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2021-12-27
E se provassimo a non sparire?
L’Italia è sull’orlo di una catastrofe demografica. Tra cinquant’anni, infatti, il nostro Paese rischia di ritrovarsi con un quinto degli abitanti in meno. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco, è come se la Lombardia e la Calabria fossero cancellate dalle carte geografiche. A lanciare l’allarme è stato, di recente, l’Istituto nazionale di statistica. Nel report sulle previsioni della popolazione residente e delle famiglie pubblicato lo scorso novembre, gli studiosi hanno dipinto un quadro a tinte che definire fosche è un eufemismo. Popolazione in calo dai 59,2 milioni di abitanti nel 2020 a 54,5 milioni nel 2050 e appena 47,6 milioni nel 2070. A conti fatti, 12 milioni di abitanti in meno nell’arco di una decina di lustri, per quello che l’Istat definisce senza mezzi termini un «potenziale quadro di crisi».
Sia chiaro, si tratta di previsioni e gli autori del report ci tengono a precisare che, come tali, sono «tanto più incerte quanto più ci si allontana dall’anno base». Quelli forniti nella sintesi sono valori mediani: nella migliore delle ipotesi la popolazione potrebbe subire una perdita di «soli» 4,7 milioni entro il 2070, ma esiste anche un drammatico scenario peggiore, che prevede un calo di ben 18,6 milioni di abitanti, con una popolazione risultante pari a 41,1 milioni di persone. In altre parole, la tendenza è chiara e «nel lungo termine le conseguenze della dinamica demografica» si fanno «importanti».
Sul piano geografico, tutte le macroaree prese in considerazione dall’Istat sono destinate a subire un calo, ma ad avere la peggio sarà il Sud. Nello scenario medio, infatti, il Mezzogiorno potrebbe passare dagli attuali 20,2 milioni di abitanti ai 16,7 milioni del 2050 e ai 13,6 milioni del 2070, facendo registrare un calo complessivo del 33%. Migliore - si fa per dire - la situazione al Centro, con 2,1 milioni di abitanti persi e un calo del 18% da qui a cinquant’anni, e al Nord, con 3,3 milioni di abitanti in meno e un decremento del 12%. Entro il 2030, poi, 8 comuni su 10 si troveranno in una condizione di calo demografico. Nel decennio 2020-2029, le zone rurali (-49.000 unità) e quelle a densità intermedia (-59.000) si spopoleranno a favore delle città e delle zone densamente popolate (+108.000), ma in generale la migrazione interna promuoverà il Centro-nord a danno delle aree del Mezzogiorno.
Come evidenzia il report, le cause di questo declino sono molteplici. Prima fra tutte la denatalità, un fenomeno già in corso da un quindicennio, e accentuato nell’ultimo biennio dal Covid. Nello scenario mediano il bilancio negativo tra nascite e decessi, dopo lo shock di breve termine imposto dalla pandemia, dovrebbe subire un’inversione di tendenza almeno fino al 2038, per poi subire un brusco calo da qui al 2070. In termini assoluti, si dovrebbe passare dalle attuali 400.000 nascite, alle 422.000 del 2038, per poi scendere fino a poco più di 350.000 del 2070.
Parallelamente, i decessi sono previsti in calo con meno di 700.000 unità da qui al 2035, per poi impennarsi fino al picco tra il 2055 e il 2060, quinquennio nel quale sono previsti più di 820.000 morti l’anno. Per effetto del calo delle nascite la popolazione subirà un progressivo invecchiamento. Già oggi gli over 65 rappresentano quasi un quarto (23,2%) del totale, mentre gli under 14 sono appena il 13%. In previsione, le persone con più di 65 anni potrebbero superare un terzo degli abitanti (35%), mentre bambini e ragazzi sotto i 14 anni poco più di un italiano su dieci (11,7%).
Nemmeno gli immigrati, tanto cari a una certa sinistra anche per la loro capacità di mascherare questa emorragia, rappresenteranno più una garanzia. L’Istat definisce infatti lo scenario migratorio «positivo ma incerto», con un saldo tra immigrati ed emigrati all’estero sbilanciato sui primi con valori tra le 118.000 e le 140.000 unità. Un equilibrio giudicato precario anche dagli autori, costretti ad ammettere che lo studio restituisce «due possibili fotografie del futuro tra loro molto diverse». Una che ritrae un «Paese molto attrattivo», e l’altra quella di un’Italia che «potrebbe radicalmente mutare la sua natura di accoglienza per tornare a essere un luogo da cui emigrare».
Ma l’aspetto forse più sorprendente, e al tempo stesso preoccupante, messo in luce dal rapporto dell’Istat risulta quello relativo alla trasformazione della famiglia. Con un paradosso: pur crescendo di numero, dagli attuali 25,7 milioni di unità ai 26,6 milioni nel 2040, diventeranno sempre più evanescenti. In aumento le coppie senza figli (dal 19,8% odierno al 21,6% del 2040) e, viceversa, in drastico calo quelle con figli (dal 32,1% al 23,9%). Sempre di più le persone sole sia di sesso maschile (+17%) che femminile (+23%), una categoria che complessivamente toccherà tra vent’anni quota 10 milioni.
Già nel censimento 2020, i cui risultati sono stati diffusi dall’Istat lo scorso 9 dicembre, si possono riscontrare le prime avvisaglie di questa preoccupante tendenza. Ormai la popolazione italiana si attesta stabilmente sotto quota 60 milioni (59,23 per la precisione), con un saldo negativo pari a 405.275 unità rispetto al 2019. Tranne l’Emilia-Romagna (+310 abitanti), tutte le Regioni fanno registrare una diminuzione degli abitanti. Marcato l’invecchiamento, con il costante e progressivo aumento delle classi di età più anziane e lo snellimento di quelle più giovani. Segnali che confermano come, senza un intervento rapido e netto, una fetta d’Italia è destinata nel prossimo futuro a sparire nel nulla.
Da Regioni e Comuni pioggia di incentivi ma lo Stato è assente
«Voglia di ritmi più lenti e in armonia con la natura? Di luoghi incontaminati in cui respirare a pieni polmoni e far crescere i propri figli in libertà? Di un posto diverso dove continuare il proprio lavoro, sempre più connesso e smart, o in cui iniziare magari una nuova attività? Cambiare vita si può», si legge nel comunicato diffuso lo scorso agosto dagli uffici di Piazza Castello a Torino, «e la Regione Piemonte ti aiuta a farlo». Sul piatto, un contributo da 10.000 a 40.000 euro (per complessivi 10 milioni di euro) destinato a chi sceglie di trasferirsi in un centro urbano e acquista o recupera un immobile in un Comune montano con meno di 5.000 abitanti. Obiettivo: invogliare giovani e meno giovani a ripopolare gli oltre 400 piccoli borghi piemontesi.
Famosa l’iniziativa delle case in vendita al prezzo simbolico di 1 euro, sposata da molti piccoli Comuni sparsi per la penisola. Si va da Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, dove l’amministrazione ha aperto un secondo bando dopo avere già esaurito il primo lotto di 16 immobili; a Nulvi, provincia di Sassari, paesino nel quale tutte le case sono già state vendute; a Castropignano, in Molise, borgo storico di quasi 900 abitanti, dove sono stati immesse sul mercato diverse decine di immobili. Il progetto è talmente ampio e diffuso che si è meritato la realizzazione di un sito (Casea1euro.it) nel quale vengono raccolte informazioni sui Comuni aderenti e sui bandi pubblicati.
Visitando la pagina, è possibile anche consultare una mappa geografica interattiva per scoprire le zone di interesse. Un’idea che funziona? A Mussomeli (Caltanissetta), le richieste sono state circa 60.000, e gli immobili venduti circa 100. Ollolai, centro di 1.300 abitanti in provincia di Nuoro, ha fatto notizia, approdando nel 2018 addirittura sulla stampa internazionale. Tanto che, proprio in questi giorni, in municipio si apprestano a varare la «fase 2» del programma.
Strizza l’occhio alle giovani famiglie il piano lanciato la scorsa prima dal Comune di Bianzano, meno di 600 anime in provincia di Bergamo. Doppio bonus, uno da 500 euro per le coppie under 35 e l’altro da 250 euro per i nuovi nati, a condizione però che gli aderenti sottoscrivano un «patto di residenza», impegnandosi cioè a vivere nel paesino per almeno quattro anni. Nel 2019, era stato Luserna (250 abitanti in provincia di Trento) a mettere a disposizione di quattro coppie altrettanti immobili a titolo gratuito. Un progetto dal valore sociale, dal momento che i nuclei assegnatari «prenderanno parte a un processo partecipato, che prevederà una formazione iniziale con il coinvolgimento della comunità locale». Obiettivo? Dare «nuova linfa alla comunità cimbra».
Pochi giorni fa, il Consiglio regionale dell’Abruzzo ha approvato una legge a difesa dei piccoli Comuni del territorio. Fino a 2.500 euro annui dalla nascita di un figlio fino ai 3 anni d’età, più un contributo di 2.500 euro a chi decide di trasferirsi in un piccolo centro montano abruzzese. Complessivamente, uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il biennio 2022-23. Promossa da Fratelli d’Italia, la norma è stata lodata dalla leader Giorgia Meloni, la quale l’ha definita «un esempio di buongoverno che mi auguro possa essere d’esempio anche per altre amministrazioni locali e regionali».
Un recente bando ancora allo studio da parte di alcuni Comuni calabresi ha destato l’attenzione nientemeno che della Cnn. Fino a 28.000 euro all’anno per iniziare una nuova vita e una nuova attività economica nei borghi con meno di 2.000 abitanti. La formula è ancora da definire, ma si pensa di erogare ai nuovi residenti un contributo mensile tra gli 800 e i 1.000 euro per due o tre anni. In alternativa, un finanziamento per l’apertura di un’attività commerciale o residenziale.
«Invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne». Stando alle dichiarazioni programmatiche pronunciate in Parlamento dal premier Mario Draghi lo scorso febbraio, il drammatico calo della popolazione rappresenta per l’esecutivo una priorità da affrontare con la massima determinazione. Nell’attesa che i buoni propositi dell’attuale governo si traducano in atti concreti, va registrato un fatto: in assenza di una regìa nazionale comune, finora i territori si sono trovati ad affrontare da soli ad affrontare una problematica più grande di loro, costretti a fare i conti con i vincoli burocratici e le limitate disponibilità finanziarie ereditate dai pesanti anni di austerità.
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L’Istat fotografa una catastrofe: crollano le nascite e aumenta l’età media, tra una cinquantina d’anni gli italiani saranno 12 milioni in meno. Le misure per invertire la tendenza ancora non bastano.Migliaia di richieste dall’estero per case a costo zero nei borghi da ripopolare. Manca però una strategia nazionale di intervento.Lo speciale contiene due articoli.L’Italia è sull’orlo di una catastrofe demografica. Tra cinquant’anni, infatti, il nostro Paese rischia di ritrovarsi con un quinto degli abitanti in meno. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza in gioco, è come se la Lombardia e la Calabria fossero cancellate dalle carte geografiche. A lanciare l’allarme è stato, di recente, l’Istituto nazionale di statistica. Nel report sulle previsioni della popolazione residente e delle famiglie pubblicato lo scorso novembre, gli studiosi hanno dipinto un quadro a tinte che definire fosche è un eufemismo. Popolazione in calo dai 59,2 milioni di abitanti nel 2020 a 54,5 milioni nel 2050 e appena 47,6 milioni nel 2070. A conti fatti, 12 milioni di abitanti in meno nell’arco di una decina di lustri, per quello che l’Istat definisce senza mezzi termini un «potenziale quadro di crisi». Sia chiaro, si tratta di previsioni e gli autori del report ci tengono a precisare che, come tali, sono «tanto più incerte quanto più ci si allontana dall’anno base». Quelli forniti nella sintesi sono valori mediani: nella migliore delle ipotesi la popolazione potrebbe subire una perdita di «soli» 4,7 milioni entro il 2070, ma esiste anche un drammatico scenario peggiore, che prevede un calo di ben 18,6 milioni di abitanti, con una popolazione risultante pari a 41,1 milioni di persone. In altre parole, la tendenza è chiara e «nel lungo termine le conseguenze della dinamica demografica» si fanno «importanti». Sul piano geografico, tutte le macroaree prese in considerazione dall’Istat sono destinate a subire un calo, ma ad avere la peggio sarà il Sud. Nello scenario medio, infatti, il Mezzogiorno potrebbe passare dagli attuali 20,2 milioni di abitanti ai 16,7 milioni del 2050 e ai 13,6 milioni del 2070, facendo registrare un calo complessivo del 33%. Migliore - si fa per dire - la situazione al Centro, con 2,1 milioni di abitanti persi e un calo del 18% da qui a cinquant’anni, e al Nord, con 3,3 milioni di abitanti in meno e un decremento del 12%. Entro il 2030, poi, 8 comuni su 10 si troveranno in una condizione di calo demografico. Nel decennio 2020-2029, le zone rurali (-49.000 unità) e quelle a densità intermedia (-59.000) si spopoleranno a favore delle città e delle zone densamente popolate (+108.000), ma in generale la migrazione interna promuoverà il Centro-nord a danno delle aree del Mezzogiorno.Come evidenzia il report, le cause di questo declino sono molteplici. Prima fra tutte la denatalità, un fenomeno già in corso da un quindicennio, e accentuato nell’ultimo biennio dal Covid. Nello scenario mediano il bilancio negativo tra nascite e decessi, dopo lo shock di breve termine imposto dalla pandemia, dovrebbe subire un’inversione di tendenza almeno fino al 2038, per poi subire un brusco calo da qui al 2070. In termini assoluti, si dovrebbe passare dalle attuali 400.000 nascite, alle 422.000 del 2038, per poi scendere fino a poco più di 350.000 del 2070. Parallelamente, i decessi sono previsti in calo con meno di 700.000 unità da qui al 2035, per poi impennarsi fino al picco tra il 2055 e il 2060, quinquennio nel quale sono previsti più di 820.000 morti l’anno. Per effetto del calo delle nascite la popolazione subirà un progressivo invecchiamento. Già oggi gli over 65 rappresentano quasi un quarto (23,2%) del totale, mentre gli under 14 sono appena il 13%. In previsione, le persone con più di 65 anni potrebbero superare un terzo degli abitanti (35%), mentre bambini e ragazzi sotto i 14 anni poco più di un italiano su dieci (11,7%).Nemmeno gli immigrati, tanto cari a una certa sinistra anche per la loro capacità di mascherare questa emorragia, rappresenteranno più una garanzia. L’Istat definisce infatti lo scenario migratorio «positivo ma incerto», con un saldo tra immigrati ed emigrati all’estero sbilanciato sui primi con valori tra le 118.000 e le 140.000 unità. Un equilibrio giudicato precario anche dagli autori, costretti ad ammettere che lo studio restituisce «due possibili fotografie del futuro tra loro molto diverse». Una che ritrae un «Paese molto attrattivo», e l’altra quella di un’Italia che «potrebbe radicalmente mutare la sua natura di accoglienza per tornare a essere un luogo da cui emigrare».Ma l’aspetto forse più sorprendente, e al tempo stesso preoccupante, messo in luce dal rapporto dell’Istat risulta quello relativo alla trasformazione della famiglia. Con un paradosso: pur crescendo di numero, dagli attuali 25,7 milioni di unità ai 26,6 milioni nel 2040, diventeranno sempre più evanescenti. In aumento le coppie senza figli (dal 19,8% odierno al 21,6% del 2040) e, viceversa, in drastico calo quelle con figli (dal 32,1% al 23,9%). Sempre di più le persone sole sia di sesso maschile (+17%) che femminile (+23%), una categoria che complessivamente toccherà tra vent’anni quota 10 milioni.Già nel censimento 2020, i cui risultati sono stati diffusi dall’Istat lo scorso 9 dicembre, si possono riscontrare le prime avvisaglie di questa preoccupante tendenza. Ormai la popolazione italiana si attesta stabilmente sotto quota 60 milioni (59,23 per la precisione), con un saldo negativo pari a 405.275 unità rispetto al 2019. Tranne l’Emilia-Romagna (+310 abitanti), tutte le Regioni fanno registrare una diminuzione degli abitanti. Marcato l’invecchiamento, con il costante e progressivo aumento delle classi di età più anziane e lo snellimento di quelle più giovani. Segnali che confermano come, senza un intervento rapido e netto, una fetta d’Italia è destinata nel prossimo futuro a sparire nel nulla.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/se-provassimo-a-non-sparire-2656161978.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="da-regioni-e-comuni-pioggia-di-incentivi-ma-lo-stato-e-assente" data-post-id="2656161978" data-published-at="1640528573" data-use-pagination="False"> Da Regioni e Comuni pioggia di incentivi ma lo Stato è assente «Voglia di ritmi più lenti e in armonia con la natura? Di luoghi incontaminati in cui respirare a pieni polmoni e far crescere i propri figli in libertà? Di un posto diverso dove continuare il proprio lavoro, sempre più connesso e smart, o in cui iniziare magari una nuova attività? Cambiare vita si può», si legge nel comunicato diffuso lo scorso agosto dagli uffici di Piazza Castello a Torino, «e la Regione Piemonte ti aiuta a farlo». Sul piatto, un contributo da 10.000 a 40.000 euro (per complessivi 10 milioni di euro) destinato a chi sceglie di trasferirsi in un centro urbano e acquista o recupera un immobile in un Comune montano con meno di 5.000 abitanti. Obiettivo: invogliare giovani e meno giovani a ripopolare gli oltre 400 piccoli borghi piemontesi. Famosa l’iniziativa delle case in vendita al prezzo simbolico di 1 euro, sposata da molti piccoli Comuni sparsi per la penisola. Si va da Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, dove l’amministrazione ha aperto un secondo bando dopo avere già esaurito il primo lotto di 16 immobili; a Nulvi, provincia di Sassari, paesino nel quale tutte le case sono già state vendute; a Castropignano, in Molise, borgo storico di quasi 900 abitanti, dove sono stati immesse sul mercato diverse decine di immobili. Il progetto è talmente ampio e diffuso che si è meritato la realizzazione di un sito (Casea1euro.it) nel quale vengono raccolte informazioni sui Comuni aderenti e sui bandi pubblicati. Visitando la pagina, è possibile anche consultare una mappa geografica interattiva per scoprire le zone di interesse. Un’idea che funziona? A Mussomeli (Caltanissetta), le richieste sono state circa 60.000, e gli immobili venduti circa 100. Ollolai, centro di 1.300 abitanti in provincia di Nuoro, ha fatto notizia, approdando nel 2018 addirittura sulla stampa internazionale. Tanto che, proprio in questi giorni, in municipio si apprestano a varare la «fase 2» del programma. Strizza l’occhio alle giovani famiglie il piano lanciato la scorsa prima dal Comune di Bianzano, meno di 600 anime in provincia di Bergamo. Doppio bonus, uno da 500 euro per le coppie under 35 e l’altro da 250 euro per i nuovi nati, a condizione però che gli aderenti sottoscrivano un «patto di residenza», impegnandosi cioè a vivere nel paesino per almeno quattro anni. Nel 2019, era stato Luserna (250 abitanti in provincia di Trento) a mettere a disposizione di quattro coppie altrettanti immobili a titolo gratuito. Un progetto dal valore sociale, dal momento che i nuclei assegnatari «prenderanno parte a un processo partecipato, che prevederà una formazione iniziale con il coinvolgimento della comunità locale». Obiettivo? Dare «nuova linfa alla comunità cimbra». Pochi giorni fa, il Consiglio regionale dell’Abruzzo ha approvato una legge a difesa dei piccoli Comuni del territorio. Fino a 2.500 euro annui dalla nascita di un figlio fino ai 3 anni d’età, più un contributo di 2.500 euro a chi decide di trasferirsi in un piccolo centro montano abruzzese. Complessivamente, uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il biennio 2022-23. Promossa da Fratelli d’Italia, la norma è stata lodata dalla leader Giorgia Meloni, la quale l’ha definita «un esempio di buongoverno che mi auguro possa essere d’esempio anche per altre amministrazioni locali e regionali». Un recente bando ancora allo studio da parte di alcuni Comuni calabresi ha destato l’attenzione nientemeno che della Cnn. Fino a 28.000 euro all’anno per iniziare una nuova vita e una nuova attività economica nei borghi con meno di 2.000 abitanti. La formula è ancora da definire, ma si pensa di erogare ai nuovi residenti un contributo mensile tra gli 800 e i 1.000 euro per due o tre anni. In alternativa, un finanziamento per l’apertura di un’attività commerciale o residenziale. «Invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne». Stando alle dichiarazioni programmatiche pronunciate in Parlamento dal premier Mario Draghi lo scorso febbraio, il drammatico calo della popolazione rappresenta per l’esecutivo una priorità da affrontare con la massima determinazione. Nell’attesa che i buoni propositi dell’attuale governo si traducano in atti concreti, va registrato un fatto: in assenza di una regìa nazionale comune, finora i territori si sono trovati ad affrontare da soli ad affrontare una problematica più grande di loro, costretti a fare i conti con i vincoli burocratici e le limitate disponibilità finanziarie ereditate dai pesanti anni di austerità.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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