2024-05-27
Santo Versace: «Assurdo far passare l’Italia come un Paese che discrimina»
Santo Versace e la moglie Francesca De Stefano (Getty Images)
L’imprenditore: «Lo dice uno che ha vissuto il mondo della moda, dove gli omosessuali erano in prevalenza. La politica sottovaluta il settore, forse lo ritiene una frivolezza».Nel libro Fratelli, una famiglia italiana (Rizzoli), la parola più ricorrente è un nome, è l’uomo al fianco dell’autore in copertina, è «Gianni». Più di trecento volte in 160 pagine. Un fratello di due anni più piccolo che non c’è più per morte violenta, e che per Santo Versace è stato soprattutto un dolore, «immenso», per 25 lunghi anni. «Nei primi quattro dopo l’omicidio dormivo nel suo letto nella casa sul lago di Como, a Moltrasio, e ci andavo da solo. Chissà, forse lo cercavo, era per me tentare di riportarlo in vita. Fino al 2001 è stata una perdita che ha generato un forte malessere esistenziale». Non è stata l’unica perdita della sua vita. Quando non aveva ancora compiuto 9 anni morì la sorella maggiore Tinuccia, diminutivo di Fortunata, nemmeno dieci anni, per peritonite. «Non esiste in italiano un termine per definire chi perde un fratello o una sorella. Non c’è l’equivalente di “vedovo” o “orfano”. È un dolore straziante». Donatella arrivò «come una benedizione due anni dopo la morte di Tinuccia e fece tornare il sorriso sul volto di nostra madre e di tutti noi. Una bambina magica che prendeva il posto di un angelo».Si supera, la perdita?«Ho capito che ricordare purtroppo non serve, né mai servirà a comprendere né ad accettare. Però grazie a mia moglie Francesca De Stefano, ho compreso che ripercorrere quei momenti è terapeutico, mi ha aiutato a liberarmi del dolore sordo e cieco, soffocato dentro di me per anni».I bagni di mezzanotte, il profumo del melone fresco, le uscite in barca per pescare sardine con le lampare. Così lei nel libro racconta l’infanzia a Reggio Calabria con suo fratello.«Si facevano scampagnate con il cibo portato da casa, e al ristorante non si andava. Gli adulti uscivano da anni di razionamenti, fame e paura della guerra appena finita. Era una vita semplice».Poi creaste un’azienda di lusso. Mancava qualcosa, in quella semplicità?«Proprio il contrario, no, non mancava niente. Erano anni di voglia di costruire, e di amore per il lavoro, due elementi che purtroppo oggi…».Sono andati perduti?«Lo temo. Allora il lavoro era lo strumento di realizzazione di una persona, oggi lo si soffre. Si pensa che studiare e applicarsi per imparare un mestiere sia sfruttamento e non un’opportunità. Il successo arrivò con la genialità di Gianni. Che aveva appreso tutto guardando nostra madre, sarta eccezionale, che avrebbe voluto fare il medico e invece il nonno le disse che frequentare gli ambienti maschili sarebbe stato disonorevole». E lei?«Io guardavo a mio padre. Un atleta, nel ciclismo, nel calcio oltre che nella corsa: faceva tempi da Olimpiadi. Così sono cresciuto disciplinato e coscienzioso, e applicai le sue doti da commerciante fin dal mio primo lavoro, in banca, e nello sport con il pallone da basket».Nel libro racconta di essersi chiesto se suo fratello soffrì l’essere omosessuale in una città del Sud. «Gianni era un cultore della bellezza, senza tabù. Aveva una tale grinta, una tale personalità, che già allora si dichiarava felice di essere omosessuale. Ignorava gli idioti e aveva una leggerezza unica nel trattare anche questi argomenti».Oggi di diritti si parla molto.«Sì, ma in un conflitto permanente. Certo che c’è e c’è sempre stata gente che non capisce, ma pensare che l’Italia sia un Paese che discrimina, quando invece è uno dei democratici e libertari al mondo… è un’esagerazione. Il politicamente corretto ha confuso le menti. E glielo dice uno che ha vissuto il mondo della moda, dove gli omosessuali erano in prevalenza e le donne d’impresa che ho incontrato sono poi andate a dirigere aziende importanti nel mondo».Anche lei come Gianni vive cercando la bellezza?«Cerco l’armonia, l’equilibrio. Soprattutto interiore. Quando mi chiedono un giudizio sul modo di vestire altrui, lo guardo negli occhi e cerco di capire se è capace di amarsi e rispettarsi, così da essere in grado di amare gli altri». La morte di Gianni Versace fu anche la fine di un sogno imprenditoriale.«ra già più di un sogno, all'epoca. Gianni morì nel luglio 1997, la realizzazione della fusione con Gucci era già preparata per il maggio 1998. Sarebbe nato il primo polo italiano della moda, con marchi separati ma complementari e una grande integrazione industriale. Saremmo stati un’unica azienda ma con doppia capacità di impatto».È il presidente fondatore di Altagamma, una fondazione per la crescita e la competitività delle imprese dell’industria culturale e creativa italiana.«Il made in Italy è amato in tutto il mondo, grazie agli imprenditori dell’industria creativa e culturale italiana. Di cui, me lo lasci dire, si parla troppo poco. Altagamma nasce nel 1992, per mettere a sistema le competenze di chi promuove nel mondo l’eccellenza, l’unicità e lo stile di vita italiani. Purtroppo la politica non ha mai capito che si poteva precorrere i francesi e fare della moda una bandiera».Miopia?«La moda in Italia è sempre stata forse ritenuta una frivolezza, invece che un settore figlio del Rinascimento che crea posti di lavoro, forma i suoi dipendenti, e lotta per conquistarsi quote di mercato. Nell’agenda politica c’è sempre altro, intanto ci sono posti di lavoro che non vengono occupati per mancanza di personale».Non è stata l’unica delusione che le ha dato la politica.«L’ho vissuta in prima persona quando venni eletto in Parlamento e mi sono accorto purtroppo che ciascuno si faceva i fatti suoi e in pochi lavoravano per il bene del Paese».L’impegno in politica iniziò da giovane.«All’università di Messina, dove mi laureai in Economia e commercio. Era ancora attiva l’Unuri, Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana, fondata subito dopo la guerra. Mi candidai nel ’65 e risultai il primo eletto per la Sinistra universitaria. Ero anche vicesegretario della Federazione giovanile socialista. Volevamo cambiare il mondo». E poi?«Il mondo ha cambiato noi. Il Sessantotto è stato esplosivo. Ha prodotto conquiste nell’emancipazione, ma ha fatto tanti danni».Per questo cambiò schieramento e si candidò con Popolo delle libertà?«Non fu conseguenza diretta, piuttosto il frutto di un incontro: Bruno Ermolli mi presentò a Silvio Berlusconi - affabulatore straordinario - e furono subito molto chiari. Con un seggio blindato in Calabria, il posto da deputato era garantito».Se ne tirò fuori nel giro di un paio d’anni.«Mancava armonia. E credo che purtroppo la corruzione non si sia mai fermata dai tempi di Tangentopoli. La politica dovrebbe essere la più alta forma di carità, attenta solo al bene comune. Ma tutto serve nella vita. Quel che ho vissuto mi ha portato alle scelte di campo di oggi».Si riferisce al suo ente filantropico?«Con mia moglie Francesca abbiamo creato la Fondazione Santo Versace per sostenere i più fragili. È un progetto nato dall’amore che ci lega, e dal desiderio che viva per sempre».Vi incontraste quasi 20 anni fa.«Siamo molto uniti e felici. È una persona di splendido carattere e dalla brillante intelligenza. È avvocato, ha venticinque anni meno di me. Ci siamo sposati prima con rito civile nel 2014 e nel luglio dello scorso anno in Chiesa».Scelta di fede?«Sono sempre stato credente, ma è stata Francesca a farmi capire che il mio agire di una vita - in azienda, nei rapporti umani, negli incontri - ha seguito la strada della Dottrina sociale della Chiesa, quella che mette al centro la dignità delle persone e pensa al bene comune e alla solidarietà. Da qualche anno abbiamo cominciato ad approfondire insieme un percorso religioso, grazie a persone straordinarie che abbiamo incontrato e al nostro padre spirituale don Aldo Bonaiuto, che ci ha poi sposati. Siamo molto vicini alla comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. L’impegno nella Fondazione ha anche questo fondamento».Sostenete numerosi progetti.«Dai regali del matrimonio ai diritti d’autore del libro, tutto è destinato a progetti per chi vive in condizione di fragilità e disuguaglianza sociale. La “Cittadella dei ragazzi” gestisce case di accoglienza per minori provenienti da dolorose storie familiari e stiamo cofinanziando la realizzazione di un centro polifunzionale per loro. “Made in carcere” offre una seconda opportunità alle detenute insegnando loro il mestiere della sartoria. A Frosinone siamo al fianco di Nuovi Orizzonti sul sostegno a chi lotta contro il disagio sociale. Sono solo alcuni dei nostri progetti».Ce ne saranno di nuovi?«Presto. Il mio desiderio è mettere a frutto quello che ho imparato lungo una vita, e cioè che il segreto è fare rete. Come privati, con le altre associazioni e fondazioni del terzo settore, ci tocca fare molto per occupare gli spazi che la politica ha abbandonato. Così come in azienda si rema tutti per il successo e si fa squadra, così riusciremo ad aiutare chi ha bisogno».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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