2023-07-17
Se il diritto alla salute diventa una trappola
A prima vista lo slogan sembra condivisibile. In realtà implica un dovere, quindi una sanzione per chi non lo rispetta. Lo Stato aumenta i suoi poteri e può decidere chi deve mettersi la maglia di lana o se è obbligatorio assumere un farmaco sperimentale.Ho scoperto le malattie professionali durante l’esame di Anatomia patologica. Il problema era già stato accennato a Patologia generale e impostato a Patologia medica, ma è stato ad Anatomia patologica che, davanti ai vetrini, il problema è stato messo a fuoco: il lavoro come malattia. Non erano solo il tempo e la forza dell’operaio ad essere in vendita, ma il suo corpo e la sua sopravvivenza, la sua salute e la sua morte. L’incidente sul lavoro è terribile, ma in teoria non dovrebbe accadere, come l’incidente in auto. La malattia professionale invece accade lentamente, giorno dopo giorno. Sui miei libri c’era scritto che lavorare con l’anilina causava il cancro della vescica, lavorare con l’amianto il mesotelioma (un cancro della pleura particolarmente aggressivo e particolarmente doloroso in quanto infiltra precocemente il piano costale), eppure c’erano fabbriche dove la gente lavorava con l’anilina o con l’amianto. Da medico ho lavorato al San Luigi Gonzaga dove c’erano le insufficienze respiratorie da malattia professionale e infine un’ultima malattia professionale: la tubercolosi, che è una malattia infettiva, certo, ma quando si instaura su polmoni già danneggiati dall’aver respirato porcate tutti i giorni, otto ore al giorno, è particolarmente devastante. C’erano persone dimesse dopo anni di ospedale. Alcune non dimesse mai. Fu grazie ai grandi processi di allora per i morti nelle fabbriche di cancro che le condizioni degli operai nel capitalismo occidentale sono cambiate. Non cambiarono invece oltre le cortine di ferro, dove restarono e sono tuttora devastanti. L’essere operaio, però, non è stato solo dolore, ma anche orgoglio di essere i costruttori del mondo. Se non lo avete ancora letto, leggete La chiave a stella di Primo Levi, e se non lo avete ancora visto, non perdetevi il film Gran Torino di Clint Eastwood: prende il nome da un’auto della Ford degli anni Settanta. Nel 1978 Giovanni Berlinguer fece tre riforme: la prima abolì i molto problematici manicomi italiani, senza però sostituirli con strutture adeguate. La seconda riforma fu un aborto facile e gratuito. La terza è stata istituire il Sistema sanitario italiano basato sulla frase «la salute è un diritto». Questa frase non è un proverbio, anche perché i proverbi hanno una base di saggezza, ma si è trasformata in una specie di proverbio, ovunque ripetuto nel corso della recente pandemia. L’articolo 32 della Costituzione afferma che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Quello che è garantito come fondamentale diritto è la tutela della salute. L’articolo garantisce che lo Stato ci metta buona volontà e quattrini per mettere a riparo la nostra salute: in questo senso tutti i tagli fatti alla sanità dovrebbero essere considerati violazioni dell’articolo 32. L’affermazione di Berlinguer «la salute è un diritto» è comunque diversa dall’articolo 32 della Costituzione. Quando questa frase è stata ufficializzata ne sono stata felice: finalmente la piaga delle malattie professionali sarebbe stata combattuta e sconfitta. Mio marito, che è quello più intelligente dei due, mi mise seduta e mi spiegò che quella frase è una trappola. Dove c’è un diritto, c’è anche un dovere, e c’è anche un reato per la violazione di quel diritto. La proprietà privata è un diritto. Se subisco un furto posso denunciare il ladro. Se la salute è un diritto, chi denuncio se mi viene il raffreddore? Lo Stato che non ha mandato i carabinieri a verificare che avessi la maglia di lana? Quindi sto autorizzando lo Stato a entrare nella mia casa e nei miei vestiti per il mio bene. Quelli che squittiscono «più diritti per tutti», stanno parlando di più doveri per tutti e più reati per tutti, per esempio il dovere di trattare il signor Vladimir Guadagno come se fosse una donna, e il reato nel caso uno non lo voglia fare. Se passasse il ddl Zan, questa sarebbe la situazione. Il diritto alla salute dava allo Stato poteri assoluti per preservare la nostra salute: ci avrebbero mandato carabinieri a casa per verificare il termostato e la maglia di lana. In effetti ci sono entrati carabinieri in casa, per verificare che non avessimo ospiti a cena. Questa affermazione, «la salute è un diritto», garantisce l’obbligo vaccinale, qualsiasi obbligo di qualsiasi vaccino o farmaco detto tale, garantisce il fatto che ogni libertà più elementare, incluso andare a Messa o correre soli su una spiaggia, possa essere cancellata, perché una serie di scienziati di livello scientifico talmente straordinario da aver identificato banchi a rotelle come baluardo contro i virus ha deciso che fa male alla nostra salute. Il progetto di salute di Berlinguer non ha interessato le migliaia di bimbetti smembrati a spese dell’erario. L’aborto è una malattia: nei testi di ostetricia è descritto sotto il capitolo: patologia della gravidanza. La legge 194 contraddice la Costituzione. La legge 194 tra l’altro stabilisce che la volontà della madre deve essere certa. Quindi è doveroso far ascoltare alla madre il battito e farle vedere l’ecografia, sia prima che durante l’aborto, per essere assolutamente certi che la madre voglia la distruzione di quella piccola vita. La dubbia frase «la salute è un diritto» giustifica l’eutanasia, anche di non consenzienti. Giustifica l’aborto eugenetico, ma il termine è un po’ nazista e pare brutto, per cui è sostituito dal più vezzoso aborto terapeutico. In tutti i casi si evita una malattia. A volte può essere una malattia lieve e risolvibile chirurgicamente. A un mio amico è stato proposto per tre volte l’aborto del suo bimbo che aveva un piedino torto, una piccola malformazione ortopedica. Tra l’altro la legge 194 vieta assolutamente che un medico proponga l’aborto alla madre. A Rossano nel 2009 è stato abortito un bambino per un labbro leporino. L’aborto è stato fatto su un bimbo di 5 mesi, che è nato vivo ed era talmente robusto che è riuscito a sopravvivere 40 ore. È stato messo in una scatola metallica dove per 40 ore è rimasto solo. Finalmente è morto di disidratazione. Questi bambini nascono vivi. La legge vieta di rianimarli. Non si lega il cordone ombelicale, così che muoiano dissanguati in un tempo decente, ma il piccolo è riuscito da solo a coagulare il cordone. Muoiono soli. È vietato che ricevano qualsiasi tipo di cura. Se si rianimassero avrebbero lesioni cerebrali permanenti per l’eccessiva prematurità, si potrebbe almeno avere gli attributi per sopprimerli, in maniera indolore, o per tenerli in braccio mentre muoiono. Muoiono di insufficienza respiratoria. Dissanguati. Se resistono a ipossia e dissanguamento, muoiono per disidratazione come Eluana Englaro. La madre partorisce il feto, che però una volta fuori dall’utero non è più feto, è una persona, ma non si assume la responsabilità di stargli vicina tenendolo in braccio. Se un genitore si è assunto la tremenda responsabilità di stabilire che quella creatura non deve vivere, per un labbro leporino, non può assumersi la responsabilità di stargli vicino fino all’ultimo battito? Il medico che ha fatto lo scempio di far nascere questo bambino di 22 settimane perché muoia, in una società che squittisce idiozie sull’inclusione, non ha il dovere di stargli vicino fino alla morte? Se non avete il coraggio di far morire i vostri bambini guardandoli in faccia, allora non li uccidete proprio, finite la gravidanza e poi affidate il bimbo a chi lo adotterà.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco
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