Resta molto tesa la situazione al confine tra i due Paesi dove da sabato 27 maggio sono in corso sporadici scontri tra le forze dei Talebani e le Guardie di frontiera iraniane, con il bilancio che finora è di 14 membri dei Talebani uccisi e altri 30 feriti.
Resta molto tesa la situazione al confine tra i due Paesi dove da sabato 27 maggio sono in corso sporadici scontri tra le forze dei Talebani e le Guardie di frontiera iraniane, con il bilancio che finora è di 14 membri dei Talebani uccisi e altri 30 feriti.Non è certo la prima volta che tra l’Iran dei fondamentalisti sciiti e i fondamentalisti Talebani si verificano scontri armati ma stavolta la frattura è più profonda e rischia di coinvolgere i Paesi confinanti e altre realtà che in quell’area hanno messo radici vedi al-Qaeda e la rete Haqqani, stretti alleati dei Talebani.Secondo secondo quanto riferito dall'agenzia di stampa semi-ufficiale iraniana Tasnim sono iniziati Makki, gli scontri tra la provincia afghana sudorientale di Nimruz e la provincia iraniana di Sistan e Balochistan, con un fitto scambio colpi di artiglieria e armi leggere. L'Iran accusa i Talebani di violare il trattato del 1973 che regola la condivisione delle risorse idriche del fiume Helmand, il più lungo dell'Afghanistan che è anche affluente del lago Hamun che si trova nella provincia iraniana del Sistan e Balochistan (al confine con il Pakistan) una delle trentuno province dell'Iran che nell'aprile 2013 venne colpita da un violento terremoto con l'epicentro nei dintorni della città di Khash. I Talebani hanno subito negato qualsiasi violazione e hanno accusato gli iraniani di aver sparato per primi : « Oggi, nella provincia di Nimroz, le forze di frontiera iraniane hanno sparato verso l'Afghanistan, ricevendo una contro-reazione» si legge nel comunicato del portavoce del ministero degli Interni dei Talebani. Successivamente alcuni capi Talebani hanno pubblicato dei video minacciosi come quello del comandante talebano Abdul Hamid: « Se otteniamo l'ordine, conquisteremo l'Iran entro 24 ore. L'Iran sta flirtando con l'Occidente. In realtà, l'Iran ha fatto squadra con l'Occidente. L'Iran dovrebbe sapere che se attraversano le nostre linee rosse, li cancelleremo dalla mappa della Terra». L'Afghanistan afferma che un totale di 18 checkpoint, basi e punti di forza del confine iraniano sono stati catturati o distrutti, senza molta resistenza da parte delle truppe locali anche se il bilancio degli scontri depone a sfavore dei fondamentalisti afghani. Gli iraniani hanno risposto con un comunicato conciliante, anche se non sono mancate le stilettate da parte di funzionari del regime di Teheran: «La situazione è ora sotto controllo. Non vogliamo combattere con i nostri vicini». In ogni caso gli iraniani dopo gli scontri hanno chiuso il valico di frontiera di Milak, un importante valico commerciale: «La polizia di frontiera iraniana ha risposto all'attacco delle forze talebane oggi alle ore 10 contro la stazione di polizia di Sasouli nella zona di confine iraniana di Zabol, nella provincia sud-orientale del Sistan-Baluchestan», ha affermato il vicecomandante della polizia iraniana Ghassem Rezai, citato dalla tv di Stato. Poi Rezai ha attaccato i Talebani: «La mossa dei Talebani è contraria alle regole internazionali e ai principi di buon vicinato. Abbiamo messo in guardia sugli attacchi di oggi, ma le forze afghane hanno ripreso a sparare, usando diversi tipi di armi, e gli scontri sono proseguiti e le forze iraniane risponderanno a qualsiasi aggressione contro il nostro territorio e gli attuali governanti in Afghanistan dovrebbero rispondere a questo atto imprudente e illegale». Che il clima tra afghani e iraniani stava diventando sempre più teso lo si era capito da diverse settimane nelle quali da Teheran erano arrivate continue lamentele nei confronti dei Talebani che più volte invitati a rispettare il proprio impegno sul diritto iraniano all'acqua, previsto nell'accordo del 1973, di fornire 820 milioni di metri cubi d'acqua all'anno. In tal senso era intervenuto anche il presidente iraniano Ebrahim Raisi che ha ammonito le autorità afghane, esortandole a riconoscere il diritto di accesso alle risorse idriche alla popolazione della provincia iraniana del Sistan e Balochistan, che ne soffre una grave carenza, ma Kabul non ha dato nessun segno di disponibilità. L’Iran quindi accusa l’Afghanistan di non voler cedere la parte concordata a seguito della costruzione delle dighe di Khajiki e di Kamal Khan, che hanno deviato forzatamente il corso del fiume. Il governo dei Talebani ha rifiutato di rispondere alle richieste dell’Iran, con il pretesto della carenza di acqua nel letto del fiume. A questo proposito Teheran sostiene che le fotografie aeree del fiume dimostrino il contrario mentre le Nazioni Unite affermano che l'Afghanistan e l'Iran hanno sofferto di una prolungata siccità e le condizioni di siccità sono peggiorate nell'ultimo decennio. Nonostante i toni aspri e le minacce un portavoce del ministero dell'Interno afghano ha dichiarato che il suo governo «non vuole combattere con i suoi vicini», affermando che sono state le forze iraniane a iniziare iniziato il conflitto, spingendo le forze di frontiera afghane a reagire. Mentre il portavoce del ministero della Difesa afghano Enayatullah Khowarazmi su Twitter ha scritto che «L'Emirato islamico dell'Afghanistan ritiene che il dialogo e la negoziazione siano una buona strada per affrontare qualsiasi problema. Trovare scuse per la guerra e azioni negative non serve l'interesse di nessuna delle parti». Ma l’Afghanistan di oggi può permettersi una guerra con l’Iran? Aldilà delle minacce dei Talebani la risposta non può essere che negativa. L'Afghanistan che è completamente isolato dalla comunità internazionale dopo le restrizioni imposte dai Talebani al diritto delle donne all'istruzione e al lavoro, nonché la mancanza di inclusione politica nel loro governo e dopo quattro decenni di guerre e quattro milioni di afgani che vivono in Iran come rifugiati, non ha alcuna possibilità di imbarcarsi in un conflitto militare, senza dimenticare che come scrive Arab News «mentre l'Afghanistan affronta il suo terzo anno di siccità, il Paese si è classificato al terzo posto in una lista di emergenza del 2023 pubblicata dall'International Rescue Committee, che ha evidenziato come il cambiamento climatico contribuisca e aggravi la crisi nel paese». Tra coloro che osservano con attenzione la crisi tra Iran e Afghanistan c’è il Pakistan alle prese con giganteschi problemi interni, il Tagikistan e il Turkmenistan che temono problemi alle frontiere e di conseguenza la Russia che dei Talebani non si è mai fidata. La Cina osserva con preoccupazione le mosse dei Talebani visto che ha siglato onerosi contratti per sfruttare il sottosuolo e le miniere afghane, e lo stesso fanno gli Stati Uniti che vogliono indebolire il regime di Teheran sempre più minaccia nucleare. Anche al-Qaeda osserva quanto accade ai confini dell’Afghanistan e rischia nel caso di un conflitto di doversi trovare su entrambe le barricate. Con il ritorno dei Talebani al potere a Kabul l’organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden che non gli ex studenti coranici ha sempre avuto un rapporto simbiotico ha ripreso legittimità, tanto che esprime uomini di governo al pari dell’Haqqani Network. Tuttavia non può certo dimenticare che in Iran vivono importanti dirigenti del gruppo terroristico uno tra tutti è Saif al-Adel, all’anagrafe Mohammed Salah al-Din Zaidan, che sarebbe secondo le Nazioni Unite il nuovo leader di al-Qaeda dopo la morte di Ayman al-Zawahiri incenerito dai droni della Cia il 31 luglio del 2022 mentre si trovava sul terrazzo di una casa guarda caso a Kabul. Iran e al-Qaeda collaborano (al pari di Hezbollah) segretamente dagli anni '90 e fino ad oggi le relazioni si sono mantenute in equilibrio, ma una guerra Afghanistan/Iran cambierebbe tutto e a qual punto nessuno sa cosa potrebbe accadere.
2025-11-11
Nella biblioteca dei conservatori, dove la destra si racconta attraverso i suoi libri
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Nel saggio di Massimiliano Mingoia un viaggio tra i testi che hanno plasmato il pensiero conservatore, da Burke a Prezzolini, da Chateaubriand a Scruton. Un percorso che svela radici, contraddizioni e miti di una cultura politica spesso semplificata dalla cronaca.
C’è un'immagine molto particolare che apre il nuovo libro di Massimiliano Mingoia, La biblioteca dei conservatori. Libri fondamentali per capire la destra (Idrovolante Edizioni, 2025): «Immaginatevi di entrare nella casa di un conservatore e di sfogliare i volumi della sua biblioteca». È una metafora efficace e programmatica, perché il saggio di Mingoia è proprio questo: un viaggio attraverso le stanze del pensiero di destra, le sue genealogie, le sue contraddizioni, e la sua lunga, irrisolta tensione con la modernità.
Giornalista e studioso di cultura politica, Mingoia costruisce un itinerario che ha la forma di una libreria: al centro, sugli scaffali più consultati, i “padri nobili” del conservatorismo liberale — da Edmund Burke a Chateaubriand, da Tocqueville a Prezzolini — e accanto a loro gli autori del Novecento come Russell Kirk, Hayek e Roger Scruton. In alto, quasi a sfiorare il soffitto, le figure più controverse del pensiero reazionario e tradizionalista: de Maistre, Guénon, Jünger, Evola, de Benoist. In basso, ai margini ma non troppo lontani, i liberali “irregolari” come Sartori, Montanelli, Ricossa e Romano.
È una classificazione che racconta, meglio di molti manuali, la pluralità delle destre e la loro difficile convivenza: tra l’ordine e la libertà, tra l’autorità e il mercato, tra la fede e la ragione.
L’autore evita il tono accademico e adotta quello del cronista curioso. Ogni capitolo parte da un libro, spesso introvabile, per ricostruire il contesto e le idee che lo hanno generato. Così Le tre destre di René Rémond diventa il punto di partenza per capire la distinzione tra destra tradizionalista, liberal-conservatrice e nazional-populista; Intervista sulla destra di Galli della Loggia e Prezzolini offre l’occasione per riflettere sull’anomalia italiana, dove la destra è nata liberale e non reazionaria; Destra e sinistra di Bobbio e la replica di Veneziani mettono a confronto due visioni opposte, ma entrambe fondamentali per capire l’Italia degli ultimi trent’anni.
Uno degli episodi più vivaci del volume riguarda Dante Alighieri, collocato da Mingoia in posizione d’onore nella “libreria del conservatore”. Non tanto perché il Sommo Poeta fosse un pensatore di destra — anacronismo che l’autore smonta con finezza — ma perché con la Divina Commedia ha dato all’Italia una lingua e un’identità, un “mito delle origini” che ancora oggi accomuna patrioti e progressisti. Mingoia ricorda come, nel Novecento, Dante sia stato arruolato prima dal fascismo e poi, più di recente, citato da Giorgia Meloni nel suo Io sono Giorgia, a dimostrazione di quanto la tradizione culturale italiana resti terreno di contesa simbolica.
C’è anche spazio per il romanzo: Il Gattopardo e Il Signore degli Anelli appaiono nella sezione “narrativa”, a ricordare che il conservatorismo non vive solo di filosofia ma anche di mito, genealogie familiari e nostalgia per un ordine perduto. Giovanni Raboni, da posizioni progressiste, scrisse che “i grandi scrittori sono tutti di destra”: Mingoia cita la provocazione con ironia, ma riconosce che in certe opere — da Tomasi di Lampedusa a Tolkien — sopravvive l’idea di continuità, di radice, di limite, che è il cuore stesso della sensibilità conservatrice.
Nel capitolo conclusivo, l’autore si interroga sul presente. Esiste oggi una “destra conservatrice” in Italia? O la cultura politica di Fratelli d’Italia è più vicina al populismo identitario che al liberal-conservatorismo di Burke e Prezzolini? L’analisi, sorretta da studi di Marco Tarchi e da esempi tratti dalla storia recente, evita semplificazioni ma suggerisce una risposta: la destra italiana, nel suo insieme, ha ancora una debole consapevolezza della propria tradizione intellettuale.
La biblioteca dei conservatori è dunque molto più di un repertorio di citazioni o di un manuale: è un saggio divulgativo colto, ordinato, a tratti persino affettuoso verso le idee che esplora. Mingoia scrive da osservatore, non da militante: mette in luce le ambiguità del conservatorismo ma ne riconosce anche la profondità e la coerenza.
In un tempo in cui la politica vive di slogan e di tweet, l’autore invita il lettore a tornare ai libri, letteralmente. A entrare in una biblioteca e, come suggerisce il titolo, a scoprire cosa significhi davvero “conservare”: non il rifiuto del nuovo, ma la custodia della memoria.
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Il liceo classico Berchet di Milano. Nel riquadro, il prof Antonino Orlando Lodi (Ansa)
Il prof. Orlando Lodi: «Dopo il presidio al liceo Berchet ho spedito una email agli studenti per spiegare loro la gravità di quel gesto. La preside mi ha sottoposto a un provvedimento disciplinare per aver inviato scritti “non inerenti all’attività didattica”».
Il 9 e il 10 ottobre scorsi, un gruppo di studenti pro Pal ha occupato il liceo classico Giovanni Berchet di Milano. Antonino Orlando Lodi, professore di filosofia dell’istituto, ha voluto avviare un dibattito su quanto accaduto. Per farlo, si è avvalso dell’indirizzo di posta istituzionale della scuola per muovere rilievi critici sull’occupazione. Il preside, Clara Atorino, tuttavia, non ha gradito il gesto e il 31 ottobre ha aperto una procedura disciplinare nei confronti del docente, per aver spedito, senza la sua autorizzazione, «comunicazioni non riconducibili a finalità didattiche». Lodi, però, si difende e dice che il suo scritto tratta «il tema della violenza, della congruità dei mezzi ai fini, delle procedure della democrazia, del valore del pluralismo delle informazioni, oggetto di riflessione nel dialogo educativo. Lo abbiamo intervistato, per sentire che cosa avesse da raccontare.
2025-11-11
Dimmi La Verità | Santomartino: «Ecco che cosa sono la guerra ibrida e le dimensione cognitiva»
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 novembre 2025. Il generale Giuseppe Santomartino ci spiega i concetti di guerra ibrida e dimensione cognitiva.
Lunghe code per il rifornimento di carburante a Bamako (Ansa)
I miliziani circondano la capitale. Per gli 007 francesi, puntano a istituire il primo califfato africano. Gruppo Wagner pronto alla fuga. Giustiziata in piazza una tiktoker.
Il Mali potrebbe essere la prima nazione africana a finire nelle mani dei jihadisti. Il gruppo affiliato ad al Qaeda Jama’at Nusrat al-Islam al-Muslimin (Jnim) da settimane ha intrappolato la capitale Bamako in una morsa, bloccando l’arrivo di carburante e generi di prima necessità. Le colonne di camion che riforniscono la capitale maliana vengono continuamente attaccate e date alle fiamme, nonostante che le FaMa ( Forze armate maliane) scortino i convogli nel tentativo di forzare il blocco, assistiti dagli uomini dell’ex Wagner Group, oggi Afrika Corps, che non sono riusciti ad arginare l’avanzata dei jihadisti.







