2023-04-03
Sala appoggia la Schlein. È così inclusivo che non vede oltre i calzini arcobaleno
Il sindaco di Milano sostiene il segretario dem per continuare le sue battaglie elitarie. Sì a ciclisti e diritti Lgbt e nessuna gestione dell’immigrazione. I risultati si vedono.Beppe Sala non è il sindaco di Milano, ma il capo di una frazione del capoluogo lombardo. Infatti, da tempo egli rappresenta gli interessi e le opinioni di una minoranza che risiede nella cosiddetta Ztl. I suoi punti di riferimento sono i milanesi che sognano di vivere in una città inclusiva ed esclusiva, dove le case sono a emissioni zero e il prezzo al metro quadrato a quattro zeri. Il primo cittadino della capitale economica italiana parla a residenti favorevoli al car sharing, al social housing, alla carbon neutrality e alla green transition, perché sapendoli anglofoni come lui (ieri in tv, dalla Annunziata, si è lanciato in una difesa del multiculturalismo linguistico) sa che sono ecologisti, antifascisti, ciclisti e anche un po’ masochisti. Infatti, applaudono a ogni moltiplicazione delle piste ciclabili e alla riduzione delle corsie stradali, convinti che diminuendo l’asfalto riservato alle quattro ruote prima o poi calerà anche il numero di veicoli in circolazione. E dopo l’area C esultano se è istituita l’area B, sognando un giorno di arrivare in fondo all’alfabeto con un’area Z a traffico limitato che inglobi tutta Italia. Nel mondo decarbonizzato, denuclearizzato, defascitizzato, deitalianizzato e anche appiedato di Sala e compagni c’è però posto per le coppie Lgbt, per l’utero e i monopattini in affitto, per i centri sociali e i centri per la fecondazione assistita e, ovviamente, per i centri di accoglienza migranti. Infatti il sindaco e la sua minoranza sono per la difesa e la valorizzazione delle minoranze.E le maggioranze? Beh, quelle possono attaccarsi al tram, perché Sala è da anni impegnato in un tour ciclistico-elettorale con esibizione del calzino arcobaleno. In attesa che completi il giro, e finisca di occuparsi di gestazione per altri e di registrazione per coppie gay, Milano è diventata una delle città più inquinate d’Italia, con parametri oltre ogni soglia per 84 giorni l’anno. A fermare le emissioni non è servito vietare la circolazione delle vetture più vecchie, perché invece di diminuire, a causa delle carenze dei servizi di trasporto pubblico, il traffico è aumentato. Molto probabilmente a fermare l’inquinamento non basterà nemmeno trasformare l’intera area urbana in una low-speed zone, obbligando dall’anno prossimo auto e motocicli a procedere a passo di lumaca, perché la circolazione diventando più lenta rischia di far aumentare le emissioni. Del resto non c’è da stupirsi: quasi mai le ricette del sindaco ecologista e trasformista (nato con il centrodestra si è riciclato con il centrosinistra) funzionano. Da quando si atteggia a paladino di ogni profugo, la piccola e grande criminalità è cresciuta, con il risultato che a sentirsi profughi, cioè bisognosi di protezione, sono i milanesi che non fanno parte dell’élite che vive nella Ztl. Nella classifica elaborata dal Sole 24 Ore delle province con più reati, Milano è prima, mentre per le rapine si accontenta di essere seconda, quanto a scippi e stupri si piazza terza, anche se in numeri assoluti svetta su tutti. La realtà dei fatti però non spinge Sala a cambiare strada. Anzi, in vista della fine del suo mandato, dopo aver guardato con attenzione un po’ tutti, da Matteo Renzi a Luigino Di Maio, ora sposa la causa di Elly Schlein, facendo sapere (ma solo ora che è diventata segretario del Pd) che lui l’avrebbe voluta in giunta come assessore. Peccato che non ci sia riuscito. Pensate come sarebbe stata contenta la maggioranza dei milanesi di avere un vicesindaco che «è una donna, ama un’altra donna, non è una madre, ma non per questo è meno donna». I residenti della Ztl sarebbero andati in brodo di giuggiole. Quelli della Milano che non sogna le emissioni zero ma l’emissione di qualche mandato di cattura che tolga dalle circolazione le borseggiatrici con libertà di delinquere e i migranti con libertà di spaccio forse un po’ meno. Magari avrebbero potuto consolarsi lasciando a casa l’auto. Del resto, come insegna Sala, per cambiare a qualche cosa si deve pur rinunciare. Cominciando dal buon senso.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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