2021-03-05
Chiuse le elementari, ira dei genitori. Il Pirellone prova a giocare d'anticipo sul governo e si giustifica: «L'epidemia si aggrava».Con spiazzante tempismo il governatore Attilio Fontana ha comunicato ieri all'ora del mesdì, insomma a mezzogiorno, che da oggi le scuole in Lombardia saranno chiuse. La Regione si colora, purtroppo, della tinta più in voga nella lotta alla pandemia: l'arancione scuro. Tutti gli istituti, eccetto i nidi, sbarrati fino al prossimo 14 marzo. Ben che vada. Perché il generalizzato timore è che il virus rallenti l'auspicata riapertura. A un anno dal primo lockdown, ci risiamo. Si torna ai vecchi tempi: in poche ore milioni di famiglie si sono dovute organizzare per l'ennesimo stravolgimento delle loro esistenze. Bastava, ad esempio, una rapida scorsa alle frementi chat di classe per intuire le reazioni dei genitori. Una domanda campeggiava: perché non aspettare lunedì? Un altro giorno di lezione sarebbe stato davvero tanto deleterio? Per capire meglio, bisogna partire dal solito, arciburocratico, comunicato diffuso in mattinata da Palazzo Lombardia: «La situazione epidemiologica presenta le condizioni di un rapido peggioramento con un'incidenza in crescita in tutti i territori, anche in relazione ai più giovani». Qualche ora prima, era stato un accorato report a preoccupare la giunta. Sottolineava, intanto, il numero dei nuovi positivi negli ultimi sette giorni: 27.007 persone. Così come il dato sui ricoveri: 468, di cui 50 solo nell'azienda sanitaria di Brescia, ben superiore alle 301 dimissioni. E a infettarsi sono soprattutto quarantenni e cinquantenni. Ma il motivo della fuga in avanti sembra un altro: aver superato i 250 casi ogni 100 mila abitanti. Ovvero la soglia indicata dal governo per evitare la chiusura delle scuole. E, nell'ultima settimana, in Lombardia s'è arrivati a quota 269,7. Le province che dovrebbero essere già in zona rossa, secondo i parametri fissati dal nuovo dpcm, sono cinque: Como, Lecco, Brescia, Mantova, Monza e Brianza. Indicatori epidemiologici in rapida crescita, quindi. E qualcuno segnala pure l'ennesimo fraintendimento sui dati inviati a Roma: già la scorsa settimana la Regione doveva dunque essere in zona arancione, anziché in giallo. Chiudere alcuni Comuni, come tentato finora, non bastava. Certo: i numeri, in una pandemia, dicono tutto. Le proiezioni ancora di più. Ma le polemiche restano furenti. Anche perché ieri l'aumento dei casi è stato sostenuto, da 4.490 a 5.174. E i ricoveri, segnala il bollettino della Regione, sono chiaramente aumentati. Ma non sembrano crescite tanto eclatanti da giustificare l'immediata chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Quella della giunta lombarda assomiglia comunque a una scommessa politica. Oggi, come ogni venerdì, il ministero della Salute deciderà la nuova colorazione delle regioni. Se la Lombardia dovesse rimanere arancione, Fontana rivendicherà la linea dura. E quando arriverà la zona rossa, ipotesi da tanti ritenuta certa, potrà sostenere d'aver anticipato il virus. Se invece la Lombardia dovesse finire subito nel girone scarlatto, quella del governatore sarebbe una sonora sconfitta. Vorrebbe dire che l'emotività ha prevalso sulla logica. Sarebbe bastato aspettare un giorno, per poi lasciar addebitare a Roberto Speranza e agli apparati ministeriali le ennesime chiusure. Insomma, ha vinto la paura? Lo sapremo solo oggi. Comunque vada, il malcontento resta generalizzato. La Lombardia è quasi un monocolore leghista. E il leader del Carroccio, Matteo Salvini, è stato in questi mesi un indefesso aperturista. Anche se, appena qualche giorno fa, avverte: «Dobbiamo agire per proteggere i nostri figli: se necessario, dove il pericolo dei contagi è concreto, pure chiudendo le scuole». Rimane il problema del metodo. Dopo la decisione di Roberto Speranza, che comunica all'ultimo di tenere chiusi gli impianti di sci fino al 5 marzo, Salvini attacca: va superato «il modello Conte-Casalino», «che prevedeva annunci la domenica che ti cambiavano la vita lunedì». Ed è proprio quello che è successo, anche stavolta. Eppure, in Lombardia, il «cambio di passo» c'è già stato con il recente rimpastone. Fuori l'assessore alla Salute, Giulio Gallera. Dentro Letizia Moratti, che diventa anche vicepresidente. Il meglio del meglio. Come il consulente chiamato per il piano vaccinale, Guido Bertolaso. Così i lombardi, magari ingenuamente, c'hanno sperato: mai più figli a casa, stavolta ne usciremo. Li confortava persino Mario Draghi. Durante il dibattito per la fiducia in Parlamento, il premier mette finalmente l'istruzione al centro del dibattito sulla ripartenza: bisogna recuperare il tempo perso con la didattica a distanza, dobbiamo allinearci agli standard europei, urge adeguare il calendario alla contingenza. Per carità: nessuno può dubitare dei crescenti rischi della variante inglese. Ma perché non aspettare un giorno e permettere alle famiglie di organizzarsi. Dove si portano i bambini oggi? Dai nonni in attesa del vaccino? I genitori, che hanno magari già usato tutti i giorni di vacanza, avranno invocato la clemenza dei superiori come il ragionier Fantozzi di fronte al Megadirettore galattico? Anche perché, visto il risicato preavviso, nemmeno le scuole più solerti sembra che siano riuscite a partire da subito con la didattica a distanza. Oggi, dunque, vacanza. Proprio mentre vengono rese note le ennesime, avvilenti, statistiche. Sull'onda dell'epidemia, siamo stati i primi in Europa a chiudere gli istituti: a fine febbraio 2020 in Lombardia e Veneto, il 5 marzo ovunque. E tra gli ultimi a riaprire. Pochissimi, come Romania o Polonia, fanno peggio di noi. In Francia gli studenti hanno perso 41 giorni di lezione. In Italia 93: più del doppio. A Parigi la scuola è una priorità. A Roma resta una pericolosa incognita.
Lirio Abbata (Ansa)
La Cassazione smentisce i rapporti Cav-Mafia? «Repubblica»: «La sentenza non c’è».
(Stellantis)
Nel 2026 il marchio tornerà a competere nella massima categoria rally, dopo oltre 30 anni di assenza, con la Ypsilon Rally2 HF. La storia dei trionfi del passato dalla Fulvia Coupé alla Stratos alla Delta.
L'articolo contiene un video e una gallery fotografica.
Lo ha annunciato uno dei protagonisti degli anni d'oro della casa di Chivasso, Miki Biasion, assieme al ceo Luca Napolitano e al direttore sportivo Eugenio Franzetti: la Lancia, assente dal 1992 dalla massima categoria rallystica, tornerà protagonista nel campionato Wrc con la Ypsilon Rally2 HF. La gara d'esordio sarà il mitico rally di Monte Carlo, in programma dal 22 al 26 gennaio 2026.
Lancia è stata per oltre quarant’anni sinonimo di vittoria nei mondiali di Rally. Un dominio quasi senza rivali, partito all’inizio degli anni Cinquanta e terminato con il ritiro dalle competizioni all’inizio degli anni Novanta.
Nel primo dopoguerra, la casa di Chivasso era presente praticamente in tutte le competizioni nelle diverse specialità: Formula 1, Targa Florio, Mille Miglia e Carrera. All’inizio degli anni ’50 la Lancia cominciò l’avventura nel circo dei Rally con l’Aurelia B20, che nel 1954 vinse il rally dell’Acropoli con il pilota francese Louis Chiron, successo replicato quattro anni più tardi a Monte Carlo, dove al volante dell’Aurelia trionfò l’ex pilota di formula 1 Gigi Villoresi.
I successi portarono alla costituzione della squadra corse dedicata ai rally, fondata da Cesare Fiorio nel 1960 e caratterizzata dalla sigla HF (High Fidelity, dove «Fidelity» stava alla fedeltà al marchio), il cui logo era un elefantino stilizzato. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i grandi successi con la Fulvia Coupè HF guidata da Sandro Munari, che nel 1967 ottenne la prima vittoria al Tour de Corse. Nato ufficialmente nel 1970, il Mondiale rally vide da subito la Lancia come una delle marche protagoniste. Il trionfo arrivò sempre con la Fulvia 1.6 Coupé HF grazie al trio Munari-Lampinen-Ballestrieri nel Mondiale 1972.
L’anno successivo fu presentata la Lancia Stratos, pensata specificamente per i rallye, la prima non derivata da vetture di serie con la Lancia entrata nel gruppo Fiat, sotto il cui cofano posteriore ruggiva un motore 6 cilindri derivato da quello della Ferrari Dino. Dopo un esordio difficile, la nuova Lancia esplose, tanto da essere definita la «bestia da battere» dagli avversari. Vinse tre mondiali di fila nel 1974, 1975 e 1976 con Munari ancora protagonista assieme ai navigatori Mannucci e Maiga.
A cavallo tra i due decenni ’70 e ’80 la dirigenza sportiva Fiat decise per un momentaneo disimpegno di Lancia nei Rally, la cui vettura di punta del gruppo era all’epoca la 131 Abarth Rally.
Nel 1982 fu la volta di una vettura nuova con il marchio dell’elefantino, la 037, con la quale Lancia tornò a trionfare dopo il ritiro della casa madre Fiat dalle corse. Con Walter Röhrl e Markku Alèn la 037 vinse il Mondiale marche del 1983 contro le più potenti Audi Quattro a trazione integrale.
Ma la Lancia che in assoluto vinse di più fu la Delta, che esordì nel 1985 nella versione speciale S4 sovralimentata (S) a trazione integrale (4) pilotata dalle coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. Proprio durante quella stagione, la S4 fu protagonista di un drammatico incidente dove morì Henri Toivonen assieme al navigatore Sergio Cresto durante il Tour de Corse. Per una questione di giustizia sportiva il titolo piloti fu tolto alla Lancia alla fine della stagione a favore di Peugeot, che era stata accusata di aver modificato irregolarmente le sue 205 Gti.
L’anno successivo esordì la Delta HF 4WD, che non ebbe rivali con le nuove regole del gruppo A: fu un dominio assoluto anche per gli anni successivi, dove la Delta, poi diventata HF Integrale, conquistò 6 mondiali di fila dal 1987 al 1992 con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Lancia si ritirò ufficialmente dal mondo dei rally nel 1991 L’ultimo mondiale fu vinto l’anno successivo dal Jolly Club, una scuderia privata appoggiata dalla casa di Chivasso.
Continua a leggereRiduci













