2022-04-25
Scontro su Generali, Benetton ago della bilancia. Pronti a non votare per la lista dell’ad Donnet

I Benetton pronti a non votare la lista di Donnet all'assemblea delle Generali
La scelta è tra la lista Caltagirone, quella di Assogestioni e l’astensione. Mentre è sempre più improbabile che i Benetton votino a favore dell’attuale ad Philippe Donnet per il rinnovo del cda delle Generali.
Venerdì un consiglio di amministrazione di Edizione ha fatto il punto anche sulla vicenda del gruppo triestino in vista dell’assemblea della settimana prossima e ha esaminato la valutazione sui due piani industriali concorrenti, commissionata all’amministratore delegato della holding Enrico Laghi. Nessuna comunicazione ufficiale e a questo punto diventa difficile ipotizzare che ce ne siano fino all’assemblea.
La quota dei Benetton, 3,97%, se dovesse appoggiare una delle due liste, potrebbe risultare determinante nella soluzione della partita. Sulla carta, la lista del cda può contare sul voto di Mediobanca (17,2%, compreso il prestito titoli) e De Agostini (1,4%). A questi andrebbero aggiunti i voti di una serie di grandi fondi istituzionali che hanno già espresso il proprio gradimento per la lista del board: dal fondo sovrano norvegese Norges (1,39%), al fondo pensione canadese Cpp fino al fondo pensioni dei dipendenti pubblici della California, Calpers, e a quello della Florida, Sba.
IL PESO DEI PROXY
Dopo le indicazioni dei proxy advisor Iss, Glass Lewis, Frontis - le società specializzate che esaminano le delibere assembleari e forniscono le indicazioni di voto agli investitori - gli istituzionali sarebbero perlopiù schierati per la riconferma di Donnet. Sull’altro fronte, i voti di Caltagirone (9,95%), quello di Leonardo Del Vecchio (accreditato di una quota ormai vicina al 10%) e della Fondazione Crt (1,7%). Oltre a questi, la lista che candida il manager del Leone Luciano Cirinà come amministratore delegato e Claudio Costamagna come presidente potrebbe raccogliere il voto di qualche fondo che per statuto non è tenuto a seguire le indicazioni dei proxy e nelle settimane scorse ha preso posizione su Trieste.
Blackrock e Vanguard per esempio sono accreditati di un pacchetto intorno al 10% del capitale delle azioni del Leone. Ci sono poi altre fondazioni bancarie, accodate alla decisione della Crt seppur con quote più piccole. Diviso il retail, comprese le quote di alcune grandi famiglie imprenditoriali - non solo del Nord Est - che hanno pacchetti non insignificanti di titoli del Leone. Sembra invece certo che la Ferak delle famiglie Amenduni e Marchi, con l'1,3%, non parteciperà all’assemblea. In questo scenario - e con i Benetton fuori dalla mischia o in appoggio a Caltagirone o Assogestioni, la lista dei fondi che non dovrebbe andare oltre il 3% e quindi non nominerà nessun rappresentante in consiglio - diventa determinante l’affluenza.
Tradizionalmente alta a Trieste: nel 2019 era stata del 55,8%. Questa volta è attesa sensibilmente più alta. Secondo gli scenari che circolano in queste ore nei due schieramenti, un’affluenza inferiore al 62% vedrebbe l’affermazione delle lista Caltagirone, mentre oltre il 70% segnerebbe un’affermazione decisa della lista del cda. Lo scenario intermedio (tra il 62% e il 69%) è paradossalmente il peggiore per la compagnia: la lista che promuove la candidatura di Donnet come ad dovrebbe avere la meglio, ma di una percentuale tale da rendere determinanti i voti del prestito titoli di Mediobanca (4,4%) e dei titoli De Agostini, che ha già venduto ma dei quali il gruppo si è tenuto i diritti di voto fino all’assemblea.
LE CRITICHE
Operazioni criticate dallo schieramento che si riconosce nella lista promossa da Caltagirone e che potrebbero dare il via, se si rivelassero determinanti, a una serie di contestazioni e cause legali.
A questo proposito va evidenziato che nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il presidente della De Agostini Marco Drago ha motivato la decisione di vendere mantenendo i diritti di voto, come un’esigenza di avere liquidità da un lato e di pesare in un momento storico per Generali e il Paese dall’altro... Continua intanto il deposito dei titoli per partecipare all’assemblea. C’è tempo fino al 26 aprile e entro quella data si saprà l’affluenza.
A raccogliere le adesioni è la stessa Generali ma, secondo il Regolamento emittenti, chi raccoglie deleghe di azionisti - come la Vm 2006 di Caltagirone - ha accesso alle informazioni in qualunque momento. A raccogliere il voto è invece Computershare, società specializzata che è la sola depositaria dei voti raccolti fino al momento dell’assemblea, quando li renderà pubblici.
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Stefano Donnarumma, ad di Fs
L’ad Stefano Donnarumma presenta le nuove strategie: pronti 18 miliardi per il 2025 e progetti per 177 miliardi fino al 2034. La flotta verrà rinnovata e si punterà su digitalizzazione della rete e apertura ai privati. Matteo Salvini rilancia i cantieri e il Ponte di Messina.
Investimenti per 18 miliardi nel 2025, 7 di questi solo per il Pnrr. Cifre senza precedenti per il gruppo Fs come spiegato dall’amministratore delegato Stefano Donnarumma ieri in occasione della presentazione del Piano strategico 2025-2029. «Questi risultati rappresentano le fondamenta della traiettoria di lungo periodo delineata nell’aggiornamento del Piano strategico, che prevede ulteriori investimenti per 177 miliardi di euro nel periodo 2026-2034. Il prossimo anno puntiamo a superare il target dei 18 miliardi», mentre per quanto riguarda gli obiettivi al 2029, nonostante una perdita iniziale pari a 200 milioni di euro nel 2024, restano gli stessi: «20 miliardi di euro di ricavi, 3,5 miliardi di euro di Ebitda e un risultato netto pari a 500 milioni di euro, coerenti con la traiettoria di crescita prevista per i prossimi anni», ha commentato presentandosi sul palco vestito da ferroviere per «trasmettere l’orgoglio e l’emozione di essere ferrovieri e italiani».
Occhi puntati sul tema ritardi: «Noi pensavamo di riportare nelle fasce di orario 50.000 treni in cinque anni, ne abbiamo riportati 35.000 in un solo anno», assicura Donnarumma che rivendica anche l’ammodernamento della flotta «con l’introduzione di 241 nuovi mezzi tra treni e autobus».
Avviata anche «una profonda trasformazione industriale: abbiamo riorganizzato la governance del gruppo, reso operative le nuove Business Unit, lanciato la Scuola Fs e definito un piano tecnologico da 20 miliardi di euro al 2034 per digitalizzare la rete, rafforzare la sicurezza dell’infrastruttura e migliorare la gestione dei cantieri». Mentre su Anas spiega: «nessuno ha dubbi sulla necessità di una separazione, non c’è beneficio che l’Anas sia all’interno del gruppo. Ci sono già norme che sono state scritte per andare in questa direzione».
È in conferenza stampa che l’ad ha l’occasione si rispondere a chi gli chiede conto della segnalazione dell’Ance circa la cessione del ramo d’azienda ferroviario della storica azienda di Parma, la Pizzarotti, a Fs. L’Ance, nei giorni scorsi, aveva sollevato dubbi in riferimento a concorrenza, codice degli appalti e commistioni tra pubblico e privato, funzionamento dell’in house ed equilibrio tra stazione appaltante e società che esegue i lavori oltre che profili sugli aiuti di Stato. «Abbiamo ricevuto una segnalazione assolutamente inappropriata. Agiremo in tutte sedi per difendere inostri diritti», ha sottolineato Donnarumma. C’è interesse anche l’ingresso di investitori privati nello sviluppo infrastrutturale sulla base del modello Rab che prevede l’autofinanziamento con l’eventuale apertura al capitale di terzi. Secondo Donnarumma, nonostante l’impegno congiunto con il Mef, resta complicato disegnare il sistema sull’Alta velocità. «Il progetto non è concluso o fallito, è solo molto complesso il contesto di applicazione giuridico normativa. Ci sono elementi di carattere procedurale e tecnico che devono essere adottati. Però non è detto che non ci siano le soluzioni. A gennaio riprenderemo». Poi ha aggiunto: «Negli ultimi anni assistiamo a un sempre più forte interesse di investimenti nel nostro Paese da parte di fondi degli Emirati Arabi e del Qatar. Non abbiamo ancora però preso una decisione su questo. Se, invece, ci sarà il coinvolgimento di fondi esteri su attività internazionali credo che parleremo di fondi di matrice americana ed europea».
Anche il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, il vicepremier Matteo Salvini, è intervenuto dal palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma esordendo con una battuta: «Speriamo portiate fortuna, oggi doveva essere la giornata del mio processo in Cassazione è stata aggiornata alla settimana prossima». Rivendica i cantieri in corso nonostante le critiche sui ritardi: «Se siamo costretti ad avere oggi il massimo storico di cantieri aperti è perché qualcuno in passato o si era distratto oppure si occupava di altro», precisa non tenendosi però una stoccatina nei confronti dell’ad di Fs Donnarumma: «Fatemi arrabbiare il meno possibile nel 2026 e mandare meno messaggi», ribadendo tuttavia di essere «estremamente orgoglioso di quello che state facendo». Poi sul ponte di Messina rilancia: «Rinnovo la mia determinazione ad avviare i lavori entro la fine del mio mandato». Infine, circa lo sciopero della Cgil indetto per oggi: «Irresponsabile bloccare il Paese con l’ennesimo sciopero generale che mette in ginocchio il Paese in un momento delicato».
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Iniezione letale (iStock)
Donna affetta da una patologia rara, ma non grave, si deprime per le tempistiche dell’operazione e ottiene l’ok al fine vita.
Una donna affetta da una malattia rara, ma tutt’altro che in fin di vita bensì semplicemente stanca di aspettare l’intervento chirurgico di cui avrebbe bisogno, arriva a chiedere - e ottiene - la morte assistita. Sembra assurdo che un caso simile possa esistere e, probabilmente, lo è. Peccato sia una storia vera: quella che vede suo malgrado protagonista Jolene Van Alstine, 37 anni, residente nella provincia canadese del Saskatchewan. La donna soffre da otto anni di iperparatiroidismo primario normocalcemico, una malattia paratiroidea molto rara ma curabile. Il punto è che nel Saskatchewan pare non ci siano chirurghi in grado di eseguire l’operazione di cui ha bisogno. Per questo, la trentasettenne deve essere indirizzata fuori provincia, ma non può ottenere un’indicazione senza prima essere visitata da un endocrinologo e - di quelli della sua zona, alcune decine - nessuno accetta nuovi pazienti.
Di qui l’interminabile attesa, così interminabile da averla portata a chiedere la morte assistita. Che, a differenza del sospirato intervento, le è stata subito fissata. C’è già la data: il 7 gennaio 2026. Jolene Van Alstine ha scelto questa strada per porre fine a quello che, per lei, è un calvario: «I miei amici hanno smesso di venirmi a trovare. Sono isolata. Sono otto anni che me ne sto sdraiata sul divano, malata e rannicchiata in posizione fetale, aspettando che la giornata finisca». «Vado a letto alle sei di sera perché non riesco più a stare sveglia», ha aggiunto e suo marito, Miles Sundeen, ha detto che stanno cercando aiuto da molto tempo.
«È un caso complesso perché ha già subito diversi interventi chirurgici, ma non hanno avuto successo al 100%», ha spiegato l’uomo, «abbiamo davvero bisogno di aiuto per trovare un endocrinologo e un chirurgo che la prendano in cura e che abbiano molta familiarità con casi più complessi».
Le istituzioni sono al corrente di tutto, tanto che - stimolato dal ministro ombra dell’opposizione, Jared Clarke - il ministro della Salute del Saskatchewan, Jeremy Cockrill, ha incontrato la donna giorni fa per cercare di capire se poteva aiutarla, ma sembra che neppure il suo interessamento, per ora, sia riuscito a sbloccare la situazione. Con il risultato che, salvo sorprese, a inizio 2026 la Van Alstine potrebbe davvero ottenere la morte assistita a causa, di fatto, dei ritardi del sistema sanitario. Un caso che potrebbe diventare, se davvero così sarà, il primo d’una lunga serie dato che non in Canada non è già raro, anzi, morire in attesa delle cure.
Secondo i dati diffusi a fine novembre dal think tank canadese Secondstreet.org, infatti, tra aprile 2024 e marzo 2025 sono deceduti quasi 24.000 pazienti - 23.746, il numero esatto - che erano nelle liste d’attesa per le cure. Va però detto che il caso di Jolene Van Alstine sta scuotendo molto l’opinione pubblica ed è partita una vera e propria gara di solidarietà per salvarle la vita. In prima linea c’è il commentatore conservatore americano Gleen Beck, attivatosi dichiarando di volersi far carico delle spese di viaggio e mediche per Jolene esortando il Canada a porre fine a questa «follia». Gli aggiornamenti delle ultime ore da parte di Beck sono di cauto ottimismo. «Siamo in contatto con Jolene e suo marito! Continuate a pregare per la sua salute», ha infatti scritto su X. Staremo a vedere che sviluppi avrà la vicenda.
Quel che è certo è che l’odissea di Jolene Van Alstine non è casuale. E questo non solo per la gran facilità con cui è possibile accedere in Canada alla morte assistita - 90.000 casi dal 2016 ad oggi sono un numero oggettivamente enorme -, ma pure per il clima di abbandono terapeutico che la cultura eutanasica ha generato in un Paese dove, contestualmente all’introduzione del decesso on demand, si è subito iniziato a ragionare apertamente sui risparmi che ciò avrebbe comportato per le casse pubbliche.
Uno studio di Aaron J. Trachtenberg e Braden Manns, pubblicato ancora nel 2017 sul Canadian Medical Association Journal, basandosi su stime realizzate nei Paesi Bassi, aveva quantificato in una forbice oscillante tra i 35 e i quasi 139 milioni di dollari l’anno i risparmi che la «dolce morte» può assicurare alle finanze pubbliche. Da parte loro, Trachtenberg e Manns avevano tenuto a sottolineare di non voler alcun modo incoraggiare la gente a morire, e ci mancherebbe, ma è ovvio che laddove la vita di alcuni cittadini, rei solo di non essere abbastanza sani o abbastanza giovani, inizia ad essere rubricata alla voce «costi evitabili», essi siano indotti a togliere il disturbo. Era già accaduto, restando sempre in Canada, qualche anno fa con l’atleta paralimpica Christine Gauthier - che aveva osato protestare per i ritardi nell’installazione in casa sua di un montascale, sentendosi offrire la morte assistita - e di fatto succede ancora oggi con il caso di Jolene Van Alstine che, a proposito della sbandierata libertà di scelta, ora ha davanti a sé due strade: la morte assistita o quella in attesa di cure. Bel modo di essere «liberi fino alla fine», non c’è che dire.
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