2024-02-09
Scioperi a Mirafiori, Landini non canta più
Lavoratori Stellantis in sciopero a Mirafiori (Ansa)
Il segretario della Cgil che voleva portare i suoi a Sanremo contro il governo resta in silenzio sull’agitazione spontanea dei lavoratori per la richiesta di proroga della «cassa» di Stellantis. Ai tempi di Marchionne la Fiom guidava le proteste, oggi fa il minimo sindacale.C’è un Landini di lotta e un Landini di governo. Un Landini che ai tempi di Sergio Marchionne ne diceva di cotte e di crude all’allora Fiat e poi Fca, colpevole di non mantenere la presenza in Italia («La famiglia Agnelli non tira fuori neanche un euro per gli investimenti nel settore auto», evidenziava a gennaio del 2014) e un Landini quasi ossequioso verso Stellantis. Un Landini da talk show e da interviste sui quotidiani (Repubblica e La Stampa, che fanno capo al gruppo Gedi, quindi alla famiglia Elkann che co-gestisce Stellantis, sono quelli che preferisce) e un Landini che invece fa fatica a proferire parola. Quella che invano abbiamo cercato ieri compulsando le agenzie di stampa, sicuri che prima o poi, il segretario della più grande confederazione che difende i diritti dei lavoratori in Italia avrebbe detto per commentare lo sciopero spontaneo delle carrozzerie di Mirafiori. I lavoratori del primo e del secondo turno (bissando il corteo del giorno prima) protestano per le richieste di proroga della cassa integrazione arrivate da Stellantis. Pane per i denti di un barricadero di sinistra come lui. E invece no. Il silenzio. Un silenzio che stride ancor di più se si pensa che le ultime esternazioni di Landini era state in difesa del diritto dei suoi a salire sul palco di Sanremo per cantarle con ogni probabilità al governo. Le uniche dichiarazioni sullo sciopero sono arrivate dalla Fiom, la categoria che il segretario ha guidato per sette anni (dal 2010 al 2017) e alla quale deve la fama. «Quando le lavoratrici e i lavoratori scioperano spontaneamente», ha evidenziato Edi Lazzi, segretario provinciale torinese dei metalmeccanici rossi, «vuol dire che la situazione è arrivata al limite, non c’è più tempo da perdere, bisogna agire immediatamente. La cessazione del Levante rappresenta plasticamente l’arretramento di produzioni e la diminuzione di modelli. Questo non può che generare ulteriori ammortizzatori. Bisogna agire in fretta per ottenere un nuovo modello per Mirafiori». Insomma, abbiamo visto di meglio, o di peggio, a seconda dei punti di vista. Siamo al minimo sindacale. Quasi alle frasi di circostanza. Sono lontani anni luce i tempi della battaglie vere per Pomigliano, quando la Fiom negli stabilimenti dell’ex Fiat faceva il bello e il cattivo tempo. All’epoca non c’era ancora Maurizio Landini(che comunque aveva il suo peso), ma Gianni Rinaldini per i metalmeccanici, Guglielmo Epifani alla Cgil e soprattutto Sergio Marchionne alla guida della Fiat. Siamo nel giugno del 2010. Lo scontro epico è rappresentato dal referendum su Pomigliano. Fiat proponeva il piano «Fabbrica Italia»: un investimento da 20 miliardi fino al 2014 con il il raddoppio dei volumi delle produzioni in Italia, la chiusura di Termini Imerese e l’impegno in Campania con il trasferimento delle produzioni della nuova Panda dalla Polonia. In cambio si chiedevano una vera e propria rivoluzione del lavoro. Diciotto turni (dal lunedì al sabato compreso), più flessibilità e soprattutto maggiori controlli su malattie, assenteismo, permessi, ferie e diritti sindacali.Nonostante scioperi, manifestazioni e cortei, con l’aiuto di Cisl e Uil, il manager con il maglione portò a casa la partita con il 63% delle preferenze contro il 36% dei no, tutti targati Fiom. La battaglia dei metalmecanici rossi andò avanti (nel frattempo il segretario era diventato Maurizio Landini) almeno fino all’uscita della Fiat da Confindustria e alla nascita di un contratto ad hoc che la Fiom decise di non firmare. Mettendosi di fatto fuori dai giochi.Altre epoche, altre battaglie e anche altri manager, verrebbe da dire. Pensare che qualche anno dopo, neanche tanti, si sia arrivati alle accuse dell’ex ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, di una sorta di patto occulto tra lo stesso Landini (intanto passato alla guida della Cgil) e la famiglia Elkann con l’aiuto dei giornali (Repubblica e La Stampa): tu non mi attacchi su Stellantis e io ti garantisco un non meglio precisato appoggio «politico», fa davvero specie. O meglio si può spiegare solo in un modo. Con il passaggio di testimone alla guida del colosso delle auto tra Sergio Marchionne e John Elkann. Il primo credeva ancora fotemente nell’automotive e per le possibili alleanze guardava in Germania. Il secondo era filo-francese e puntava sulla finanza e la diversificazione del business di famiglia. Si sa come è andata a finire. Sulle auto comanda la Francia, la produzione in Italia viaggia a scartamento ridotto e Landini è costretto a far causa a Calenda per difendere il suo buon nome. Mentre la Fiom che in tutti questi anni ha dormito sullla sfida epocale della transizione verso l’elettrico, al di là dei giochi di potere, fa anche fatica a perorare gli scioperi. I buoi sono scappati e quando doveva combattere si è battuta contro il nemico sbagliato.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson