2025-03-09
La santa ostinazione di chi insegue l’amore divino attraverso i tormenti
Lucetta Scaraffia (Getty Images)
Nel suo libro Lucetta Scaraffia presenta otto mistiche laiche ben lontane dal femminismo che va di moda oggi. Il prototipo è Simone Weil, che ha vissuto in cerca della fede. Non l’ha trovata, ma non ha smesso di provarci.Tra le tante celebrazioni della femminilità che hanno affollato l’8 marzo ce n’è almeno una meritevole d’essere approfondita, se non altro per la sua l’originalità. Lucetta Scaraffia (in Dio non è così, Bompiani) ha deciso di raccontare otto donne che decisamente sfuggono alla mondanità prevalente. Lei le definisce femministe, ma ben poco hanno in comune con il femminismo o la caricatura del femminismo oggi di moda.Sono otto mistiche laiche: Catherine Pozzi (1882-1934), Charlotte von Kirschbaum (1899-1975), Adrienne von Speyr (1902-1967), Banine (1905-1992), Élisabeth Behr Sigel (1907-2005), Simone Weil (1909-1943), Romana Guarnieri (1913-2004) e Chiara Lubich (1920-2008). Donne che hanno scelto di affermare sé stesse provando a trascendersi, in uno sforzo talvolta difficile da comprendere. Tra queste la più famosa è probabilmente Simone Weil, che ultimamente gode di un certo successo. Adelphi ne ha da poco ristampato Attesa di Dio, da Meltemi è uscito Attenzione e preghiera. Ed è proprio in questi due testi che sta la sua lezione più attuale, sebbene sia in totale contrapposizione al nostro tempo.Secondo la Scaraffia, il successo di Simone è spiegato da ragioni non esattamente edificanti. «Se la osserviamo con un po’ di distacco, questo successo si spiega con chiarezza: Simone è l’icona perfetta per il nostro tempo, attratta dal cattolicesimo ma sulla soglia, sempre sulla soglia di quell’ateismo che aveva garantito la sua appartenenza alla più alta società intellettuale. In realtà», scrive Scaraffia, «un esempio perfetto di spiritualità profonda ma senza fede. Ecco spiegata la ragione di fondo del suo successo: la spiritualità è ciò di cui va in cerca l’essere umano contemporaneo, mentre la fede lo allontana, lo riempie di diffidenza. Lo dice bene Martin Buber nel suo libro L’eclissi di Dio: oggi l’essere umano “non nega un Dio trascendente, lo mette solamente da parte...” perché “non è un Dio che la coscienza moderna detesta, bensì la fede”. Fede significa obbedire, significa rinunciare a sentirsi padroni del mondo e di sé stessi. La spiritualità di Simone è vera e profonda, ma lontanissima dalla fede».Sorge il dubbio che la studiosa sia fin troppo severa. È forse vero che Simone Weil non superò mai la soglia della fede. Ma forse è proprio qui che la sua esperienza può insegnare molto. Perché, nonostante la difficoltà tremenda che essa sperimentava nella ricerca del divino (probabilmente resa più dura della depressione), Simone non smise mai di cercare, di perseverare con una ostinazione santa. Sviluppò una sua particolare teologia del dolore inteso come uno stato a cui abbandonarsi per poter conoscere la vita vera e in questo abbandono ci sono, se non una fede, una fiducia e una convinzione che al nostro mondo appaiono pressoché inaudite.In qualche modo, la storia della Weil è un allenamento costante, persino sfinente. Nulla vi è di più prezioso, nella sua visione, della preghiera. E questa preghiera è attenzione e abbandono insieme. «La chiave di una concezione cristiana degli studi è che la preghiera è fatta di attenzione», scrive Simone. «Consiste nell’orientare verso Dio tutta l’attenzione di cui l’anima è capace. La qualità dell’attenzione incide molto sulla qualità della preghiera. Non vi si può supplire con il calore del cuore. In contatto con Dio entra soltanto la parte più elevata dell’attenzione, quando la preghiera è abbastanza intensa e pura perché tale contatto si stabilisca; ma tutta l’attenzione viene rivolta a Dio». Tale attenzione rimanda allo svuotamento di Meister Eckhart: come la coppa vuota può accogliere il vino, così il cuore svuotato accoglie la divinità. Era l’esercizio, questo, della cavalleria spirituale del Medioevo.Per perfezionarsi in tale pratica, dice Weil, lo studio è decisamente utile. «Gli esercizi scolastici sviluppano, certo, una parte meno elevata dell’attenzione. Nondimeno sono pienamente efficaci per accrescere quel potere d’attenzione di cui si disporrà al momento della preghiera, purché li si esegua senza altro fine che questo. Il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione, anche se oggi pare lo si ignori». Ecco il primo punto fondamentale: oggi la nostra attenzione è costantemente rapita dagli schermi, dal flusso infinito di informazioni di ogni tipo, dal rimbombo dei suoni e della prepotenza delle luci costanti. Perdiamo l’attenzione e, con essa, la capacità di trascenderci. Siamo distratti e disinteressati. Non siamo in grado - colmi come ci ritroviamo e sovrastimolati - di ricevere nulla.Allo stesso modo non siamo più in grado di donare, cioè di dedicarci disinteressatamente agli altri. L’attenzione, secondo Simone, è una specie di dono. «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione», scriveva Weil a Joel Bouquet. Ritorna, qui, il Medioevo cavalleresco. Simone, in uno scritto importante, I catari e la civiltà mediterranea (Marietti), esaminò il lascito spirituale della civiltà della Linguadoca, il mondo trobadorico dell’amor cortese. «Mai è stato necessario quanto oggi resuscitare questa forma di pensiero», diceva. «Siamo in un’epoca in cui la maggior parte della gente sente confusamente, ma vivamente, che ciò che nel XVIII secolo era chiamato Lumi costituisce - ivi compresa la scienza - un nutrimento spirituale insufficiente; ma questo sentimento sta per condurre l’umanità per i peggiori sentieri».Un nutrimento bastevole lei lo trovò nei racconti cavallereschi del Graal. In particolare nella storia di Parsifal, al quale è concesso accedere al sacro calice in virtù di una domanda che egli pone al re malato del Graal: che cosa ti affligge? «La scoperta che le dicevo è in fondo il soggetto della storia del Graal», scrive Simone a Bousquet. «Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: “Qual è, dunque, il tuo tormento?”. E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui. E questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono. Reciprocamente, la piena cognizione che le cose e gli esseri sono reali implica la perfezione. Ma anche infinitamente lontani dalla perfezione possiamo, purché si sia orientati verso di essa, avere il presentimento di questa cognizione; ed è cosa rarissima. Non v’è altra autentica grandezza. Parlo di tutto questo non propriamente come un cieco, ma come un quasi cieco potrebbe parlare della luce».Attenzione è, dunque, attenzione all’altro, forgiata dall’allenamento. Weil lo precisa tornando sull’argomento in Attesa di Dio: «Nella prima leggenda del Graal», spiega, «è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli sventurati, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo».È uno sguardo, questo, che di questi tempi riesce difficile dare, poiché ci è quasi impossibile - dato che tutto ci spinge a fare il contrario - donare noi stessi. Donarsi come fece Simone Weil, con un dispendio di sé a tratti logorante. Forse questo non le guadagnò la fede, ma le fece sperimentare una forma di amore tra le più elevate possibili.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.