
Le sanzioni decise dal presidente statunitense Donald Trump hanno affossato la valuta russa e le aziende degli uomini vicini allo zar. La manipolazione valutaria è lo strumento di Washington per colpire l'economia di Mosca, basata sull'esportazione delle materie prime e l'importazione dei generi alimentari. Ma il Cremlino potrebbe avere un'asso nella manica: un nuovo sistema bancario sviluppato con la Cina per evitare agli oligarchi i controlli - e quindi le strette - volute dagli Usa.
Dopo l'attacco chimico lanciato sabato su Damasco dalle forze del regime siriano di Bashar Al Assad, il presidente statunitense Donald Trump ha chiamato in causa la Russia di Vladimir Putin. Washington ha accusato Mosca di immobilismo davanti alle stragi compiute da quello che è, a tutti gli effetti, il principale alleato in Medioriente del Cremlino assieme con l'Iran. Ma le tensioni tra le due super potenze si erano già accese venerdì con la pubblicazione da parte del Tesoro statunitense del cosiddetto «Kremlin report», la lista di oligarchi e società vicine a Putin e fondamentali per la sopravvivenza del Paese per quanto riguarda energia e materie prime. Sette uomini d'affari, 12 aziende e 17 alti funzioni sono così finiti nel mirino dell'amministrazione statunitense che ha deciso di introdurre nuove sanzioni verso di loro per una serie di «attività ostili», compresa l'ingerenza nella campagna per le presidenziali del 2016.
Era da oltre un anno e mezzo che l'euro non superava il valore di 73 rubli. Ed era dal giorno di Natale scorso che il dollaro non diventava più costoso di 59 rubli. È questo il risultato della prima giornata sui mercati dopo la decisione di Washington. Come se non bastasse, parallelamente all'indebolimento della moneta, il mercato azionario russo è in un calo da doppia cifra. Secondo il quotidiano economico russo Vedomosti, i sette oligarchi nel mirino avrebbero perso 3,3 miliardi di dollari su un patrimonio totale di 32,5 miliardi.
Il Cremlino, tramite Dmitry Peskov, il portavoce del presidente, ha bollato come «scandalose» le nuove sanzioni e ha fatto sapere che le imprese più colpite verranno «sostenute», ma intanto i titoli delle società collegate ai nomi che figurano nella nuova blacklist del dipartimento statunitense delle Finanze - businessmen e vertici di grandi società molto vicine a Vladimir Putin - accusano il colpo.
A soffrire più di tutte sono En+ e Rusal, controllate dal magnate Oleg Deripaska, accusato da Washington di operare come «agente» del governo russo. Accuse simili a quelle che hanno motivato le sanzioni contro il numero uno del colosso del gas Gazprom, Aleksej Miller. Altre figure di spicco (e quindi relative imprese) finite sotto sanzioni sono Victor Veksel'berg e il suo Renova Group, l'oligarca Sulejman Kerimov che ha costruito un impero con il cloruro di potassio e Kirill Shamalov, che ha fatto fortuna dopo aver sposato la figlia di Putin. I crolli odierni dei titoli sarebbero stati causati, secondo alcuni analisti, da una clausola riservata prevista dal dipartimento Usa delle Finanze: da Washington, infatti, sarebbe partito l'ordine agli investitori occidentali di vendere i titoli relativi ai gruppi nel mirino delle sanzioni entro un mese. Kirill Tremasov, analista di Loko invest, ha spiegato all'agenzia Bloomberg che «era da lungo tempo che non si vedeva una simile ritirata di massa dagli asset russi».
Il rublo è forse l'indicatore più importante per valutare lo stato di salute dell'economia russa, basata sulle materie prime (i tre quarti vengono esportate e i proventi rappresentano circa metà del bilancio dello Stato). Quasi metà degli alimentari vengono invece importati e dall'estero provengono anche i materiali per le industrie russe, che pagano in valuta straniera. È chiaro, quindi, come il crollo del rublo rischi di mettere in ginocchio Mosca e l'intero Paese ma anche come esso rappresenti un'arma nelle mani di Washington e dell'Occidente, pronti a manipolare la valuta russa per complicare i piani di Putin.
Ma, come La Verità ha raccontato non più tardi di due mesi fa, dietro alle accuse di Washington nei confronti di Mosca e di Pechino, accusata di concorrenza sleale e per questo anch'essa punita con sanzioni, c'è la lotta per il controllo dei bonifici. Di quello che si chiama «The society for worldwide interbank financial telecommunication». Cioè Swift, il sistema che la maggior parte di noi e quasi tutte le banche al mondo usano per le transazioni all'estero. Si tratta di un mezzo a stelle e strisce. Come raccontava Claudio Antonelli sul nostro giornale, «testa e software negli Usa e al tempo stesso consenteno di tracciare i movimenti dei grandi patrimoni in giro per il mondo». Non troppo tempo fa, la banca centrale di Mosca aveva fatto sapere di essere pronta a lasciare il sistema Swift per adottarne uno nuovo assieme a Pechino, che nel 2013 ha implementato un proprio circuito Cips, cioè China international payments system.
Ciò permetterebbe agli oligarchi vicini a Putin di aggirare la vigilanza statunitense. C'è da scommettere che dopo le sanzioni decise dagli Usa contro Russia e Cina il tema dell'autostrada parallela per i bonifici sino-russi possa tornare d'attualità. Anche perché, il sistema darebbe a Mosca e Pechino maggiore attrattività agli occhi degli stranieri.
Gabriele Carrer
Dietro le accuse a Mosca e Pechino c’è la lotta per il dominio dei bonifici
Ci risiamo. A ogni elezione Vladimir Putin emerge come un fiume carsico a influenzare le menti di chi è chiamato a mettere una crocetta sopra il logo di un partito. O almeno in molti lo vorrebbero dipingere così. Negli Stati Uniti il team di Hillary Clinton furioso per la sconfitta della candidata ha accusato account Facebook filorussi di sostenere Donald Trump.
Sul filone si sono inseriti molti altri accusatori, compresi politici italiani secondo cui i russi voterebbero alternativamente per Matteo Salvini e i M5s. Ultimo in ordine di tempo, il quotidiano La Stampa che affida al corrispondente dagli Usa il compito di infilzare la propaganda filorussa. Salvo poi verificare che si tratta di cinque account Twitter da poche centinaia di follower ciascuno. L'insistenza delle accuse e l'aleatorietà delle minacce invitano a pensare che la posta in campo deve essere qualcosa di completamente diverso da ciò che la stampa mainstream racconta. I toni sempre più accesi su una polemica che il buon senso porta a smontare in ogni suo aspetto si muovono in parallelo con un tema che al contrario non gode delle prime pagine dei quotidiani. Si tratta dell'autostrada che consente i pagamenti interbancari tra una nazione e l'altra. E le minacce di secessione.
Parliamo di «The society for worldwide interbank financial telecommunication», ovvero Swift, il sistema utilizzato dalla stragrande maggioranza delle banche. Comodo per tutti noi, permette a chiunque di fare un bonifico all'estero, lo Swift ha intrinsecamente più di una debolezza: ovvero è «americocentrico», in quanto ha testa e software negli Usa e al tempo stesso consente di tracciare i movimenti dei grandi patrimoni in giro per il mondo. Ciò vale pure per gli oligarchi russi. Recentemente i vertici della banca centrale di Mosca - Elvira Nabiullina in testa - hanno fatto sapere che gli istituti dell'Urss sarebbero pronti ad abbandonare lo Swift per un proprio circuito autonomo. L'uscita da un lato impedirebbe agli Usa di tracciare i bonifici, ma al tempo stesso di godere dei vasi comunicanti e quindi di attirare patrimoni esteri nel circuito delle proprie banche o case d'investimento. Dall'altro una Russia isolata, al pari di altre potenze in contrasto con Trump, consentirebbe agli Stati Uniti di evitare le fuoriuscite di informazioni e pure di denaro fisico. Basti ricordare quanto accaduto il 7 marzo del 2016. Dalla banca centrale del Bangladesh sono stati hackerati ben 951 milioni di dollari, di cui 81 provenienti a loro volta dalla sede Fed di New York. Transitati a Manila, sono stati trasferiti a Macao per poi sparire. Accusati i Nord coreani da parte degli americani, c'è chi ha letto un messaggio in codice diretto a Pechino. Perché anche il Dragone ha da tempo sviluppato un proprio circuito di pagamenti internazionali. Si chiama Cips, il cui acronimo sta per China international payments system. È stato implementato nel 2013 e ha tra i vari compiti quello di impedire agli occhi delle spie americani di introdursi nei conti correnti cinesi. Recentemente la piattaforma è stata implementa e sarebbe pronta a fare il salto. Se la Cina abbandonasse l'autostrada americana potrebbe rendersi indipendente e stringere relazioni ancora più salde con i russi. Immaginate che rivoluzione sarebbe nel campo della finanza.
Di fronte a una potenziale secessione di alcune nazioni disposte ad abbandonare la grande autostrada dei bonifici, appare chiaro gli Usa vogliano alzare un polverone su un diversivo che in apparenza nulla ha a che vedere con Facebook e i fake account.
Si tratta, in realtà, di messaggi tra intelligence contrapposte, le quali comprendono chiaramente le minacce occulte o i tentativi di mediazione sottostanti. In questa direzione ci porta anche l'analisi di un'altra polemica che vede come capofila sempre gli Stati Uniti e che si muove in parallelo alle accuse dirette «agli sgherri» di Putin.
A inizio settimana, l'Fbi ha apertamente accusato l'intelligence cinese di spiare i cittadini occidentali tramite gli smartphone. I direttori delle agenzie di sicurezza statunitensi - all'Fbi si sono aggiunti Cia e Nasa - hanno tirato in ballo i telefonini Zte e Huawei, in particolare per i dipendenti pubblici e le agenzie statali. Hanno inoltre invitato i privati cittadini a servirsi di alternative made in Usa quando disponibili. «I cinesi possono spiarci con i loro telefonini», è stato detto durante una conferenza stampa che estrapolata dal contesto farebbe sorridere. In poche parole gli Usa accusano la controparte cinese di fare esattamente ciò che ha rivelato Edward Snowden. Solo che nel 2013 a finire nel mirino erano stati gli stessi apparati americani.
«Prima di scegliere la marca di telefonino, decidete da chi volete farvi spiare», sono soliti dire gli esperti di cyber sicurezza e le accuse dell'Fbi confermano questa vulgata. Il che a maggior ragione ci riporta alla necessità di tradurre i veri significati del messaggio spedito dall'Fbi. Al di là del timore sulle transazioni finanziarie, gli smartphone del Dragone nascondono un importante tema industriale. Huawei, che ha risposto picche ai poliziotti americani, ha un business plan che prevede di vendere nei prossimi cinque anni quattro miliardi di cellulari. L'azienda cinese sta sviluppando il data mailing, la capacità di estrarre dalle mail le informazioni sensibili per il governo. Un obiettivo che se fosse vero sarebbe in grado di far tremare tutte le intelligence occidentali. Altro che cinque account fasulli su Twitter.
Claudio Antonelli
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