell’ultimo biennio dal Covid. Nello scenario mediano il bilancio negativo tra nascite e decessi, dopo lo shock di breve termine imposto dalla pandemia, dovrebbe subire un’inversione di tendenza almeno fino al 2038, per poi subire un brusco calo da qui al 2070. In termini assoluti, si dovrebbe passare dalle attuali 400.000 nascite, alle 422.000 del 2038, per poi scendere fino a poco più di 350.000 del 2070.
Parallelamente, i decessi sono previsti in calo con meno di 700.000 unità da qui al 2035, per poi impennarsi fino al picco tra il 2055 e il 2060, quinquennio nel quale sono previsti più di 820.000 morti l’anno. Per effetto del calo delle nascite la popolazione subirà un progressivo invecchiamento. Già oggi gli over 65 rappresentano quasi un quarto (23,2%) del totale, mentre gli under 14 sono appena il 13%. In previsione, le persone con più di 65 anni potrebbero superare un terzo degli abitanti (35%), mentre bambini e ragazzi sotto i 14 anni poco più di un italiano su dieci (11,7%).
Nemmeno gli immigrati, tanto cari a una certa sinistra anche per la loro capacità di mascherare questa emorragia, rappresenteranno più una garanzia. L’Istat definisce infatti lo scenario migratorio «positivo ma incerto», con un saldo tra immigrati ed emigrati all’estero sbilanciato sui primi con valori tra le 118.000 e le 140.000 unità. Un equilibrio giudicato precario anche dagli autori, costretti ad ammettere che lo studio restituisce «due possibili fotografie del futuro tra loro molto diverse». Una che ritrae un «Paese molto attrattivo», e l’altra quella di un’Italia che «potrebbe radicalmente mutare la sua natura di accoglienza per tornare a essere un luogo da cui emigrare».
Ma l’aspetto forse più sorprendente, e al tempo stesso preoccupante, messo in luce dal rapporto dell’Istat risulta quello relativo alla trasformazione della famiglia. Con un paradosso: pur crescendo di numero, dagli attuali 25,7 milioni di unità ai 26,6 milioni nel 2040, diventeranno sempre più evanescenti. In aumento le coppie senza figli (dal 19,8% odierno al 21,6% del 2040) e, viceversa, in drastico calo quelle con figli (dal 32,1% al 23,9%). Sempre di più le persone sole sia di sesso maschile (+17%) che femminile (+23%), una categoria che complessivamente toccherà tra vent’anni quota 10 milioni.
Già nel censimento 2020, i cui risultati sono stati diffusi dall’Istat lo scorso 9 dicembre, si possono riscontrare le prime avvisaglie di questa preoccupante tendenza. Ormai la popolazione italiana si attesta stabilmente sotto quota 60 milioni (59,23 per la precisione), con un saldo negativo pari a 405.275 unità rispetto al 2019. Tranne l’Emilia-Romagna (+310 abitanti), tutte le Regioni fanno registrare una diminuzione degli abitanti. Marcato l’invecchiamento, con il costante e progressivo aumento delle classi di età più anziane e lo snellimento di quelle più giovani. Segnali che confermano come, senza un intervento rapido e netto, una fetta d’Italia è destinata nel prossimo futuro a sparire nel nulla.
Da Regioni e Comuni pioggia di incentivi ma lo Stato è assente
«Voglia di ritmi più lenti e in armonia con la natura? Di luoghi incontaminati in cui respirare a pieni polmoni e far crescere i propri figli in libertà? Di un posto diverso dove continuare il proprio lavoro, sempre più connesso e smart, o in cui iniziare magari una nuova attività? Cambiare vita si può», si legge nel comunicato diffuso lo scorso agosto dagli uffici di Piazza Castello a Torino, «e la Regione Piemonte ti aiuta a farlo». Sul piatto, un contributo da 10.000 a 40.000 euro (per complessivi 10 milioni di euro) destinato a chi sceglie di trasferirsi in un centro urbano e acquista o recupera un immobile in un Comune montano con meno di 5.000 abitanti. Obiettivo: invogliare giovani e meno giovani a ripopolare gli oltre 400 piccoli borghi piemontesi.
Famosa l’iniziativa delle case in vendita al prezzo simbolico di 1 euro, sposata da molti piccoli Comuni sparsi per la penisola. Si va da Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, dove l’amministrazione ha aperto un secondo bando dopo avere già esaurito il primo lotto di 16 immobili; a Nulvi, provincia di Sassari, paesino nel quale tutte le case sono già state vendute; a Castropignano, in Molise, borgo storico di quasi 900 abitanti, dove sono stati immesse sul mercato diverse decine di immobili. Il progetto è talmente ampio e diffuso che si è meritato la realizzazione di un sito (Casea1euro.it) nel quale vengono raccolte informazioni sui Comuni aderenti e sui bandi pubblicati.
Visitando la pagina, è possibile anche consultare una mappa geografica interattiva per scoprire le zone di interesse. Un’idea che funziona? A Mussomeli (Caltanissetta), le richieste sono state circa 60.000, e gli immobili venduti circa 100. Ollolai, centro di 1.300 abitanti in provincia di Nuoro, ha fatto notizia, approdando nel 2018 addirittura sulla stampa internazionale. Tanto che, proprio in questi giorni, in municipio si apprestano a varare la «fase 2» del programma.
Strizza l’occhio alle giovani famiglie il piano lanciato la scorsa prima dal Comune di Bianzano, meno di 600 anime in provincia di Bergamo. Doppio bonus, uno da 500 euro per le coppie under 35 e l’altro da 250 euro per i nuovi nati, a condizione però che gli aderenti sottoscrivano un «patto di residenza», impegnandosi cioè a vivere nel paesino per almeno quattro anni. Nel 2019, era stato Luserna (250 abitanti in provincia di Trento) a mettere a disposizione di quattro coppie altrettanti immobili a titolo gratuito. Un progetto dal valore sociale, dal momento che i nuclei assegnatari «prenderanno parte a un processo partecipato, che prevederà una formazione iniziale con il coinvolgimento della comunità locale». Obiettivo? Dare «nuova linfa alla comunità cimbra».
Pochi giorni fa, il Consiglio regionale dell’Abruzzo ha approvato una legge a difesa dei piccoli Comuni del territorio. Fino a 2.500 euro annui dalla nascita di un figlio fino ai 3 anni d’età, più un contributo di 2.500 euro a chi decide di trasferirsi in un piccolo centro montano abruzzese. Complessivamente, uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il biennio 2022-23. Promossa da Fratelli d’Italia, la norma è stata lodata dalla leader Giorgia Meloni, la quale l’ha definita «un esempio di buongoverno che mi auguro possa essere d’esempio anche per altre amministrazioni locali e regionali».
Un recente bando ancora allo studio da parte di alcuni Comuni calabresi ha destato l’attenzione nientemeno che della Cnn. Fino a 28.000 euro all’anno per iniziare una nuova vita e una nuova attività economica nei borghi con meno di 2.000 abitanti. La formula è ancora da definire, ma si pensa di erogare ai nuovi residenti un contributo mensile tra gli 800 e i 1.000 euro per due o tre anni. In alternativa, un finanziamento per l’apertura di un’attività commerciale o residenziale.
«Invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne». Stando alle dichiarazioni programmatiche pronunciate in Parlamento dal premier Mario Draghi lo scorso febbraio, il drammatico calo della popolazione rappresenta per l’esecutivo una priorità da affrontare con la massima determinazione. Nell’attesa che i buoni propositi dell’attuale governo si traducano in atti concreti, va registrato un fatto: in assenza di una regìa nazionale comune, finora i territori si sono trovati ad affrontare da soli ad affrontare una problematica più grande di loro, costretti a fare i conti con i vincoli burocratici e le limitate disponibilità finanziarie ereditate dai pesanti anni di austerità.
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L’Istat fotografa una catastrofe: crollano le nascite e aumenta l’età media, tra una cinquantina d’anni gli italiani saranno 12 milioni in meno. Le misure per invertire la tendenza ancora non bastano.Migliaia di richieste dall’estero per case a costo zero nei borghi da ripopolare. Manca però una strategia nazionale di intervento.Lo speciale contiene due articoli.L’Italia è sull’orlo di una catastrofe demografica. Tra cinquant’anni, infatti, il nostro Paese rischia di ritrovarsi con un quinto degli abitanti in meno. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco, è come se la Lombardia e la Calabria fossero cancellate dalle carte geografiche. A lanciare l’allarme è stato, di recente, l’Istituto nazionale di statistica. Nel report sulle previsioni della popolazione residente e delle famiglie pubblicato lo scorso novembre, gli studiosi hanno dipinto un quadro a tinte che definire fosche è un eufemismo. Popolazione in calo dai 59,2 milioni di abitanti nel 2020 a 54,5 milioni nel 2050 e appena 47,6 milioni nel 2070. A conti fatti, 12 milioni di abitanti in meno nell’arco di una decina di lustri, per quello che l’Istat definisce senza mezzi termini un «potenziale quadro di crisi». Sia chiaro, si tratta di previsioni e gli autori del report ci tengono a precisare che, come tali, sono «tanto più incerte quanto più ci si allontana dall’anno base». Quelli forniti nella sintesi sono valori mediani: nella migliore delle ipotesi la popolazione potrebbe subire una perdita di «soli» 4,7 milioni entro il 2070, ma esiste anche un drammatico scenario peggiore, che prevede un calo di ben 18,6 milioni di abitanti, con una popolazione risultante pari a 41,1 milioni di persone. In altre parole, la tendenza è chiara e «nel lungo termine le conseguenze della dinamica demografica» si fanno «importanti». Sul piano geografico, tutte le macroaree prese in considerazione dall’Istat sono destinate a subire un calo, ma ad avere la peggio sarà il Sud. Nello scenario medio, infatti, il Mezzogiorno potrebbe passare dagli attuali 20,2 milioni di abitanti ai 16,7 milioni del 2050 e ai 13,6 milioni del 2070, facendo registrare un calo complessivo del 33%. Migliore - si fa per dire - la situazione al Centro, con 2,1 milioni di abitanti persi e un calo del 18% da qui a cinquant’anni, e al Nord, con 3,3 milioni di abitanti in meno e un decremento del 12%. Entro il 2030, poi, 8 comuni su 10 si troveranno in una condizione di calo demografico. Nel decennio 2020-2029, le zone rurali (-49.000 unità) e quelle a densità intermedia (-59.000) si spopoleranno a favore delle città e delle zone densamente popolate (+108.000), ma in generale la migrazione interna promuoverà il Centro-nord a danno delle aree del Mezzogiorno.Come evidenzia il report, le cause di questo declino sono molteplici. Prima fra tutte la denatalità, un fenomeno già in corso da un quindicennio, e accentuato nell’ultimo biennio dal Covid. Nello scenario mediano il bilancio negativo tra nascite e decessi, dopo lo shock di breve termine imposto dalla pandemia, dovrebbe subire un’inversione di tendenza almeno fino al 2038, per poi subire un brusco calo da qui al 2070. In termini assoluti, si dovrebbe passare dalle attuali 400.000 nascite, alle 422.000 del 2038, per poi scendere fino a poco più di 350.000 del 2070. Parallelamente, i decessi sono previsti in calo con meno di 700.000 unità da qui al 2035, per poi impennarsi fino al picco tra il 2055 e il 2060, quinquennio nel quale sono previsti più di 820.000 morti l’anno. Per effetto del calo delle nascite la popolazione subirà un progressivo invecchiamento. Già oggi gli over 65 rappresentano quasi un quarto (23,2%) del totale, mentre gli under 14 sono appena il 13%. In previsione, le persone con più di 65 anni potrebbero superare un terzo degli abitanti (35%), mentre bambini e ragazzi sotto i 14 anni poco più di un italiano su dieci (11,7%).Nemmeno gli immigrati, tanto cari a una certa sinistra anche per la loro capacità di mascherare questa emorragia, rappresenteranno più una garanzia. L’Istat definisce infatti lo scenario migratorio «positivo ma incerto», con un saldo tra immigrati ed emigrati all’estero sbilanciato sui primi con valori tra le 118.000 e le 140.000 unità. Un equilibrio giudicato precario anche dagli autori, costretti ad ammettere che lo studio restituisce «due possibili fotografie del futuro tra loro molto diverse». Una che ritrae un «Paese molto attrattivo», e l’altra quella di un’Italia che «potrebbe radicalmente mutare la sua natura di accoglienza per tornare a essere un luogo da cui emigrare».Ma l’aspetto forse più sorprendente, e al tempo stesso preoccupante, messo in luce dal rapporto dell’Istat risulta quello relativo alla trasformazione della famiglia. Con un paradosso: pur crescendo di numero, dagli attuali 25,7 milioni di unità ai 26,6 milioni nel 2040, diventeranno sempre più evanescenti. In aumento le coppie senza figli (dal 19,8% odierno al 21,6% del 2040) e, viceversa, in drastico calo quelle con figli (dal 32,1% al 23,9%). Sempre di più le persone sole sia di sesso maschile (+17%) che femminile (+23%), una categoria che complessivamente toccherà tra vent’anni quota 10 milioni.Già nel censimento 2020, i cui risultati sono stati diffusi dall’Istat lo scorso 9 dicembre, si possono riscontrare le prime avvisaglie di questa preoccupante tendenza. Ormai la popolazione italiana si attesta stabilmente sotto quota 60 milioni (59,23 per la precisione), con un saldo negativo pari a 405.275 unità rispetto al 2019. Tranne l’Emilia-Romagna (+310 abitanti), tutte le Regioni fanno registrare una diminuzione degli abitanti. Marcato l’invecchiamento, con il costante e progressivo aumento delle classi di età più anziane e lo snellimento di quelle più giovani. Segnali che confermano come, senza un intervento rapido e netto, una fetta d’Italia è destinata nel prossimo futuro a sparire nel nulla.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/se-provassimo-a-non-sparire-2656161978.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="da-regioni-e-comuni-pioggia-di-incentivi-ma-lo-stato-e-assente" data-post-id="2656161978" data-published-at="1640528573" data-use-pagination="False"> Da Regioni e Comuni pioggia di incentivi ma lo Stato è assente «Voglia di ritmi più lenti e in armonia con la natura? Di luoghi incontaminati in cui respirare a pieni polmoni e far crescere i propri figli in libertà? Di un posto diverso dove continuare il proprio lavoro, sempre più connesso e smart, o in cui iniziare magari una nuova attività? Cambiare vita si può», si legge nel comunicato diffuso lo scorso agosto dagli uffici di Piazza Castello a Torino, «e la Regione Piemonte ti aiuta a farlo». Sul piatto, un contributo da 10.000 a 40.000 euro (per complessivi 10 milioni di euro) destinato a chi sceglie di trasferirsi in un centro urbano e acquista o recupera un immobile in un Comune montano con meno di 5.000 abitanti. Obiettivo: invogliare giovani e meno giovani a ripopolare gli oltre 400 piccoli borghi piemontesi. Famosa l’iniziativa delle case in vendita al prezzo simbolico di 1 euro, sposata da molti piccoli Comuni sparsi per la penisola. Si va da Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, dove l’amministrazione ha aperto un secondo bando dopo avere già esaurito il primo lotto di 16 immobili; a Nulvi, provincia di Sassari, paesino nel quale tutte le case sono già state vendute; a Castropignano, in Molise, borgo storico di quasi 900 abitanti, dove sono stati immesse sul mercato diverse decine di immobili. Il progetto è talmente ampio e diffuso che si è meritato la realizzazione di un sito (Casea1euro.it) nel quale vengono raccolte informazioni sui Comuni aderenti e sui bandi pubblicati. Visitando la pagina, è possibile anche consultare una mappa geografica interattiva per scoprire le zone di interesse. Un’idea che funziona? A Mussomeli (Caltanissetta), le richieste sono state circa 60.000, e gli immobili venduti circa 100. Ollolai, centro di 1.300 abitanti in provincia di Nuoro, ha fatto notizia, approdando nel 2018 addirittura sulla stampa internazionale. Tanto che, proprio in questi giorni, in municipio si apprestano a varare la «fase 2» del programma. Strizza l’occhio alle giovani famiglie il piano lanciato la scorsa prima dal Comune di Bianzano, meno di 600 anime in provincia di Bergamo. Doppio bonus, uno da 500 euro per le coppie under 35 e l’altro da 250 euro per i nuovi nati, a condizione però che gli aderenti sottoscrivano un «patto di residenza», impegnandosi cioè a vivere nel paesino per almeno quattro anni. Nel 2019, era stato Luserna (250 abitanti in provincia di Trento) a mettere a disposizione di quattro coppie altrettanti immobili a titolo gratuito. Un progetto dal valore sociale, dal momento che i nuclei assegnatari «prenderanno parte a un processo partecipato, che prevederà una formazione iniziale con il coinvolgimento della comunità locale». Obiettivo? Dare «nuova linfa alla comunità cimbra». Pochi giorni fa, il Consiglio regionale dell’Abruzzo ha approvato una legge a difesa dei piccoli Comuni del territorio. Fino a 2.500 euro annui dalla nascita di un figlio fino ai 3 anni d’età, più un contributo di 2.500 euro a chi decide di trasferirsi in un piccolo centro montano abruzzese. Complessivamente, uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il biennio 2022-23. Promossa da Fratelli d’Italia, la norma è stata lodata dalla leader Giorgia Meloni, la quale l’ha definita «un esempio di buongoverno che mi auguro possa essere d’esempio anche per altre amministrazioni locali e regionali». Un recente bando ancora allo studio da parte di alcuni Comuni calabresi ha destato l’attenzione nientemeno che della Cnn. Fino a 28.000 euro all’anno per iniziare una nuova vita e una nuova attività economica nei borghi con meno di 2.000 abitanti. La formula è ancora da definire, ma si pensa di erogare ai nuovi residenti un contributo mensile tra gli 800 e i 1.000 euro per due o tre anni. In alternativa, un finanziamento per l’apertura di un’attività commerciale o residenziale. «Invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne». Stando alle dichiarazioni programmatiche pronunciate in Parlamento dal premier Mario Draghi lo scorso febbraio, il drammatico calo della popolazione rappresenta per l’esecutivo una priorità da affrontare con la massima determinazione. Nell’attesa che i buoni propositi dell’attuale governo si traducano in atti concreti, va registrato un fatto: in assenza di una regìa nazionale comune, finora i territori si sono trovati ad affrontare da soli ad affrontare una problematica più grande di loro, costretti a fare i conti con i vincoli burocratici e le limitate disponibilità finanziarie ereditate dai pesanti anni di austerità.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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