
Lorella Cuccarini, da ieri in tv con Grand Tour, si è esposta senza paura su Bibbiano: «Bisogna andare fino in fondo, non mi curo degli insulti sui social. Ogni mamma teme che le tolgano i suoi piccoli: io non sarei sopravvissuta o avrei reagito come una belva».«Voglio dire bravo a Maurizio Belpietro: mi raccomando su Bibbiano non mollate». Difficile essere presi in contropiede in un'intervista, ma il commendator Lorella Cuccarini stavolta c'è riuscita. Dovevamo parlare del suo ritorno in tv ieri sera con Grand Tour su Rai 1 e invece lei gioca d'anticipo. «I miei su Bibbiano sono sentimenti condivisi: con questo programma che è stato per me una graditissima sorpresa giro l'Italia meravigliosa, quella dei vicoli, delle piazze, dei luoghi selvaggi e sento l'identità della nostra gente, della nostra terra che mi abbraccia. E insieme alla nostra gente penso a quello che è accaduto a Bibbiano e mi domando com'è possibile. Se fosse successo a me di patire ciò che hanno dovuto subire quei poveri genitori forse sarei morta di dolore oppure avrei reagito come una belva».Cosa pensa dei suoi colleghi che si sono schierati per chiedere la verità su Bibbiano e sono stati insultati?«Penso quello che ho scritto anche in un tweet: la verità su Bibbiano deve uscire tutta e abbiamo il diritto di sapere se quello era un sistema ristretto o se è successo anche in altre parti d'Italia. Penso che per una volta noi dello spettacolo abbiamo fatto una cosa sacrosanta: schierarci con le famiglie perché quella di Bibbiano è una barbarie assoluta e io sto con loro, sono una di loro. Noi mamme sappiamo cosa significa anche solo la remotissima possibilità che ti possano togliere un figlio: è un incubo, uno strazio, un dolore anche solo immaginarlo! Posso dirlo? Non ne posso più del politicamente corretto! È ora che noi che abbiamo un dialogo con il pubblico facciamo sentire la nostra opinione al di là delle convenienze ed è anche ora di smetterla di pensare che i giudizi della rete siano oro colato. Basta fare come me: fregarsene. Mi raccomando voi continuate: andate fino in fondo a questa storia». Lorella Cuccarini è mamma di quattro ragazzi, difende la famiglia, non si piega al luogocomunismo e per tre anni è stata lontana dalla tv. Anche in passato ha dovuto pagare per le sue opinioni non allineate e ora questo ritorno in grande stile come lo vive? «Come una grande opportunità e con un'energia nuova. Da settembre condurrò La Vita in Diretta con Alberto Matano. È la prima volta che faccio una quotidiana, mi stimola molto la possibilità di avere un dialogo giornaliero con il pubblico. La vera sorpresa è stata però questo Grand Tour. Quando la direttrice di Rai 1 Teresa De Santis mi ha proposto questa avventura ho accettato con entusiasmo. Io l'Italia l'ho girata in lungo e in largo: con i musical ho toccato le piazze più importanti, grazie al teatro ho scoperto le località più nascoste, ma con Grand Tour insieme ad Angelo Melone che è un eccezionale compagno di viaggio mi faccio inebriare dalle meraviglie del nostro Paese che meriterebbe di avere ben altra immagine rispetto a quella che di solito ci cuciono addosso».In che senso?«Basta con questa Italia dipinta come un Paese di nullafacenti, con quell'immagine che rimbalza dai telegiornali di gente depressa, di giovani disoccupati, di bande violente, di degrado. L'Italia è altro: quella vera, quella più bella che noi con Grand Tour raccontiamo ogni venerdì di agosto su Rai 1 è fatta di tradizioni, sentimenti, arte, paesaggi d'incanto, persone che lavorano e valori che resistono».A proposito di valori che resistono: lei si può definire una testimonial della famiglia?«La Cuccarini è mamma, ha sempre creduto nella famiglia, difende la famiglia come prima indispensabile cellula di una società coesa e sana; questa idea di famiglia non morirà mai. È un modello di vita, è un modello educativo che dobbiamo preservare. Se vogliamo avere domani dei cittadini consapevoli è indispensabile preservare la famiglia come luogo dei sentimenti, dell'identità, ma anche come prima agenzia educativa».Educando anche alla bellezza che è quello che state facendo con Grand Tour?«Certo che sì. Noi non abbiamo la pretesa di educare, ma abbiamo il compito di proporre il nostro infinito bello. Lo facciamo con le telecamere, lo facciamo con il nostro lavoro. Io mi sento una turista, magari privilegiata, e così interpreto il programma, con una sana curiosità e con la voglia di raccontare il valore dell'Italia che è anche testimoniare i principi degli italiani. Se educhiamo i ragazzi al bello del nostro Paese avremo cittadini consapevoli e persone più felici».Progetto ambizioso e faticoso.«Più che ambizioso è innovativo. Se volete sapere cosa significa la televisione del cambiamento Grand Tour ne è un esempio: recuperare integralmente il valore dell'Italia e avere l'orgoglio di essere italiani. Quanto alla fatica sì quella c'è, ma è una fatica felice. Come quella delle mamme che accudiscono i figli proponendo i loro i valori, come quando raccontano la nostra storia».Però le culle sono sempre più vuote…«Bisogna che la politica si dia da fare per questo. Le famiglie vanno aiutate, la maternità va sostenuta e incentivata, credo che la denatalità sia una delle vere grandi emergenze nazionali e servono incentivi economici, servizi adeguati, ma anche maggiore considerazione della famiglia e della donna come madre. Se noi con Grand Tour raccontiamo la bellezza del nostro Paese lo facciamo per consegnarla ai cittadini di domani, ma bisogna che le famiglie siano aiutate a crescere. Non si può in nome della modernità azzerare tutto, non si può passare sulle nostre radici come con una pialla. Ecco perché su Bibbiano bisogna sapere tutto. Per non avere le culle vuote bisogna difendere la famiglia».Lorella Cuccarini: da più amata degli italiani a sovranista, qual è l'etichetta che preferisce?«Mettiamola così: se essere sovranista vuol dire essere innamorata dell'Italia come dimostra questo programma che sto facendo e come continuerò a fare con La Vita in Diretta, allora sono sovranista dalla nascita. Il sottotitolo di Grand Tour è: “Innamorati dell'Italia". Se poi continuano a dire che sono la più amata forse vorrà dire che è un amore corrisposto dagli italiani».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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