2022-06-10
Se li coccoli gli immigrati straripano. L’esempio della Francia lo dimostra
Banlieue di Tremblay-en-France, sobborgo di Parigi (Getty Images)
Dopo i fatti di Peschiera, la sinistra è corsa a dirci che serve più antirazzismo, cittadinanza facile e dialogo. L’esperienza di chi c’è passato prima di noi fa vedere come finanziamenti e ideologia aggravino il problema.È colpa nostra. Piano piano ci stanno arrivando. I fatti di Peschiera del Garda, i raid delle orde immigrate su Rimini e Jesolo, le baby gang etniche che rapinano nella metro di Torino, i razziatori di portafogli e collanine ai grandi eventi di massa li abbiamo creati noi. Noi italiani, noi bianchi, noi «razzisti». È colpa nostra perché non abbiamo dato loro lo ius soli, perché non ci sono abbastanza neri in Nazionale, perché non abbiamo approvato il ddl Zan (non c’entra nulla, ma Michela Marzano l’ha tirato in ballo lo stesso). «Gli italiani ci hanno isolato, per questo ci sentiamo africani», titolava qualche giorno fa Repubblica, riportando dichiarazioni raccolte in periferia. Un ragionamento che può convincere solo chi cali questi fatti in un vuoto storico e non si accorga che l’Italia sta semplicemente sperimentando quanto già accaduto in Francia o in Belgio, ma con 30 anni di ritardo. E lì, dove i «nuovi europei» li hanno coccolati in ogni modo, le cose sono andate sempre peggiorando. Un luogo comune ricorrente è per esempio quello del disagio sociale. La parola d’ordine è «più investimenti in periferia». Peccato che, in Francia, le banlieue si siano rivelate un pozzo senza fondo in cui sperperare denaro pubblico. Ancora a inizio 2021, l’ex primo ministro Jean Castex annunciava lo stanziamento di 3,3 miliardi per i «quartieri sensibili». Dall’inizio degli anni Ottanta, si calcola che la Francia abbia speso per i quartieri degli immigrati 75 miliardi. Il primo piano banlieue di cui si abbia memoria risale all’Opération habitat del 1977. Da allora si contano grandi investimenti e altisonanti parole d’ordine, ma zero risultati. Il sociologo Dominique Lorrain ha realizzato uno studio comparativo sugli investimenti pubblici nel quartiere di Hautes-Noues, a Villiers-sur-Marne, e quelli nella periferia di Verdun. Il livello di povertà dei due quartieri è analogo, ma il primo viene classificato come «sensibile», appunto per la forte presenza di immigrati. Ebbene, il reddito degli abitanti di Hautes-Noues è del 20% superiore a quello dei residenti a Verdun, ma gli investimenti pubblici spesi per i due quartieri vedono 12.450 euro per abitante a Hautes-Noues contro gli 11,80 euro per abitante di Verdun. Insomma, gli investimenti pubblici nel quartiere «sensibile» sono mille volte superiori rispetto a quello più povero, più decentrato e più sfortunato che tuttavia fa meno chic. Lo studioso Christophe Guilluy, in Fractures française, ha dimostrato che, con il passare delle generazioni, nele banlieue la condizione sociale migliora ma la conflittualità aumenta. Un terzo dei figli di immigrati nella fascia d’età 35-50 anni svolge un lavoro più qualificato del padre alla stessa eta. Come nota Guilluy, già il governo Jospin (1997-2002) aveva cercato di migliorare le condizioni di vita delle banlieue intervenendo contro la disoccupazione. «Sfortunatamente, i buoni risultati in materia di occupazione non ebbero alcuna incidenza sul tasso di delinquenza (delle banlieue), che al contrario è esploso proprio in quel periodo». Guilluy ci è tornato sopra ne La France périphérique: «Se le difficoltà delle banlieue sono reali, esse sono in primo luogo legate all’emergenza di una società multiculturale e alla gestione dei flussi migratori, ma in nessun caso alle ricadute di un’economia mondializzata. Anzi, le banlieue sono parti in causa di questa economia». Se non è colpa della povertà, sarà allora colpa del razzismo? Ma quando mai. In Francia la «incitazione all’odio» è un reato dal 1972 (loi Pleven). Nel 1990 la loi Gayssot proibisce le pubblicazioni «negazioniste». Dal 2001, la loi Taubira riconosce lo schiavismo come crimine contro l’umanità. Dal 1978 è inoltre illegale in Francia produrre statistiche etniche. In Belgio, una legge contro le discriminazioni razziali è in vigore dal 1981 (loi Moureaux). Parliamo quindi di Stati che hanno probabilmente gli ordinamenti più antirazzisti e antifascisti del mondo. E non sono leggi che restano sulla carta: scrittori, giornalisti e politici come Renaud Camus, Jean Raspail, Eric Zemmour sono stati colpiti per via giudiziaria più volte. E movimenti identitari che contestano l’immigrazione vengono sciolti d’imperio dal ministero degli Interni con grande frequenza. Vogliamo allora parlare del clima culturale? In Francia gli immigrati e i loro discendenti possono identificarsi con i principali attori nazionali (Omar Sy), con un numero incalcolabile di atleti (nella nazionale di calcio si fa prima a elencare i bianchi), con popolari anchorman (come Cyril Hanouna, conduttore di Balance ton post!), con politici importanti (come Christiane Taubira). La banlieue ha inoltre già una sua mitologia cinematografica di film furbetti sulla violenza poliziesca nelle periferie, da L’odio di Mathieu Kassovitz (1994) a I miserabili, di Ladj Ly (2019). Curiosamente, in queste pellicole non si vedono mai nordafricani fracassare di botte un povero cristo bianco che ha incrociato il loro sguardo su un bus (lo psichiatra infantile Maurice Berger, in Sur la violence gratuite en France, ha dimostrato che nell’Esagono avviene un atto di violenza gratuita ogni due minuti, in gran parte per mano di adolescenti di origine magrebina).Malgrado questa immensa macchina antirazzista messa in piedi per far sentire a casa loro gli immigrati, questi ultimi non hanno cessato di creare problemi. Anzi, di generazione in generazione, hanno alzato il tiro, passando dalla delinquenza venale e tribale - esattamente sullo stile di Peschiera - all’islamismo radicale. Nel loro La tentation radicale, inchiesta condotta su 7.000 liceali francesi di ogni estrazione, Olivier Galland e Anne Muxel hanno mostrato come un 24% dei ragazzi intervistati non condannasse totalmente l’attacco a Charlie Hebdo e un 13% quello del Bataclan. Percentuali che crescono vertiginosamente nei liceali definiti «più tolleranti alla devianza e alla violenza» (58 e 34%), tra gli studenti nati all’estero (41 e 21%) e tra gli alunni musulmani (45 e 24%). Tragica ironia della sorte: l’antirazzismo di Stato non solo non ha fermato le irrequietezze degli stranieri, ma non ha neanche intaccato il... razzismo degli immigrati stessi, che continuano a ragionare per categorie strettamente etnoreligiose. Lo ha notato Arthur Frayer-Laleix, nel suo libro reportage Et les blancs sont partis: «Mentre i vari ministri per la Città usano da 30 anni parole come “mixità sociale”, “vivere insieme”, “integrazione” e “coesione”, la gente che incrocio nel mio reportage mi parla di “neri”, “arabi”, “turchi”. Mi parla di “maliani”, di “haitiani”, di “congolesi”, di “algerini”, di “ivoriani”, di “marocchini”... Impiegano termini che il personale politico evita scrupolosamente di utilizzare».