2022-11-26
I parenti dell’eroe Todaro: «Non strumentalizzatelo. Che c’entra lui con le Ong?»
Il Capitano di Corvetta Salvatore Todaro (Getty Images)
Il film sul sommergibilista, che ne fa una specie di Carola Rackete ante litteram, non piace agli eredi: «Gli accostamenti con l’attualità mistificano le sue imprese».In passato succedeva di frequente: si andava all’anagrafe a registrare un nuovo nato, e l’addetto capiva male il nome o il cognome, ne modificava le lettere, e creava qualcosa di nuovo. Per questo Salvatore Totaro ha una lettera di differenza dal suo antenato, il capitano Salvatore Todaro, eroe del mare. La storia della sua famiglia, dopo tutto, è fatta anche di nomi che si incrociano: pure il nonno del nostro si chiamava Salvatore, ed era il cugino del grand’uomo che il 16 ottobre del 1940 si rese protagonista di uno degli episodi più straordinari della Seconda guerra mondiale.Ma vediamo di riannodare i fili, per non perderci fra i rami della genealogia. Salvatore Todaro, comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina quel giorno di tanti anni fa si trovava con i suoi uomini al largo dell’isola di Madera quando avvistò un’imbarcazione nemica, il piroscafo belga Kabalo. Lo attaccò senza esitare con i siluri e con il cannone di bordo, e lo colpì fino ad affondarlo. A vittoria ottenuta, arrivò il grande gesto di umanità: Todaro fece affiorare il suo sommergibile e soccorse i 26 membri dell’equipaggio del Kabalo, salvandoli da morte certa sul fondo dell’Oceano.A questa vicenda è ispirato il nuovo film di Edoardo De Angelis intitolato Il Comandante, con Pierfrancesco Favino nei panni dell’eroe italiano. Di questo lungometraggio ci siamo occupati nei giorni scorsi, per denunciare una sgradevole mistificazione della storia.Lo sceneggiatore del film, Sandro Veronesi, quotidiani come La Stampa e Repubblica e lo stesso regista De Angelis hanno maldestramente calato Todaro nella nostra attualità, trasformando un eroe di guerra in una sorta di antesignano di Carola Rackete. Poiché Todaro salvò gli occupanti del sommergibile nemico, i nostri intellettuali si permettono di avvicinarlo agli attivisti delle Ong che recuperano migranti al largo della Libia.Inoltre, hanno provveduto a oscurare una parte non irrilevante della storia personale del comandante. Salvatore Todaro, nel 1941, entrò nella X Mas. Assieme a Junio Valerio Borghese, che era stato suo compagno d’accademia, procedette alla riorganizzazione della flottiglia che in quel momento versava in pessime condizioni. E fu proprio combattendo per la Decima che Todaro trovò la morte nel dicembre 1942. Di tutto questo i media italici non hanno fatto menzione, con l’eccezione di Repubblica secondo cui le incursioni di Todaro per la Decima furono «più o meno le stesse che oggi compiono i commandos ucraini contro i russi».Il senso di queste operazioni è chiaro: poiché bisogna in ogni modo evitare di tirare in ballo il fascismo, anche alla lontana, tocca in qualche modo risciacquare in acque progressiste la figura del comandante, per non renderla indigesta a sinistra. Ed è qui che rientra in gioco Salvatore Totaro, discendente del grande marinaio.Dopo aver letto gli articoli di giornale che annunciavano il film, egli si è sentito amareggiato e si è sfogato sui social. «Prendere dalla storia ciò che serve a strumentalizzare il presente serve solo a far capire che si può fare di tutta l’erba un fascio. Il mare è teatro di tante realtà e chi ha onorato la vita in tempo di guerra non può essere accostato a chi la proietta come merce di scambio monetizzandola», ha scritto.Per farla breve, il Salvatore di oggi ha trovato un modo elegante per dire: giù le mani dal Salvatore di ieri. Un pensiero che egli ribadisce al telefono con La Verità: «Salvatore Todaro non c’entra con le Ong, è un parallelismo fra due mondi diversi che non c’entrano nulla. Così come non c’entrano i riferimenti agli ucraini. Credo che l’evento storico debba essere lasciato a sé, non vorrei che con tutti questi riferimenti all’attualità che ho visto sui giornali si smarrisse il senso delle imprese di Todaro e il valore sulla sua figura».Anche sulla X Mas il nostro interlocutore ha le idee piuttosto chiare: «Non si può proseguire a forza di pregiudizi», sospira. «La storia è quella, non si può negare. Ho seguito un po’ la vicenda di Enrico Montesano, e penso che non andasse nemmeno sospeso per aver indossato la maglietta con il motto della X Mas. In ogni caso, al netto di queste polemiche, quel che a me interessa è che la figura di Todaro sia ricordata per quella che è, nella sua interezza. Il suo nome suscita ammirazione in ogni marinaio, da decenni, e questo non ha nulla a che fare con le Ong o con tutte le altre questioni odierne. Viene ammirato per le sue imprese, per il suo eroismo, e anche per la sua umanità».Il messaggio è limpido: basta strumentalizzazioni, basta omissioni, basta parallelismi politicamente corretti. «Su questa vicenda c’è stata ipocrisia, la stessa che da anni c’è su tutta la storia italiana. Non ci si può appropriare di un eroe».«Mio nonno era cugino di primo grado di Salvatore Todaro», continua il nostro Salvatore. «Con Gianni Bianchi abbiamo realizzato varie pubblicazioni su di lui, che abbiamo spedito al regista De Angelis e a Pierfrancesco Favino. Ho avuto anche un contatto, molto fugace per la verità, con Sandro Veronesi. Forse più avanti ci sarà occasione per vederli di nuovo». E chissà che non si riesca anche a fare un po’ di chiarezza pure sugli aspetti storici che agli illustri intellettuali non vanno giù.Quanto a Graziella Todaro, la figlia del comandante, quando solleva la cornetta sorride e ci tiene a stare lontano dalle polemiche. «A mio padre non si può dare una collocazione politica a destra o a sinistra», dice. «Se si parla di lui bisogna parlarne per come era: un uomo buono. A me interessa solo questo, a prescindere da chi racconti la sua storia».Un uomo buono, un eroe. Ma forse il punto sta proprio qui: nel furore ideologico odierno, si può essere eroi soltanto se rispettano i confini del pensiero prevalente. A costo di insultare la memoria di un immenso italiano.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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